Museo Civico di Modena
Largo Porta S.Agostino, 337
Modena (MO)
Fetti Domenico
1589/ 1623
Altra Attribuzione: Eberhard Keilhau
dipinto

carta/ applicazione su tela/ pittura a olio
cm 33 (la) 41 (a)
sec. XVII (1620 - 1620)
n. 170
Il dipinto, proveniente dalla modenese raccolta Palmieri, recava un’attribuzione a Fetti che più tardi Ragghianti (1939) avrebbe dirottato in favore di Eberhard Keilhau. Nel ripristinare il riferimento al Fetti, Volpe (1980) giudicava tale nuovo giudizio “sintomatico [...] giacché a stento può apparire credibile, in un artista operante verso il 1620, questa libertà sfrenata del tocco veloce e infallibile, e il tono morale tanto prossimo a quello di un ritratto nordico, quasi rembrandtiano, derivante dalla sincerità dell’impressione ottica e dalla mancanza coerente di qualsiasi schema classico”. In seguito il riferimento è stato negato da J. M. Lehmann (1967) e ancora da E. A. Safarik e G. Milantoni (1990), per i quali “certamente non è un’opera dell’artista, ma è assai difficile avanzare una proposta alternativa”. Pur rendendoci conto della difficoltà che l’ascrizione a Fetti prospetta, ci sembra che essa sia l’unica in grado di giustificare al momento le componenti che intervengono nella definizione, peraltro così originale, di questo dipinto. I rimandi istituiti da Volpe alla cultura di Jacob Pynas e Pieter Lastman consentono infatti di intendere il carattere nordico del dipinto e insieme di ripercorrere le radici stesse della cultura romana di Fetti. La pratica della pittura ad olio su carta, di origine veneziana, ma ben nota anche ai Carracci, consente qui uno studio dal vero di sorprendente vivezza, al quale la febbrile motilità del pennello aggiunge verità di lumi e di pelle, attenta altresì ad annotare con fervida sprezzatura lo scroscio del fazzoletto annodato sul petto. I passi da richiamare a confronto nella grande Moltiplicazione dei pani e dei pesci ora nel Palazzo ducale di Mantova (circa 1620) sono di fatto molti, pur nella diversa lucentezza consentita dal medium qui impiegato. Non ha però ragion d’essere l’osservazione di Malaguzzi Valeri (1924), secondo il quale all’interno della tela questa immagine sarebbe ripetuta per due volte. In proposito, e con maggior ragione, Volpe ne sottolineava il carattere di “studio preparatorio gettato di prima per l’appunto su carta, e quindi destinato a più privati e consapevoli circuiti di pittura”, slegati da ogni immediato utilizzo.