Titolo operaRegistrum epistularum
Anno604 d.C.
Periodoetà bizantina
EpocaAlto Medioevo
Noteed. D. Norberg (ed.), V. Recchia (a cura di), Registrum epistularum / Lettere, 4 voll., Roma 1996-1999 (trad.: V. Recchia (a cura di))
Testo originaleGregorius Georgio praefecto praetorio Italiae.
Bonitatem vestrae excellentiae, quam semper cognitam habui, nunc experimento superaddito recognovi. Unde omnipotentem Dominum deprecor ut sua vos protectione custodiat, vobis que et apud se gratiam et apud serenissimos principes largiatur. Si autem nullae hominum qui intersunt nos pravitates dividant, esse me vestrum proprium valde certum tenete. Quod in omnipotente domino confido, quia hoc vobis etiam per documentum meae attestationis ostendo.
Salutationis igitur alloquium solvens, peto ut, quotiens usus exegerit, vestris me affatibus relevare curetis.
TraduzioneGregorio a Giorgio prefetto del pretorio d’Italia.
La bontà dell'eccellenza vostra, che mi è stata sempre nota, ora la riconosco anche per esperienza. Perciò prego Dio onnipotente che vi custodisca con la sua protezione e vi doni la sua grazia e quella del serenissimo imperatore. Se poi non ci dividerà nessuna malvagità di uomini che si intromettano tra noi, tenete per certo che sarò tutto vostro. Il che spero di ottenere da Dio onnipotente, come vi sto dimostrando anche con il documento di questa mia attestazione.
Rivolgendovi quindi i miei saluti, vi chiedo che mi accordiate il conforto delle vostre parole tutte le volte che l'opportunità lo richieda.
Note591 d.C., febbraio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza del prefetto del pretorio d’Italia, Giorgio: il prefetto del pretorio è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato.
Testo originaleGregorius Romano patricio et exarcho Italiae.
Scribendi ad excellentiam vestram si causa omnino nulla suppeteret, nos tamen esse oportet caritate paterna de vestrae salutis incolumitate sollicitos, ut, quod de vobis audire cupimus, internuntiorum frequentia cognoscamus. Praeterea pervenit ad nos Blandum Hortonensis civitatis episcopum, longo iam tempore in civitate Ravennati a vestra excellentia detineri. Et fit ut ecclesia sine rectore et populus quasi sine pastore grex defluat, et ibidem infantes pro peccatis absque baptismate moriantur. Et rursus quia non credimus quod eum excellentia vestra nisi ex aliqua probabilis excessus causa tenuerit, oportet ut, habita synodo, palam fiat, si quod in eum crimen intenditur. Et si talis in eo culpa repperitur quae ad usque degradationem sacerdotii perducatur, aliam ordinationem necesse est inquiramus, ne ecclesia Dei in his, sine quibus eam christiana non patitur esse religio, inculta ac destituta remaneat. Sin autem excellentia vestra aliter se habere quam de eo quod dicitur esse perspexerit, eum ad ecclesiam suam reverti concedat, ut officium suum in commissis sibi animabus adimpleat.
TraduzioneGregorio a Romano patrizio ed esarca d’Italia.
Anche se non vi fosse assolutamente nessun motivo di scrivere all'eccellenza vostra, noi dobbiamo essere, con paterna bontà, solleciti dell'incolumità vostra per conoscere, con un frequente invio di messaggeri, quello che di voi ci auguriamo. Ci è pervenuta notizia che Blando, vescovo di Ortona, è già da lungo tempo trattenuto dall'eccellenza vostra nella città di Ravenna. E così la sua Chiesa è senza capo, il popolo decade come un gregge senza pastore, e i bambini muoiono, per nostra colpa, senza battesimo. E poiché non pensiamo che l'eccellenza vostra lo detenga senza che ci sia un indizio di colpa che va provata, conviene che, radunato un sinodo, divenga manifesto per quale delitto si fa causa contro di lui. E se si riscontra in lui un reato che comporti la destituzione dall'ordine sacerdotale, sarà necessario provvedere ad un'altra ordinazione, perché la Chiesa di Dio non rimanga incolta e priva di coloro senza dei quali non sussiste la religione cristiana. Se poi l'eccellenza vostra constaterà che le cose stanno diversamente da come si dice, gli permetta di ritornare alla sua Chiesa, perché compia il suo ufficio per le anime a lui affidate.
Note591 d.C., febbraio. Esarcato di Romano: 589/590-595/597 d.C.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravennati.
Si professionem ordinis nostri et locum cuius ministerium gerimus attendamus, oportet nos afflictis, in quantum possumus, comitante iustitia subvenire. Quoniam ergo gloriosum virum Maurilionem ex praefecto in […]. Residere cognovimus, vestra ei fraternitas, in quantum possibilitas subest, opem ferre festinet. Non quia, quod absit, de viri excellentissimi domini Georgii praefecti iustitia dubitamus, aut in aliquo putamus eum rationis tramitem declinare, virum quem et ante dignitatis huius administrationem in bonis omnibus habemus expertum, sed quo et gloriosus vir Maurilio ex praefecto rationes suas absque suspicione oppressionis exponat, et praedictus excellentissimus vir domnus Georgius praefectus rationes sine laceratione suae opinionis exsequatur.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
Se badiamo alla professione del nostro sacerdozio e al ministero che esercitiamo, bisogna che noi, in quello che possiamo e salva la giustizia, veniamo incontro agli afflitti. Poiché abbiamo saputo che il glorioso Maurilio, ex prefetto, si è rifugiato in [...], la vostra fraternità, per quanto è possibile, si affretti a recargli aiuto. Non perché dubitiamo — ciò sia lungi da noi — della giustizia dell'eccellentissimo signor Giorgio, prefetto, o pensiamo che egli fuoriesca dal sentiero della ragione — un uomo che riteniamo esperto in tutte le opere di bene già da prima che assumesse questa carica —, ma perché il glorioso Maurilio ex prefetto presenti il suo rendiconto senza sospetto di oppressione e l'eccellentissimo signor Giorgio, prefetto, esegua l'inchiesta senza danno per la sua reputazione.
Note591 d.C., marzo. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. Il prefetto del pretorio Giorgio, responsabile amministrativo e giuridico d’Italia sotto l’autorità dell’Esarco, risiedeva a Ravenna: è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato.
Testo originaleGregorius Malcho episcopo Dalmatiae.
Iohannes vir eloquentissimus, consiliarius viri excellentissimi domni Georgii praefecti per Italiam, insinuavit nobis contra Stephanum, episcopum Scodrensis civitatis, quorundam se negotiorum habere controversias, et petiit inter eum et se iudicium debere consistere. Propterea fraternitatem tuam praesenti praeceptione curavimus admonendam ut praedictum episcopum ad eligendum compellas venire iudicium. Et quicquid inter praedictum Iohannem virum magnificum et saepe fatum episcopum electorum fuerit sententia definitum, ad effectum perducere non omittas, ut et actor de consecuta iustitia gratias referat et pulsatus, cum ad cognitionem deducitur, nihil contra se de illata iniustitia conqueratur.
TraduzioneGregorio a Malco vescovo della Dalmazia.
Giovanni, uomo eloquentissimo, consigliere dell'eccellentissimo signor Giorgio, prefetto d'Italia, ci ha fatto sapere di avere alcune controversie con Stefano, vescovo di Scutari, e ha chiesto che si debbano adire le vie legali tra lui e il vescovo. Perciò abbiamo pensato di ordinare, con la presente prescrizione, alla fraternità tua di costringere quel vescovo a costituire un collegio giudicante. E tutto ciò che sarà definito, con la sentenza dei giudici eletti, tra Giovanni — uomo magnifico — e il predetto vescovo, non ometterai di farlo eseguire, affinché il promotore della causa renda grazie per la giustizia ottenuta, e il convenuto, dopo essersi reso conto delle cose, non si lamenti della ingiustizia perpetrata contro di lui.
Note591 d.C., marzo. Il prefetto del pretorio Giorgio, responsabile amministrativo e giuridico d’Italia sotto l’autorità dell’Esarco, risiedeva a Ravenna: è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato.
Testo originaleGregorius Severo episcopo.
Fraternitatis tuae edocti sumus epistula in persona Ocleatini de electione episcopatus aliquos consensisse. Quem quoniam non cedimus, in eius non debent immorari persona. Sed habitatoribus eiusdem civitatis edicito ut, si in eadem ecclesia dignum ad hoc opus invenerint, in ipsius cuncti electione declinent. Alioquin praesentium tibi portitor personam, de qua ei diximus, indicabit, in cuius debeat fieri electione decretum. Vos etenim in eiusdem ecclesiae uisitatione estote sollertes atque solliciti, ut et res eius illibatae serventur et utilitates, vobis disponentibus, more solito peragantur.
TraduzioneGregorio al vescovo Severo.
La lettera della fraternità tua ci ha informato che alcuni si sono messi d'accordo sulla persona di Ocleatino per l'elezione all'episcopato. Ma poiché non lo cediamo, non debbono insistere su di lui. Ma tu farai capire, agli abitanti di quella città, che se trovano nella loro Chiesa un individuo degno di questo incarico, si concentrino tutti sulla sua elezione. Diversamente, il latore della presente ti dirà la persona, della quale gli abbiamo parlato, sulla cui elezione va redatto il decreto. Tu infatti, come visitatore di quella Chiesa, sii solerte e sollecito perché i suoi beni siano conservati intatti e i suoi affari siano, per tua disposizione, compiuti come d'ordinario.
Note591 d.C., luglio. Severo fu vescovo di Ficulis/Ficuclae (Cervia) almeno tra 591 e 599 d.C. La sede episcopale alla quale era candidato Ocleatino era Rimini.
Testo originaleGregorius Veloci magistro militum de persecutione Ariulfi.
[…] et pridem gloriae vestrae quia milites illic erant parati venire. Sed quoniam inimicos congregatos et hic discurrere epistula vestra significaverat, haec eos hic causa retinuit. Nunc vero utile visum est ut aliquanti illic milites transmittantur, quos gloria tua admonere et hortari ut parati sint ad laborem studeat. Et occasione inventa cum gloriosis filiis nostris Mauricio et Vitaliano loquere, et quaecumque vobis Deo adiutore pro utilitate rei publicae steterint, facite. Et si hic vel ad Ravennates partes nec dicendum Ariulfum cognoveritis excurrere, vos a dorso eius ita sicut viros fortes condecet laborate, quatenus opinio vestra ex laboris vestri qualitate amplius in re publica Deo auxiliante proficiat.
Illud tamen prae omnibus admonemus ut familiam Aloin et Adobin atque Ingildi Grusingi, qui cum glorioso Mauricio magistro militum esse noscuntur, sine aliqua mora vel excusatione relaxes, quatenus venientes illic homines praedicti viri cum eis sine aliquo impedimento debeant ambulare.
Data die V kalendarum Octobriarum indictione X.
TraduzioneGregorio a Veloce maestro delle milizie sull’inseguimento di Ariulfo.
[…] e già prima abbiamo notificato alla vostra gloria che i soldati erano pronti a venire da voi. Ma poiché la vostra lettera ci aveva indicato che i nemici si erano radunati e si preparavano a scendere qui, per questo motivo li abbiamo trattenuti. Ma ora è sembrato opportuno che un contingente fosse inviato dalle vostre parti e che la vostra gloria cerchi di esortarli ad essere pronti all'attacco. Inoltre, parlate con i nostri gloriosi figli Mauricio e Vitaliano e fate tutto quello che, con l'aiuto di Dio, potrà giovare alla causa pubblica. E se avrete notizia che l'innominabile Ariulfo si muove verso di noi o verso la zona di Ravenna, incalzatelo alle spalle come si conviene a uomini forti, in modo che la vostra fama cresca — con l'aiuto di Dio — nella pubblica opinione, secondo il vostro comportamento.
Tuttavia, questo vi raccomandiamo, soprattutto: i servi della Chiesa Aloin, Adobin e Ingildo Grusingo, che stanno con il glorioso Mauricio, maestro delle milizie, lasciateli andare senza alcun indugio e senza scuse, in quanto che gli uomini del predetto Mauricio, venendo da voi, debbono senza alcun impedimento avanzare con essi.
Data il 27 settembre dell'indizione decima.
Note591 d.C., 27 settembre. Ducato di Spoleto di Ariulfo: 591-601 d.C.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravennati.
Dominicis mandatis praecipimur proximos sicut nosmetipsos diligere eorum que languoribus tamquam propriis infirmitatibus condolere. Quorum memor vestra fraternitas competenti sibi more Castorium fratrem coepiscopum que nostrum et prius compassione habita studuit visitare, et eum postmodum pro excrescenti molestia corporis in Ravennati urbe suscipere. Unde non solum nos impensae caritatis sed et Deum vobis fecistis procul dubio debitorem, qui in fratris infirmitatem condoluisse probamini, ipsum que aegrum in sui Membri molestia non solum visitasse sed etiam suscepisse. Quem quidem ipse pro simplicitate sua illic ordinare omnimodo rennuebam. Sed petentium importunitas fecit, ut contradicere nullatenus potuissem. Si autem fieri potest, multum mihi et ipsi consuletis, si eum ad me vel per Siciliam transmittatis, si tamen ei non grave iter esse perpenditis.
De episcopis vero ad nos pertinentibus, qui tamen huc pro interpositione hostium venire non possunt, curam vestra fraternitas gerat, ita tamen ut pro causis suis ad Ravennatem urbem nullatenus revocentur, ne eos hoc tempore vexare aut fatigare in aliquo videamur. Sed si qua sunt quae in eis videantur iuste reprehendi, debent semper per fraternitatis vestrae epistulas admoneri. Sin vero aliqua, quod absit, graviora contigerint, haec ad nos subtiliter referre vos volumus, ut inquisitionis vestrae testimonio roborati, quae legibus canonibus que conveniunt, salubri, iuvante Domino, consilio disponamus.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
I comandamenti del Signore ci prescrivono di amare il prossimo come noi stessi e di prendere parte alle sue infermità come si trattasse di nostre malattie. Memore di ciò, la fraternità vostra, secondo il costume che gli è proprio, ha avuto cura, prima, di visitare — con partecipazione al suo male — il nostro fratello e coepiscopo Castorio, e poi, dal momento che le sue condizioni si aggravavano, di accoglierlo a Ravenna. Per questo vi siete fatti debitori — non c'è dubbio —, per la carità esercitata, non solo noi ma anche Dio, di cui avete condiviso il dolore nella infermità del fratello; e che avete non solo visitato ma accolto nell'afflizione di un membro del suo Corpo. Io, a dire il vero, ero del tutto contrario alla sua nomina, per la sua ingenuità. Ma l'insistenza dei richiedenti fece sì che non potei oppormi in nessun modo. Tuttavia, se è possibile, fareste un grande favore a me e a lui se me lo inviaste, sia pure attraverso la Sicilia, qualora pensiate che il viaggio non gli sia gravoso.
Quanto ai vescovi di nostra competenza, i quali non possono venire qui per l'interporsi dei nemici, si prenda cura la vostra fraternità, ma non siano convocati in nessun modo a Ravenna per le loro faccende, per non sembrare che noi, in questi tempi, in qualche modo li vessiamo o li carichiamo di fatiche. Se però ci fosse qualcosa che in essi sembri opportuno venir giustamente ripreso, debbono essere ammoniti sempre da lettere della vostra fraternità. Se poi intervengono — il che sia lungi — fatti gravi, vogliamo che ci siano riferiti minutamente, in modo che, corroborati dalla testimonianza della vostra indagine, noi disponiamo — con l'aiuto di Dio —, con salutare decisione, quello che conviene secondo le leggi e i canoni.
Note592 d.C., aprile. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. Nella lettera si accenna all’occupazione della via Flaminia da parte del duca di Spoleto Ariulfo che portò all’interruzione del collegamento tra Ravenna e Roma.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravenna.
Iurgantium controversias celeri sententia terminare et aequitati proculdubio convenit et uigori. Quia ergo Vuilandus lator praesentium fraternitatis tuae cognitionem implorat, diaconem Gavinianum, contra quem se habere causam commemorat, fraternitas tua ad suum faciat accersire iudicium. Et amota dilatione, causae veritatem subtili inquisitione discutiat, et quaecumque iustitiae ordo dictaverit ac tua fuerit sententia definitum, et observare et implere partes modis omnibus compellantur.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
Conviene senza dubbio all'equità e al vigore morale porre fine con rapida sentenza alle controversie dei litiganti. Poiché Wilando, latore della presente, chiede un'indagine da parte tua, la tua fraternità faccia convocare un confronto con il diacono Gaviniano, contro il quale il richiedente dice di avere una controversia. E, messa da parte ogni dilazione, la tua carità ricerchi minuziosamente la verità, e le parti siano costrette poi ad adempiere ciò che richiederà la giustizia e che sarà stabilito dalla tua sentenza.
Note592 d.C., luglio. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravenna.
Quod multis vestrae beatitudinis minime respondi, non hoc torpori meo sed languori deputate. Quia, peccatis meis facientibus, eo tempore, quo Ariulfus ad Romanam urbem veniens alios occidit, alios detruncavit, tanta maestitia affectus sum, ut in coli molestiam caderem. Valde autem mirabar quid esset quod illa mihi notissima sollicitudo vestrae sanctitatis huic urbi meis que necessitatibus minime prodesset. Sed scriptis vestris discurrentibus agnovi vos quidem sollicite agere sed tamen apud quem agere non habere. Peccatis ergo hoc meis reputo, quia iste, qui nunc interest, et pugnare contra inimicos nostros dissimulat et nos facere pacem vetat, quamvis iam modo, etiam velit, facere omnino non possumus, quia Ariulfus exercitum Auctarit et Nordulfi habens eorum sibi dari precaria desiderat, ut nobis cum loqui aliquid de pace dignetur.
De causa vero episcoporum Histriae omnia quae mihi vestra fraternitas scripsit ita esse iam ante deprehendi in his iussionibus, quae ad me a piissimis principibus venerunt, quatenus me interim ab eorum compulsione suspenderem. Ego quidem pro his quae scripsistis zelo atque ardori vestro valde congaudeo, debitorem que me vobis multipliciter factum profiteor. Scitote tamen quia de eadem re serenissimis dominis cum summo zelo et libertate rescribere non cessabo. Movere autem vos non debet praefati excellentissimi viri Romani patricii animositas, quia nos quantum eum loco et ordine praeimus, tantum si qua sunt eius levia tolerare mature et graviter debemus.
Si quando tamen est aliquando locus optinendi, agat apud eum fraternitas vestra, ut pacem cum Ariulfo, si ad aliquid parum possumus, faciamus, quia miles de Romana urbe tultus est, sicut ipse novit. Theodosiaci vero qui hic remanserunt, rogam non accipientes, vix ad murorum quidem custodiam se accommodant, et destituta ab omnibus civitas, si pacem non habet, quomodo subsistet?
Praeterea de puella, de qua scripsistis nobis, quae de captivitate redempta est, ut requiri qualiter orta sit debuisset, sciat sanctitas vestra quia ignota persona non facile investigari potest. Illud autem quod dicitis ut is qui ordinatus est iterum ordinetur, valde ridiculum est et ab ingenii vestri consideratione extraneum, nisi forte quod exemplum ad medium deducitur, de quo et ille iudicandus est qui tale aliquid fecisse perhibetur. Absit enim a fraternitate vestra sic sapere. Sicut enim baptizatus semel baptizari iterum non debet, ita qui consecratus est semel in eodem ordine iterum non valet consecrari. Sed si quis cum levi forsitan culpa ad sacerdotium venit, pro culpa paenitentia indici debet et tamen ordo servari.
De Neapolitana vero urbe excellentissimo exarcho instanter imminete. Quia Arogis, ut cognovimus, cum Ariulfo se fecit, et reipublicae contra fidem venit, et valde insidiatur eidem civitati, in qua si celeriter dux non mittitur omnino iam inter perditas habeatur.
De hoc vero quod dicitis incensae civitati Severi scismatici elemosynam esse mittendam, idcirco ita vestra fraternitas sentit, quia quae contra nos praemia in palatio mittat, ignorat. Quae etsi non transmitteret, nobis considerandum fuit quia misericordia prius fidelibus ac post est ecclesiae hostibus facienda. Iuxta quippe est civitas Fanum, in qua multi captivati sunt, ad quam ego iam transacto anno transmittere volui, sed inter hostes medios non praesumpsi. Videtur ergo mihi ut Claudium abbatem cum aliquanta pecunia ibi transmittere debeatis, ut liberos quos illic pro pretio suo in servitio teneri invenerit, vel si qui adhuc captivi sunt, redimat. De summa vero eiusdem pecuniae transmittenda, vobis certum sit quia quicquid vos decernitis mihi placet. Sin autem cum excellentissimo viro Romano patricio agitis ut pacem facere cum Ariulfo debeamus, ego ad vos personam aliam transmittere paratus sum, cum qua mercedis causae melius fiant.
De fratre autem et coepiscopo nostro Natale valde contristabar, quod de illo quaedam superba cognoveram. Sed quia mores suos ipse correxit, meam tristitiam simul meipsum vincendo consolatus est. Pro qua re fratrem et coepiscopum nostrum Malchum admone ut prius ad nos veniat, rationes suas ponat, et tunc demum alibi, ubi necesse est, proficiscatur, et si eius actus bonos cognoscimus, ei fortasse hoc ipsum patrimonium quod tenuit restituamus.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
Il fatto che non ho risposto alle numerose lettere della vostra beatitudine, attribuitelo non ad indolenza ma a debolezza. Poiché nel tempo in cui, per i miei peccati, Ariulfo, marciando verso la città di Roma, seminò morti e mutilazioni, fui preso da tale tristezza che caddi nel fastidio della colite. Ero poi molto sorpreso e mi chiedevo quale fosse il motivo per cui la sollecitudine a me notissima della vostra santità non venisse minimamente incontro a questa città e ai miei bisogni. Ma dalle vostre lettere mi sono accorto che in realtà vi davate da fare, ma che non avevate nessuno a cui rivolgervi. Ascrivo quindi ai miei peccati che costui [l'esarca Romano], che ora si occupa della cosa, da una parte trascura di combattere contro i nemici, dall'altra ci impedisce di fare la pace; per quanto ormai in questo momento, anche se volesse, non possiamo assolutamente farla, perché Ariulfo, avendo sotto di sé le truppe di Autari e Nordulfo, pretende che gli siano date le paghe a loro dovute, perché si degni di parlare con noi, in qualche modo, di pace.
Quanto poi alla questione dei vescovi d'Istria, tutto quello che la vostra fraternità ha scritto lo avevo capito dalle ingiunzioni che mi pervennero dal piissimo principe: che cioè mi astenessi, per il momento, dallo scontro con loro. Io, invero, per quello che mi avete scritto, godo molto dello zelo e dell'ardore vostro, e vi confesso di essere divenuto vostro debitore sotto molti aspetti. Sappiate tuttavia che non mi asterrò dallo scrivere di nuovo riguardo a ciò al serenissimo imperatore, con sommo zelo e libertà. Non vi dovete, poi, mettere in agitazione per la collera del predetto eccellentissimo patrizio Romano perché, quanto noi siamo a lui superiori per funzione e dignità, tanto dobbiamo opportunamente e con gravità tollerare le sue leggerezze.
Se tuttavia si offre qualche occasione di ottenere, alla fine, qualcosa, la vostra fraternità tratti con lui, per fare, se ce ne è data la possibilità, la pace con Ariulfo, perché le milizie, come egli sa, sono state tolte da Roma. I Teodosiaci che rimasero qui, non ricevendo la paga militare, a stento si dedicano alla custodia delle mura. E la città abbandonata da tutti, se non ha pace, come potrà reggere?
Inoltre, riguardo alla fanciulla che è stata riscattata dalla prigionia e della quale ci avete scritto che avremmo dovuto investigare le origini, sappia la santità vostra che non si possono facilmente compiere indagini su una persona non conosciuta. Quanto poi a ciò che dite: che colui il quale è ordinato venga ordinato una seconda volta, è una cosa assai ridicola ed estranea alla ponderatezza del vostro carattere, a meno che non si adduca un esempio concreto di uno che va sottoposto a giudizio per aver compiuto una cosa del genere. Sia lungi dalla fraternità vostra il pensare in tal modo. Come, infatti, un individuo che è stato una volta battezzato non deve essere battezzato una seconda volta, così chi è stato consacrato una volta non deve essere riconsacrato nello stesso ordine. Ma se uno arriva al sacerdozio con una colpa leggera, deve essere sottoposto a penitenza per la colpa, mentre l'ordine deve essere conservato.
State continuamente alle costole dell'eccellentissimo esarca per la città di Napoli, perché Aroge [Arechi], come abbiamo saputo, si è alleato con Ariulfo, ha mancato di fedeltà allo Stato romano, e insidia assai la città di Napoli, la quale, se non è inviato subito un comandante in capo, è da considerare già totalmente perduta.
Circa quello che dite, che cioè bisogna inviare in elemosina qualcosa alla città incendiata dello scismatico Severo, la vostra fraternità pensa tosi perché ignora i contributi che a nostro svantaggio quello scismatico manda a palazzo. Ma anche se non inviasse queste ricompense, noi dovremmo considerare che la misericordia va usata prima ai fedeli e poi ai nemici della Chiesa. Qui vicino è, infatti, la città di Fano, nella quale molti sono stati fatti prigionieri. Ad essa io, già l'anno scorso, volevo mandare aiuti, ma non osai farlo coi nemici dintorno. A me, quindi; sembra opportuno che ivi dobbiate inviare l'abate Claudio con del denaro, per redimere gli uomini liberi che troverà ivi tenuti in servitù per il proprio riscatto e i prigionieri, se vi sono ancora prigionieri. Quanto alla somma da trasmettere vedete voi: io approvo quello che voi decidete. Se poi negoziate, coll'eccellentissimo patrizio Romano, la pace da concludere con Ariulfo, io sono pronto a mandarvi un'altra persona con la quale si trattano meglio le questioni di indennizzo.
Riguardo al fratello e coepiscopo Natale, ero molto contristato, perché avevo saputo di alcuni suoi comportamenti arroganti. Ma, poiché egli ha corretto il suo modo di agire, riportando vittoria su di me ha nello stesso tempo confortato la mia tristezza. Avvisate il fratello e coepiscopo nostro Malco che prima venga da noi, faccia il suo rendiconto amministrativo, e poi vada dove è necessario: se poi constatiamo che la sua amministrazione è a posto, forse gli affideremo di nuovo lo stesso patrimonio che teneva.
Note592 d.C., luglio. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. Ducato di Spoleto di Ariulfo: 591-601 d.C. Papa Gregorio vorrebbe stipulare la pace coi Longobardi, che occupano la via Flaminia e sono alle porte di Roma, ma è in disaccordo con l’esarco Romano. Autarit è solo omonimo dell’ex re dei Longobardi. I Teodosiaci sono un reparto militare di stanza a Roma e incaricato della sua difesa. Il patriarca Severo di Aquileia, residente a Grado, e i vescovi dell’Istria aderivano allo scisma dei Tre Capitoli ormai da oltre mezzo secolo, per il quale erano soprattutto in rottura con Costantinopoli che con Roma. Arechi fu il secondo duca di Benevento: 591-641 d.C. Claudio, romano e collaboratore di papa Gregorio, era abate di SS. Giovanni e Stefano in Classe. Natale era vescovo di Salona.
Testo originaleGregorius Gregorio praefecto praetorio per Italiam.
Quicquid misericorditer ac respectu pietatis impenditur, et hic auctorem suum adiuvat, et optatum ei praemium in die retributionis apportat. Quod cum ita sit, quia excellentiam vestram valde diligo, mercedis vobis causas insinuo. Armenius itaque magnificus, filius quondam Aptonii illustrissimi viri, ex ipsa me egestate compulit, ut pro eo vobis debuissem scribere. Qui quoniam sicut nostis utroque parente orbatus est, eminentiae vestrae tuitionem et continentiam praestolatur. Unde christianitas vestra piae considerationis ut consuevit intuitu, in quantum utile perspicit, ei locum vel actionem provideat, ex qua cotidianis stipendiis valeat contineri, quoniam haec maxima laus et merces est, si illa orphanis impendantur quae eorum pro suis obsequiis poterant genitoribus exhiberi.
TraduzioneGregorio a Gregorio prefetto del pretorio in Italia.
Tutto ciò che si compie per misericordia e carità, e qui aiuta il suo autore, e nel giorno della retribuzione apporta il premio desiderato. Stando cosi le cose, poiché amo molto l'eccellenza vostra, vi propongo motivi di ricompensa. Armenio, uomo magnifico, figlio del defunto illustrissimo Aptonio, mi ha spinto, a motivo della sua povertà, a scrivervi a suo riguardo. Egli, poiché — come sapete — è privo dei genitori, spera dall'eminenza vostra protezione e sostentamento. Perciò, il vostro senso cristiano, in vista — com'è solito fare — di una caritatevole considerazione, gli provveda — per quanto lo ritiene utile — un posto o un'occupazione per il cui esercizio quotidiano possa mantenersi. La lode e la ricompensa più grande per voi è questa: l'offrire agli orfani quello che si poteva dare ai genitori per i loro servizi.
Note593 d.C., aprile. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza del prefetto del pretorio d’Italia: il prefetto del pretorio è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato.
Testo originaleGregorius Romano patricio et exarcho Italiae.
Obitum Laurentii, ecclesiae Mediolanensis episcopi, excellentiam vestram iam credimus cognovisse. Et quia quantum ex cleri relatione didicimus in Constantio filio nostro, diacono eiusdem ecclesiae, omnium consistit electio, necesse fuit pro servanda consuetudine militem ecclesiae nostrae dirigere, qui eum in quo omnium voluntates atque consensum concorditer convenire cognoverit a suis episcopis, sicut vetus mos exigit, cum nostro tamen assensu faciat consecrari.
Proinde paterna dilectione persolventes debitum salutationis officium, quaesumus ut praedicto Constantio, seu fuerit consecratus episcopus necne, excellentia vestra ubi necesse fuerit suum dignetur impendere, iustitia favente, solacium, quatenus haec vos merces et hic apud inimicos vestros exaltet, et in futura vos vita apud Deum praevenienter commendet. Meus enim est proprius olim que mihi magna fuit familiaritate coniunctus. Et vos quos nostros agnoscitis habere ut vestros peculiariter debetis.
TraduzioneGregorio a Romano patrizio ed esarca d’Italia.
Pensiamo che l'eccellenza vostra abbia già saputo della morte di Lorenzo, vescovo della Chiesa milanese. E poiché da quanto abbiamo appreso da una relazione del clero, la scelta di tutti è caduta sul figlio nostro Costanzo, diacono della medesima Chiesa, è stato necessario — per conservare la consuetudine — mandare un funzionario della nostra Chiesa, il quale facesse consacrare dai suoi vescovi, secondo quanto esige un'antica usanza — sempre tuttavia con il nostro consenso —, colui sul quale avesse saputo essersi concentrati la volontà e il consenso di tutti.
Perciò, mentre con amore paterno vi porgiamo i dovuti saluti, vi chiediamo questo favore: che l'eccellenza vostra si degni di offrire, secondo giustizia — se è necessario —, al predetto Costanzo, sia egli consacrato vescovo o no, il suo aiuto, affinché questo merito vi esalti qui agli occhi dei vostri nemici e vi raccomandi in anticipo a Dio per la vita futura. Egli mi appartiene, e un tempo è stato a me unito da grande familiarità. E voi dovete considerare particolarmente vostri coloro che sapete essere nostri.
Note593 d.C., aprile. Esarcato di Romano: 589/590-595/597 d.C. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravennati.
Non multum temporis intervallum est quod quaedam nobis de tua fraternitate fuerant nuntiata, de quibus vobis, veniente illuc Castorio notario sanctae cui, Deo auctore, praesidemus ecclesiae, subtiliter nos indicasse meminimus. Pervenerat namque ad nos quaedam in ecclesia vestra contra consuetudines atque humilitatis tramitem geri, quae sola ut bene nosti est officii sacerdotalis erectio. Quae si sapientia vestra mansuete vel cum episcopali suscepisset studio, non de illis accendi debuerat, sed oportuerat te haec eadem cum gratiarum actione corrigere. Contra morem quippe ecclesiasticum est, si non patientissime toleratur, quod a nobis absit, etiam iniusta correctio.
Mota autem nimis vestra fraternitas atque cum tumore cordis quasi satisfaciens, scripsit nobis pallio te non nisi post dimissos de secretario filios ecclesiae et missarum tempore atque in laetaniis uti sollemnibus. Verbis aliquid te usurpasse contra generalis ecclesiae consuetudinem apertissima veritate professus es. Quomodo enim fieri potest ut illud cineris atque cilicii tempore per plateas inter populorum strepitus agas licite, quod te agere in conventu pauperum, nobilium, et in secretario ecclesiae velut illicitum excusasti? Illud tamen, frater carissime, tibi non putamus ignotum, quod prope de nullo metropolita in quibuslibet mundi partibus sit auditum, extra missarum tempus, usum sibi pallii vindicasse. Et quod bene hanc consuetudinem generalis ecclesiae noveritis, vestris nobis manifestissime significastis epistulis, quibus praeceptum beatae memoriae decessoris nostri Iohannis papae nobis in subditis transmisistis annexum, continentem omnes consuetudines ex privilegio decessorum nostrorum concessas vobis ecclesiae que vestrae debere servari. Confitemini igitur aliam esse generalis ecclesiae consuetudinem, postquam ea quae vos geritis vobis ex privilegio vindicatis. Nulla ergo nobis in hac re ut arbitramur poterit remanere dubietas. Aut enim mos omnium metropolitarum a tua est fraternitate servandus, aut si tuae ecclesiae aliquid specialiter dicis esse concessum, praeceptum a prioribus Romanae urbis pontificibus, quod haec Ravennati ecclesiae sunt concessa, a vobis oportet ostendi. Quod si hoc non ostenditur, restat, postquam talia agere neque consuetudine generali neque privilegio vindicas, ut usurpasse te comprobes quod fecisti. Et quid dicturi sumus futuro iudici, frater dilectissime, si illud quod grave iugum atque vinculum cervicis nostrae, non dico pro ecclesiastica sed pro quadam saeculari nobis dignitate defendimus, gravare nos iudicantes si tanto pondere vel parvi temporis spatium careamus? Decorari pallio volumus, forsan moribus indecori, dum nihil in episcopali cervice splendidius quam fulget humilitas.
Oportet igitur fraternitatem tuam, si honores suos sibi quibuslibet argumentis stabili proposuit mente defendere, aut generalitatis usum ex non scripto sequi, aut ex scripto privilegiis se tueri. Vel si postremo nihil horum est, aliis metropolitis huius te praebere nolumus praesumptionis exemplum. Sed ne forte putes quia nos, haec vobis scribentes, quae pro fraterna sunt caritate negleximus, scitote in nostro scrinio de privilegiis ecclesiae tuae subtiliter perquisitum. Et quidem quaedam inventa sunt quae omnino possint fraternitatis tuae intentionibus obviare, nihil autem in quo de huiusmodi capitulis pars vestrae possit ecclesiae roborari. Nam et de ipsa consuetudine tuae quam opponis ecclesiae, quae vobis olim ut a partibus vestris probaretur scripsimus, iam satis nos sollicitudinem gessisse cognoscite, inquirentes filios nostros Petrum diaconem atque Gaudiosum primicerium necnon et Michahelium defensorem sedis nostrae vel alios, qui pro diversis responsis Ravennam a nostris decessoribus sunt transmissi, et haec te in praesentia sua egisse districtissime negaverunt. Apparet igitur secrete non potuisse geri, nisi quod usurpabatur illicite. Unde quod latenter subintroductum est nulla debet stabilitate persistere. Quae ergo superflue a te vel a tuis decessoribus sunt praesumpta, cum caritatis intuitu atque cum fraterna stude benignitate corrigere. Nullatenus non dico per te sed per aliorum vel decessorum tuorum normam ab humilitatis temptes regula deviare. Ut enim ea quae superius dixi breviter colligam, admoneo quatenus, nisi decessorum meorum munificentia tibi haec per privilegium attributa docueris, uti in plateis pallio ulterius non praesumas, ne non habere et ad missas incipias, quod audacter et in plateis usurpas. De secretario autem quod fraternitas tua resedisse cum pallio et filios ecclesiae suscepisse et fecit et excusavit, nunc interim nihil querimur, quia synodorum sententiam sequentes, minores culpas quae negantur ulcisci recusamus. Hoc tamen quia semel et iterum sit factum cognovimus, sed fieri ulterius prohibemus. Fraternitas autem tua sit omnino sollicita, ne hoc quod praesumptioni incoanti adhuc ceditur, in proficiente deterius vindicetur.
Conquesti praeterea estis quod quidam de sacerdotali ordine Ravennatis civitatis, peccatis imminentibus, gravibus sint criminibus involuti. Quorum causam vel illic te discutere volumus, vel hic eos, si tamen probationum difficultas pro locorum longinquitate non impedit, ad haec ipsa discutienda transmittere. Quod si vel ad tuum iudicium vel ad nos, maiorum fulti patrocinio, quod non credimus, venire despexerint, et in obiectis sibi capitulis contumaciter respondere nequiverint, volumus ut eis post secundam et tertiam admonitionem tuam ministerium sacri interdicas officii, atque nobis de contumacia eorum scriptorum tuorum tenore renunties, ut deliberemus quemadmodum actus eorum debeas subtiliter perscrutari, atque secundum definitiones canonicas emendare. Cognoscat igitur fraternitas tua de causa hac nos plenissime absolutos, ex eo quod vobis causas ipsas commisimus subtiliter perquirendas, atque omnia peccata eorum si inulta evenerint et omne pondus discussionis huius in tuae animae redundare periculo, sciens nullam dilectionem vestram excusationem apud futurum Iudicem habituram, si non excessus cleri tui cum summa canonici rigoris severitate correxeris, aut hos quibus haec fuerint approbata sacros ulterius ordines temerare permiseris.
Illis autem quae pro utendis a clero vestro mappulis scripsistis a nostris est clericis fortiter obviatum, dicentibus nulli hoc umquam aliae cuilibet concessum fuisse ecclesiae, nec Ravennates clericos vel illic vel in Romana civitate tale aliquid cum sua conscientia praesumpsisse, nec, si temptatum esset, ex furtiva usurpatione sibi praeiudicium generari. Sed etiam in qualibet ecclesia hoc praesumptum fuerit, asserunt emendandum, quod non concessione Romani pontificis sed sola subreptione praesumitur. Sed nos servantes honorem fraternitatis tuae, licet contra voluntatem antedicti cleri nostri, tamen primis diaconibus vestris, quos nobis quidam testificati sunt etiam ante eis usos fuisse, in obsequio dumtaxat tuo, mappulis uti permittimus, alio autem tempore vel alias personas hoc agere vehementissime prohibemus.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
Non è da molto tempo che ci furono riferite sulla tua fraternità delle cose che — venendo da te Castorio, notaio della Chiesa alla quale per volontà di Dio siamo preposti — ricordiamo di averti minutamente sottolineato. Ci era infatti pervenuta notizia che nella vostra Chiesa si compiono atti contro le consuetudini e il sentiero della umiltà, che, come ben sapete, è l'unico vanto dell'ufficio sacerdotale. Se la vostra saggezza avesse recepito questi avvertimenti con mansuetudine e con l'ardore di un vescovo, non doveva adirarsi per essi, ma piuttosto correggere queste mancanze, ringraziando. È invero contro il costume ecclesiastico non sopportare con grande pazienza — il che sia lungi da noi — anche la correzione ingiusta.
La vostra fraternità si è agitata troppo e ci ha scritto con il cuore gonfio, quasi per dare soddisfazione, dicendo che non usa il pallio se non dopo aver fatto uscire dalla sacrestia i figli della chiesa, e durante le Messe e nelle litanie solenni A parole, hai professato in tutta verità di aver praticato qualcosa contro la consuetudine della Chiesa universale. Come può essere che tu compia lecitamente nel tempo della cenere e del cilicio, per le piazze, tra lo strepitio della gente, quello di cui tu ti scusi di fare, quasi come una cosa illecita, nell'adunanza dei poveri, dei nobili, e nella sacrestia della chiesa? Non pensiamo, fratello carissimo, che non ti sia noto che quasi di nessun metropolita, in qualsiasi parte del mondo, si è udito che avesse rivendicato l'uso del pallio fuori del tempo della Messa. Che voi conosciate bene questa consuetudine di tutta la Chiesa, me lo avete chiaramente detto nella vostra lettera, alla quale avete legato alla fine un decreto di papa Giovanni, nostro predecessore di beata memoria, decreto il quale contiene la disposizione che tutti gli usi concessi per privilegio dai nostri antecessori a voi e alla vostra Chiesa debbono essere osservati. Voi, quindi, riconoscete che è diversa la consuetudine di tutta la Chiesa, dopo che rivendicate per privilegio ciò che fate. Non può, quindi, restare in noi, per questo — come pensiamo —, nessun dubbio. O, infatti, deve essere osservato dalla tua fraternità l'uso di tutti i metropoliti o, se dici che alla tua Chiesa è stato concesso qualcosa di speciale, bisogna che da voi sia esibito il privilegio concesso dai precedenti Pontefici della città di Roma alla città di Ravenna. Che se questo privilegio non viene esibito, dal momento che non rivendichi di fare ciò né per consuetudine generale né per privilegio, resta la prova che tu hai usurpato ciò che hai fatto. Che cosa diremo, fratello carissimo, al futuro Giudice, se respingiamo ciò che rappresenta un pesante giogo e un vincolo sulle nostre spalle — e parlo non riferendomi alle cariche ecclesiastiche ma a certune secolari —, giudicando essere triste per noi se rimaniamo privi di così grande peso anche per poco tempo? Vogliamo fregiarci del pallio, forse non ornati di buoni costumi, mentre nulla, sulle spalle del vescovo, rifulge più splendidamente dell'umiltà.
Bisogna, quindi, che la tua fraternità, se si è proposta di difendere con ogni argomento e con mente decisa i propri privilegi, o segua l'uso generale non scritto, oppure si tuteli con il privilegio scritto. Se, in conclusione, non c'è nulla di scritto, non vogliamo che tu dia questo esempio di presunzione agli altri metropoliti. Ma perché tu non abbia a pensare forse che noi, scrivendoti queste cose, abbiamo trascurato la carità fraterna, sappi che è stata fatta nei nostri archivi una minuta ricerca sui privilegi concessi alla tua Chiesa. E, invero, sono stati trovati alcuni documenti che possono genericamente venire incontro alle intenzioni della fraternità tua, ma non c'è nulla in tali articoli per cui possa essere convalidata la posizione della vostra Chiesa. Infatti, proprio della consuetudine — che tu metti avanti — della tua Chiesa, che vi scrivemmo una volta che fosse provata da parte vostra, sappiate che noi ci siamo occupati abbastanza, interrogando i figli nostri Pietro diacono e Gaudioso primicerio, nonché Michele difensore della nostra Sede, e altri che furono inviati dai nostri predecessori come apocrisari a Ravenna: essi hanno negato nel modo più deciso che tu abbia fatto queste cose alla loro presenza. È evidente, quindi, che non poteva essere compiuto in segreto se non ciò che era usurpato in modo illecito. Perciò, quello che è stato introdotto di nascosto non deve in nessun modo continuare a sussistere. Di conseguenza, quello che si è osato fare in più da te e dai tuoi predecessori, studiati con senso di carità e di fraterna benevolenza di correggerlo. Non cercare in nessun modo, non dico per te, ma anche per norma degli altri tuoi predecessori, di deviare dalla regola dell'umiltà. Per riassumere, in breve, ciò che ho già detto sopra: se non avrai dimostrato che queste concessioni ti sono state fatte dalla munificenza dei miei predecessori, ti ammonisco di non osare più di indossare il pallio nelle piazze, perché non ti accada di non portare neanche durante la messa quello che temerariamente osi indossare in piazza. Del fatto, poi, che la tua fraternità si sia seduta in sacrestia con il pallio e abbia ricevuto i figli della chiesa, poiché ha fatto questo e se ne è scusato, noi ora non muoviamo questione, perché, seguendo la disposizione dei sinodi, ci asteniamo dal punire le colpe minori che vengono disapprovate. Sappiamo che questo è stato fatto una volta o due, ma proibiamo che sia ancora ripetuto. La tua fraternità stia molto attenta, perché ciò che ancora si perdona a una presunzione nel suo nascere non provochi una più severa punizione nel suo crescere.
Ti sei inoltre lamentato che alcuni sacerdoti della città di Ravenna — a causa dei nostri peccati che sovrastano — sono implicati in gravi mancanze. Vogliamo, o che tu discuta costi la questione o — se non lo impedisce la difficoltà delle prove a motivo della lontananza — che li mandi qui per risolverla. Che se si rifiutano di comparire davanti al tuo giudizio o davanti a noi, basandosi sulla protezione di autorità superiori — ciò che non crediamo —, e dicono con ostinazione di non poter rispondere ai capi d'accusa loro imputati, vogliamo che tu, dopo una seconda e una terza ammonizione, interdica loro l'esercizio dell'ufficio sacro e che denunci a noi per iscritto la loro contumacia, affinché deliberiamo in che modo tu debba inquisire minutamente i loro atti e come tu li debba punire secondo le disposizioni canoniche. Sappia quindi la fraternità tua che noi siamo prosciolti da qualsiasi responsabilità riguardo a questa faccenda, poiché abbiamo affidato a voi l'incarico di indagare minutamente ogni cosa; e che, se tutti i peccati degli imputati rimarranno impuniti, l'intero peso di questo dibattimento cadrà sulla tua anima, sapendo che la carità vostra non avrà davanti al futuro Giudice — nessuna scusa, se non avrai corretto con la massima severità del rigore canonico le trasgressioni del tuo clero e se avrai permesso che coloro per i quali le mancanze siano state provate continuino a profanare gli Ordini sacri.
Per quanto mi avete scritto circa l'uso del manipolo da parte del vostro clero, i nostri chierici si sono decisamente opposti, dicendo che questo non era stato mai concesso a nessun'altra Chiesa, e che, né i chierici di Ravenna — costi, o nella città di Roma — avevano osato fare, in coscienza loro, una cosa di questo genere, né — se ciò fosse stato tentato per una furtiva usurpazione — la cosa avrebbe costituito per essi un precedente. Ma anche se si fosse osato ciò in qualsiasi altra Chiesa, dicono che sarebbe stato da correggere, dal momento che si è presunto di fare ciò non per concessione del romano Pontefice, ma solo per abuso. Noi però, per riguardo alla tua fraternità, anche contro la volontà del predetto nostro clero, permettiamo l'uso del manipolo ai primi vostri diaconi, che, secondo la testimonianza di alcuni, lo hanno usato anche prima; concediamo questo, ben inteso, per tuo riguardo. Proibiamo però nel modo più assoluto che ciò sia fatto in altro tempo o da altre persone.
Note593 d.C., luglio. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. Pontificato di Giovanni III: 561-574 d.C. La lettera riguarda il corretto uso del pallio, un mantello sacerdotale, concesso nel 569 all’arcivescovo di Ravenna da papa Giovanni III. Il diacono Pietro era stato “apocrisarius”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna prima del 590 d.C.
Testo originaleGregorius Constantio episcopo Mediolanensi.
Scriptis sanctitatis vestrae percursis, in gravi vos maerore esse cognovimus, maxime propter episcopos et cives Brixiae, qui vobis mandant ut eis epistulam transmittatis, in qua iurare debeatis vos tria capitula minime damnasse. Quod si decessor fraternitatis vestrae Laurentius non fecit, a vobis quaeri non debet. Si autem fecit, cum universali ecclesia non fuit et cautionis suae iuramenta transcendit. Sed quia eundem virum sua credimus sacramenta servasse atque in unitate ecclesiae catholicae permansisse, dubium non est quod nulli episcoporum suorum iuraverit se tria capitula minime damnasse. Ex qua re colligat sanctitas vestra quia cogi non debet ad hoc, quod a decessore eius factum nullomodo est. Sed ne hi qui vobis ista scripserunt scandalizari videantur, transmittite eis epistulam, in qua sub anathematis interpositione fateamini neque vos aliquid de fide Chalcedonensis synodi imminuere, neque eos qui imminuunt recipere, et quoscumque damnavit damnare, et quoscumque absoluit absolvere. Unde credo eis posse celerrime satisfieri.
Quod autem scripsistis quia scandalizantur plurimi eorum, quia fratrem et coepiscopum nostrum Iohannem Ravennatis ecclesiae inter missarum sollemnia nominetis, requirenda vobis consuetudo antiqua est. Et si consuetudo fuit, modo ab stultis hominibus reprehendenda non est. Si vero consuetudo non fuit, fieri non debet, unde quibusdam scandalum moveri possit. Tamen sollicite requirere studui si isdem iohannes frater et coepiscopus noster vos ad altare nominet, quod minime dicunt fieri. Et si ille vestri nominis memoriam non facit, quae necessitas cogit ignoro, ut vos illius faciatis. Quod quidem si sine aliquorum scandalo fieri potest, vos tale aliquid facere valde laudabile est, quia caritatem quam erga fratres vestros habeatis ostenditis.
Quod autem scripsistis quia epistulam meam reginae Theodelindae transmittere minime voluistis, pro eo quod in ea quinta synodus nominabatur, si eam exinde scandalizari posse credidistis, recte factum est ut minime transmitteretis. Unde nunc ita facimus sicut vobis placuit, ut quattuor solummodo synodos laudaremus. De illa tamen synodo, quae in Constantinopoli postmodum facta est, quae a multis quinta nominatur, scire vos volo quia nihil contra quattuor sanctissimas synodos constituerit vel senserit, quippe quia in ea de personis tantummodo, non autem de fide aliquid gestum est, et de eis personis de quibus in Chalcedonensi concilio nihil continetur. Sed post expressos canones facta contentio et extrema actio de personis ventilata est. Nos tamen sicut voluistis ita fecimus, ut eiusdem synodi nullam memoriam faceremus. Sed et de episcopis quae scripsistis praedictae filiae nostrae reginae scripsimus.
Ursicinum, qui vobis scripsit aliqua contra Iohannem fratrem et coepiscopum nostrum, vos per epistulas vestras et dulcedine et ratione ab intentione sua compescere debetis. De Fortunato autem fraternitatem vestram esse sollicitam volumus, ne vobis a malis hominibus in aliquo subripiatur. Nam audio eum cum decessore vestro Laurentio ad mensam ecclesiae per annos plurimos nuncusque comedisse, inter nobiles consedisse et subscripsisse eo que quondam fratre nostro sciente in numeris militasse. Et post tot annos modo videtur fraternitati vestrae ut de status sui condicione pulsetur. Quod mihi omnino incongruum videtur. Et ideo vobis hoc per ipsum, sed secreto mandavi. Tamen si quid est rationabile quod ei possit opponi, in nostro debet iudicio ventilari.
Ad filium vero nostrum domnum Dynamium, si omnipotenti Deo placuerit, per hominem nostrum scripta transmittimus.
TraduzioneGregorio a Costanzo vescovo di Milano.
Avendo letto lo scritto della santità vostra, abbiamo saputo che vi trovate in una grande tristezza, soprattutto per i vescovi e gli abitanti di Brescia, che pretendono da voi che inviate loro un'epistola nella quale dobbiate giurare di non aver condannato assolutamente i Tre Capitoli. La qual cosa, a vostro riguardo, non deve essere pretesa, se non l'ha professata Lorenzo, predecessore della fraternità vostra. Se poi egli l'ha professata, non è stato in accordo con la Chiesa universale e ha superato i limiti della sua professione di fede. Ma, siccome crediamo che quell'uomo abbia rispettato i suoi impegni e che sia rimasto in unione con la Chiesa cattolica, non c'è dubbio che non avrà giurato ad alcuno dei propri vescovi di aver menomamente condannato i Tre Capitoli. Da ciò, la vostra santità concluda che non deve essere costretto a fare ciò che in nessun modo è stato compiuto dal suo predecessore. Ma perché coloro che vi hanno scritto queste cose non rimangano scandalizzati, inviate loro una lettera nella quale, interposto l'anatema, dichiariate che non togliete nulla circa la fede del Concilio di Calcedonia, né che accettate coloro che ne ammettono qualche diminuzione, che condannate coloro che quel Concilio ha condannato e assolvete quelli che esso ha assolto. E così penso si possa rapidamente dare loro soddisfazione.
Quanto poi al fatto, da voi notificatomi per iscritto, che moltissimi di quei vescovi si sono scandalizzati perché nella Messa ricordate Giovanni, fratello e coepiscopo nostro della Chiesa di Ravenna, bisogna fare ricerche sull'antica consuetudine. Se veramente vi è stata consuetudine, ora questa non va riprovata da uomini stolti. Se poi non vi è stata consuetudine, non bisogna compiere ciò per cui alcuni possono essere scandalizzati. Tuttavia ho avuto subito cura di informarmi se il medesimo Giovanni, fratello e coepiscopo nostro, vi ricordi all'altare, il che mi dicono che non avviene. Se egli non fa memoria del vostro nome, non capisco quale necessità ci sia che voi ricordiate lui. Ma se questo si può fare, senza scandalo di alcuno, è molto lodevole che voi compiate un tale gesto, perché mostrate la carità che portate verso i vostri fratelli.
Circa quanto mi notificate, che cioè non avete voluto assolutamente far recapitare alla regina Teodolinda la mia lettera per il fatto che in essa si nominava il quinto Concilio, avete agito bene a non inoltrarla se avete pensato che ella potesse rimanere scandalizzata da tale menzione. Ora, quindi, facciamo come a voi è piaciuto: che lodassimo soltanto i primi quattro Concili. Quanto al Concilio che si tenne in seguito a Costantinopoli, e che da molti è denominato quinto, voglio che voi sappiate che non vi è stato determinato e stabilito nulla contro i quattro santissimi Concili, in quanto in esso si è trattato solo di persone e non di questioni di fede; e di persone delle quali nulla è detto nel Concilio di Calcedonia. Ma, dopo aver formulato i canoni, è venuta fuori una contesa, ed è stata dibattuta — come ultima — una causa riguardante delle persone. Io, tuttavia, ho fatto come voi avete voluto: non ho accennato a quei Concili. Ma ho anche scritto alla regina, figlia nostra, quello che mi avete suggerito sui vescovi.
Sulla questione di Ursicino, che vi ha scritto alcune cose contro Giovanni — fratello e coepiscopo nostro —, voi dovete — per mezzo di una vostra lettera —, con la dolcezza e la ragionevolezza, frenarlo dal suo proposito.
Riguardo, poi, a Fortunato, vogliamo che la fraternità vostra stia attenta a non farsi raggirare in qualche cosa da, uomini malvagi. Infatti sento dire che egli, con il vostro predecessore Lorenzo, ha mangiato per molti anni e fino ad ora alla mensa della Chiesa, che si è posto a sedere tra i nobili e che ha sottoscritto, e che — sapendolo il fratello nostro — ha militato nell'esercito. E dopo tanti anni, è sembrato ora opportuno alla fraternità vostra respingerlo per la sua condizione. Il che a me sembra del tutto inopportuno. Per questo vi ho fatto sapere ciò, ma in segreto, per mezzo di lui stesso. Tuttavia, se c'è qualcosa di ragionevole che gli possa essere obiettato, ciò deve essere dibattuto dinanzi alla nostra giurisdizione.
Al nostro figlio, poi, il signor Dinamio, se piaccia a Dio onnipotente, mandiamo una lettera per mezzo di un nostro uomo.
Note594 d.C., luglio. Il vescovo di Milano risiedeva ormai da tempo a Genova perché Milano era occupata dai Longobardi: molti suoi suffraganei erano ancora aderenti allo scisma dei Tre Capitoli e sostenuti dalla regina Teodolinda. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravennati.
Pervenit ad me quod in ecclesia fraternitatis tuae aliqua loca dudum monasteriis consecrata nunc habitacula clericorum aut etiam laicorum facta sint, dum que hi qui sunt in ecclesias fingunt se religiose vivere, monasteriis praeponi appetunt, et per eorum vitam monasteria destruuntur. Nemo etenim potest et ecclesiasticis obsequiis deservire et in monachica regula ordinate persistere, ut ipse districtionem monasterii teneat, qui cotidie in obsequio ecclesiastico cogitur permanere. Proinde fraternitas tua hoc, quolibet in loco factum est, emendare festinet; quia ego nullomodo patior loca sacra ut per clericorum ambitum destruantur. Vos itaque ita agite, ut mihi hac de re correctam causam sub celeritate nuntietis.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
Mi è pervenuta notizia che, nella Chiesa della fraternità tua, alcuni edifici di recente consacrati a monasteri siano divenuti abitazioni di chierici o perfino di laici; e tosi quelli che vivono dentro le chiese, mentre fingono di vivere da religiosi, aspirano ad essere preposti ai monasteri, e per la loro condotta essi [i monasteri] vanno in rovina. Nessuno, infatti, può contemporaneamente attendere con zelo agli impegni ecclesiastici e perseverare con ordine nella regola monastica: in modo che una stessa persona, mentre è costretta a rimanere giornalmente nel servizio ecclesiastico, custodisca pure la rigidità del monastero. Perciò la fraternità tua si affretti a eliminare questo abuso, ovunque esso si sia verificato; perché io non sopporto in alcun modo che i luoghi sacri siano screditati per imbrogli dei chierici. Voi, perciò, fate in modo di darmi al piú presto notizia che, su tale faccenda, la situazione è stata sanata.
Note594 d.C., settembre. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. La lettera riguarda l’ingerenza del clero regolare e della nobiltà, legati entrambi all’arcivescovado, nella vita e nei beni dei monasteri.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravennati.
Fraternitatem vestram valde invenio contristatam pro eo quod in letaniis induere pallium rationis censura prohibetur. Sed per excellentissimum patricium et per eminentissimum praefectum atque per alios civitatis suae nobiles viros importune expetit ut hoc debeat concedi. Nos autem sollicite requirentes ab Adeodato, quondam diacone fraternitatis tuae, cognovimus quia numquam consuetudo fuerit decessoribus tuis, ut in letaniis pallio nisi in sollemnitate beati Iohannis baptistae, beati Petri apostoli et beati martyris Apollinaris uterentur. Cui quidem nequaquam credere debuimus, quia multi apud civitatem fraternitatis vestrae responsales saepius fuerunt, qui se fatentur tale aliquid numquam vidisse. Et hac de re multis potius credendum est quam uni pro sua ecclesia aliquid attestanti. Sed quia nos fraternitatem vestram contristari nolumus et petitionem filiorum nostrorum apud nos minime frustrari, usum pallii, donec subtilius verius que aliquid cognoscamus, in letaniis sollemnibus, id est die natalicio beati Iohannis baptistae, beati Petri apostoli et beati Apollinaris martyris atque in ordinationis vestrae celebratione concedimus. In secretarium vero secundum morem pristinum, susceptis ac dimissis ecclesiae filiis, induere vestra fraternitas pallium debeat atque ad missarum sollemnia ita proficisci et nihil sibi amplius ausu temerariae praesumptionis arrogare, ne, dum in exteriori habitu inordinate aliquid arripitur, ordinate etiam quae licere poterant amittantur.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
Trovo che la fraternità vostra è molto contristata dal fatto che, per ragionevoli motivi, sia proibito nelle litanie indossare il palo. Ma, per mezzo dell'eccellentissimo patrizio [l’esarco Romano], dell'eminentissimo prefetto [del pretorio, Gregorio], e di altri nobili personaggi della sua città, chiede inopportunamente che ciò debba essergli concesso. Noi, invece, informandoci con cura presso Adeodato, una volta diacono della tua fraternità, abbiamo saputo che mai è stata consuetudine dei tuoi predecessori usare il pallio durante le litanie, eccetto che nelle solennità di San Giovanni Battista, San Pietro apostolo e Sant'Apollinare martire. Neppure a lui veramente abbiamo dovuto credere, perché vi sono stati molti che hanno svolto spesso la funzione di apocrisari presso la città della fraternità vostra, i quali attestano di non aver notato nulla di simile. E in questo bisogna credere più ai molti che a uno solo, il quale attesta qualcosa a favore della propria Chiesa. Tuttavia, poiché non vogliamo contristare la fraternità vostra e rendere del tutto vana la richiesta dei figli nostri fatta a noi, concediamo — finché non si facciano più approfondite indagini — l'uso del pallio nelle litanie solenni, cioè: nel giorno natalizio dei Santi Giovanni Battista, Pietro apostolo e Apollinare martire, e nella ricorrenza della vostra ordinazione. La fraternità vostra, quindi, deve indossare il pallio, secondo l'uso antico, nella sacrestia — dopo aver ricevuto e licenziato i chierici della chiesa —, e deve avviarsi così alla celebrazione della Messa e non arrogarsi nient'altro di più per temeraria presunzione; affinché, mentre si ghermisce inopportunamente qualcosa nell'abito esterno, non si perda anche ciò che, nell'ordine dovuto, poteva essere lecito.
Note594 d.C., ottobre. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. Esarcato di Romano: 589/590-595/597 d.C. Il prefetto del pretorio Giorgio, responsabile amministrativo e giuridico d’Italia sotto l’autorità dell’Esarco, risiedeva a Ravenna: è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato. Festa di S. Giovanni Battista: 24 giugno. Festa di S. Pietro apostolo: 29 giugno. Festa di S. Apollinare: 23 luglio. La lettera riguarda il corretto uso del pallio, un mantello sacerdotale, concesso nel 569 all’arcivescovo di Ravenna da papa Giovanni III (pontificato: 561-574 d.C.).
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo Ravennati.
Primum me hoc contristat quia mihi fraternitas tua duplici corde scribit et alia blandimenta in epistulis suis exhibet, alia in lingua sua saeculariter ostendit. Deinde grave mihi est quia irrisiones illas quas habere notarii adhuc pueri solent usque hodie frater meus Iohannes in lingua sua retinet: mordenter loquitur et quasi de tali astutia laetatur; amicis praesentibus blanditur, de absentibus obloquitur. Tertio grave mihi et omnino exsecrabile est quia servis suis, qua hora furit, turpia crimina imponit, ut effeminati et adhuc graviter ac apertius vocentur. Post hoc accessit quod disciplina ad vitam clericorum custodiendam nulla est, sed tantummodo solum clericis suis dominium exhibet. Ultimum vero est, quod tamen pondere elationis primum, quia de usu pallii extra ecclesiam, quod temporibus decessorum meorum facere numquam praesumpsit, numquam a decessoribus eius praesumptum est, sicut responsales nostri testantur, excepto si reliquiae conderentur – quod tamen de reliquiis unus tantummodo potuit inveniri qui diceret – meis diebus in despectu meo cum summa audacia non solum faciebat sed etiam frequentabat.
Ex quibus omnibus invenio quia honor episcopatus totus foras in ostensione est, non in mente. Et quidem ago omnipotenti Deo gratias, quia eo tempore quo ad me hoc pervenit, quod ad aures decessorum meorum numquam pervenerat, Langobardi inter me et Ravennatem civitatem positi fuerunt. Nam ostendere forsitan hominibus habui quantum scio esse districtus.
Ne autem credas quia ego ecclesiam tuam in aliquo gravari aut minui volo, recordare in missarum Romanarum sollemnitate ubi Ravennas diaconus stabat, et require ubi hodie stat, et cognoscis quia Ravennatem ecclesiam honorare desidero. Sed ut quicumque quodlibet ex superbia arripiat, hoc ego tolerare non possum. Tamen hac de re iam diacono Constantinopolim scripsi ut per omnes, qui sub se etiam tricenos et quadragenos episcopos habent, requirere debeat. Et sicubi iste usus est ut in letaniis cum palliis ambulent, absit ut ne per me honor Ravennatis ecclesiae in aliquo imminui videatur.
Haec ergo omnia quae superius dixi, frater carissime, recogita. Diem tuae vocationis attende, quas rationes de sarcina episcopatus redditurus es considera. Emenda illos mores notarii. Vide quid in lingua, quid in actu episcopum deceat. Esto totus purus fratribus tuis. Non aliud loquaris et aliud in corde habeas. Nec appetas ultra videri quam es, ut possis ultra esse quam videris. Crede mihi, quando ad hunc locum veni, tantae deliberationis fui tantae que caritatis circa fraternitatem tuam, ut, si eandem caritatem meam custodire voluisses, adhuc talem fratrem sic que te pure diligentem tibi que omni devotione concurrentem numquam inveneras. Sed cognitis verbis ac moribus tuis, fateor, resilivi. Rogo ergo per omnipotentem Deum, emenda omnia illa quae praemisi, maxime duplicitatis vitia. Permitte me amare te, et ad praesentem et ad secuturam vitam utile tibi esse poterit, ut a tuis fratribus ameris. Ad haec autem non mihi verbis sed moribus responde.
TraduzioneGregorio a Giovanni vescovo di Ravenna.
In primo luogo mi contrista il fatto che la fraternità tua mi scrive con doppiezza, e mentre usa nella sua lettera espressioni lusinghiere mostra in modo profano ben altro nelle sue parole. Poi mi pesa molto il fatto che il fratello mio Giovanni conserva nel suo gergo, sino ad oggi, gli schemi che sogliono avere i notai ancora adolescenti: parla mordacemente e quasi prende gusto di tale astuzia; lusinga gli amici presenti e sparla degli assenti. In terzo luogo mi è penoso e del tutto esecrabile il fatto che, quando è fuori di senno, impone di compiere turpitudini ai suoi domestici, al punto da essere chiamati — anche ora in modo grave e aperto — effeminati. A questo si aggiunge che non c'è affatto disciplina a salvaguardare la vita del clero, ma tu, con i suoi chierici, fa soltanto sfoggio di potere. In ultimo, poi — il che tuttavia è la prima cosa per il peso della superbia —, vi è l'uso del pallio fuori della chiesa, il che, al tempo dei miei predecessori, non si è mai presunto di fare e che non è stato mai compiuto da parte dei suoi predecessori — come gli apocrisari nostri ci attestano —, eccetto quando si riponevano le reliquie [di S. Severo] (per il fatto, tuttavia, delle reliquie si è potuto trovare uno solo che lo affermasse); uso del pallio che, attualmente, non solo faceva con somma sfrontatezza a mio dispetto ma che ripeteva anche spesso.
Da tutto ciò deduco che l'onore dell'episcopato sta tutto al di fuori, per farne mostra, non nel cuore. E ringrazio davvero Dio onnipotente che nel tempo in cui mi fu riferito questo — il che non era mai giunto alle orecchie dei miei predecessori — i Longobardi sono stati interposti tra me e la città di Ravenna. Infatti, talvolta, ho avuto modo di dimostrare quanto so essere severo.
Affinché tu non creda che io voglia in qualche cosa gravare o sminuire la tua Chiesa, ricorda dove stava — nella celebrazione delle Messe Romane — il diacono di Ravenna e considera dove si trova oggi, e deduci perché intendo onorare la Chiesa di Ravenna. Ma che qualcuno si arroghi per superbia qualche cosa, questo io non lo posso tollerare. Tuttavia, su tale faccenda, ho già scritto al mio diacono a Costantinopoli, affinché faccia ricerche mediante tutti quelli che hanno sotto di sé trenta o quaranta vescovi per ciascuno. E se in qualche posto vige questa usanza, che [i vescovi] camminino con il pallio durante le litanie, sia lungi che — per causa mia — l'onore della Chiesa di Ravenna sia in qualche modo sminuito.
Ripensa, perciò, fratello carissimo, a tutto quanto ti ho detto sopra. Pensa al giorno della tua chiamata, considera il rendiconto che dovrai dare dell'onere dell'episcopato. Correggi il tuo comportamento da notaio. Discerni ciò che si addica a un vescovo in parole e in azioni. Sii interamente puro per i tuoi fratelli. Non dire una cosa mentre nel cuore ne hai un'altra. Non voler apparire più grande di quanto sei per poter essere al di sopra di quanto tu sembri. Credimi, quando sono giunto a questo posto, sono stato propenso a tanta ponderazione e a tanta carità verso la tua fraternità che, se tu avessi voluto custodire questa medesima carità, mai avresti trovato sino ad ora un fratello simile: uno che ti amasse con tanta purezza e che fosse d'accordo con te in tutta devozione. Ma, confesso, conosciute le tue parole e la tua condotta, sono retrocesso. Perciò ti prego, in nome di Dio onnipotente, correggiti di tutte le cose che ho detto prima, soprattutto del vizio della doppiezza. Consentimi di amarti: ti potrebbe essere utile nella vita presente e in quella futura essere amato dai tuoi fratelli. A quanto ti ho detto, poi, rispondimi, non con parole ma col modo di agire.
Note594 d.C., novembre. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. La lettera riguarda il corretto uso del pallio, un mantello sacerdotale, concesso nel 569 all’arcivescovo di Ravenna da papa Giovanni III (pontificato: 561-574 d.C.). Le reliquie citate riguardano il vescovo Severo del IV sec. e la basilica a lui dedicata in Classe. Nella lettera si accenna all’interruzione dei collegamenti con Roma per via dell’inagibilità della via Flaminia: rispetto alle passate lettere, in questo caso non si tratta di un’occupazione prolungata, ma della guerra in atto tra Bizantini e Longobardi a Perugia.
Testo originaleGregorius Romano exarcho per Italiam residenti Ravenna.
Apud excellentiam vestram pravorum audacia correctionis debet aculeos magis quam defensionis invenire solacium. Nam satis grave est si illic habere pravam contingat actionem refugium, unde disciplinae decet prodire censuram. Pervenit itaque ad nos Speciosum quondam presbyterum, qui, causa poscente, in monasterio a Iohanne fratre et coepiscopo nostro fuerat deputatus, contra sui pastoris exinde voluntatem exisse et, ecclesiasticae constitutionis vigore despecto, antedicto episcopo vestra fretum tuitione resistere. Quod quia excellentiae vestrae sine dubio pulsat invidiam, necesse est ut ab eius vos, habita discretione, debeatis tuitione suspendere, ne, si nominis vestri occasione pastori suo inoboediens vel contumax fuerit, ad tempus vestros contra vos iudices defensare atque excellentiam vestram hac ex re cogatur episcopus offendere et nos pariter de vestra discordia contristare.
Comperimus praeterea, quod dici nefas est, quasdam mulieres, quae nuncusque in religioso atque monachico habitu permanserunt, suam vestem deponere et coniugibus, quod sine gravi referre dolore non possumus, sociari. Sed hoc quidem ut dicere vel attemptare praesumant, favoris vestri patrocinio fulciri dicuntur, quod nos credere perversitatis ipsius acerbitas non permittit. Petimus ergo ut in tanto vos peccato miscere nullatenus debeatis. Nam huiusmodi iniquitatem impunitam propter Deum nullomodo patimur remanere. Unde iterum quaesumus ut excellentia vestra in talium se causarum defensione non misceat, ne et Deus suam defendat iniuriam et inter nos aliorum pariat culpa discordiam.
TraduzioneGregorio a Romano esarca d’Italia residente a Ravenna.
Presso l'eccellenza vostra, l'audacia dei colpevoli deve trovare gli stimoli della correzione piuttosto che il sollievo della difesa, poiché sarebbe grave che la cattiva condotta trovasse rifugio proprio là donde conviene scaturisca la severità della disciplina. Ci è pervenuta notizia che l'ex presbitero Specioso, che per giusti motivi era stato relegato in monastero dal fratello e coepiscopo nostro Giovanni, se ne sia uscito contro la volontà del suo pastore, e che — contro il rigore della legge ecclesiastica — abbia opposto resistenza al predetto vescovo appoggiandosi alla vostra protezione. Poiché questo certamente provoca odiosità all'eccellenza vostra, bisogna che voi, con tutta discrezione, cessiate di proteggerlo, perché, se costui — sotto pretesto del vostro nome — sarà stato disobbediente e ostinato verso il suo pastore, a suo tempo il vescovo non difenda vigorosamente, contro di voi, i vostri censori, e sia forzato a offendere, per questo motivo, l'eccellenza vostra, e parimenti a contristare noi per la vostra discordia.
Abbiamo appreso, inoltre, il che è abominevole a dirsi, che alcune donne, le quali sono state perseveranti fino ad ora nel conservare l'abito religioso e monastico, depongono la loro veste e, ciò non possiamo riferire senza grande dolore, prendono marito. Ma per osar dire o tentare questo, in verità si vocifera che esse siano sorrette dal patrocinio della vostra benevolenza; tuttavia, la crudezza di questo sovvertimento ci impedisce di crederlo. Vi chiediamo, quindi, che non dobbiate in nessun modo immischiarvi in così grande peccato, poiché non sopportiamo affatto che un'iniquità di questo genere rimanga impunita presso Dio. Per questo chiediamo di nuovo che l'eccellenza vostra non si immischi in difesa di questioni di tal genere, perché, né Dio persegua l'ingiuria fatta a sé, né fra noi la colpa degli altri generi discordia.
Note594 d.C., dicembre. Esarcato di Romano: 589/590-595/597 d.C. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C.
Testo originaleGregorius Severo, episcopo Ficulino, visitatori ecclesiae Ravennae.
Obitum Iohannis antistitis directa relatio patefecit. Quapropter visitationis destitutae ecclesiae fraternitati tuae operam sollemniter delegamus. Quam ita te convenit exhibere, ut nihil de provectionibus clericorum, reditu, ornatu ministeriis que vel quicquid illud est in patrimonio eiusdem a quoquam praesumatur ecclesiae, et cetera secundum morem.
TraduzioneGregorio a Severo, vescovo di Cervia, visitatore della chiesa di Ravenna.
Una relazione a me diretta mi ha informato della morte del vescovo Giovanni. Per questo deleghiamo solennemente alla fraternità tua la funzione di visitatore della Chiesa priva di vescovo. Tale funzione ti conviene esercitarla in modo tale che niente, circa le promozioni del clero, il reddito, gli arredi sacri e le cariche o qualsiasi cosa appartenente al patrimonio di quella Chiesa, sia usurpato da alcuno; e altre cose secondo l'usanza.
Note595 d.C., (10) febbraio. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. Severo fu vescovo di Ficulis/Ficuclae (Cervia) almeno tra 591 e 599 d.C.
Testo originaleGregorius clero, ordini et plebi consistenti Ravennae.
Vestri antistitis obitum cognoscentes, curae nobis fuit destitutae ecclesiae visitationem fratri et coepiscopo nostro [Severo episcopo Ficulino] sollemniter delegare, cui dedimus in mandatis ut nihil de provectionibus clericorum, reditu, ornatu ministeriis que a quoquam usurpari patiatur. Cuius vos assiduis adhortationibus convenit oboedire, et cetera secundum morem.
TraduzioneGregosio al clero, all’ordine [dei curiali] e al popolo di Ravenna.
Sapendo della morte del vostro vescovo, è stata nostra cura affidare solennemente l'ufficio di visitatore della Chiesa priva di vescovo al nostro fratello e coepiscopo [Severo di Cervia] al quale abbiamo affidato il mandato di non permettere che niente, circa le promozioni del clero, il reddito, gli arredi sacri e le cariche, sia usurpato da alcuno. Alle sue autorevoli esortazioni a voi conviene obbedire, e altre cose secondo l'usanza.
Note595, (10) febbraio. La sede ravennate è vacante per la recente morte dell’arcivescovo Giovanni II.
Testo originaleGregorius Castorio notario.
Nimis nos Iohannis fratris et coepiscopi nostri mors cognita contristavit, maxime quod civitas illa hoc tempore amisit pastoralis curae solacium. Quia igitur plurimae utilitates exposcunt ut ecclesiae ipsi sacerdos sine mora Christo auctore debeat ordinari, ideoque experientiae tuae praecipimus quatenus clerum et populum omni instantia studeat adhortari ut consecrandum sibi non differant eligere sacerdotem. Quos tamen prae omnibus admonere te volumus ut in generali causa utilitates proprias non attendant. Nulla ergo sit in hac electione venalitas, ne, dum praemia appetunt, discretionem electionis amittant, et illum dignum ad hoc esse arbitrentur officium qui non meritis sed datione placuerit. Specialiter enim et absolute cognoscant quia non solum indignus est sacerdotio, sed et aliis profecto erit culpis obnoxius, quisquis Dei donum pretii praesumpserit venalitate mercari. Non itaque largus praemiis sed dignus meritis eligatur. Nam et electum et eligentes poena respiciet, si sacerdotii sinceritatem mente sacrilega violare temptaverint. Sive autem unus sive duo electi fuerint, quinque de prioribus presbyteris et quinque de praecedentibus simul venire per omnia commoneto. De clericis vero praeter eos qui venire deliberant, si quos alios praesentes esse necessarios aestimas, ad nos sine mora transmitte, ut ad ordinandam Dei ecclesiam nec excusatio nec aliqua possit provenire dilatio.
Data die x mensis februarii indictione xiii.
TraduzioneGregorio al notaio Castorio.
La notizia della morte del fratello e coepiscopo nostro Giovanni ci ha contristati molto, soprattutto perché quella città ha perduto in questo momento il conforto della cura pastorale. Poiché molti motivi richiedono che a quella stessa Chiesa debba essere ordinato — con l'aiuto di Cristo — senza indugi un sacerdote, per questo raccomandiamo all'esperienza tua che si adoperi a esortare, con ogni premura, il clero e il popolo perché non indugino nello scegliere un sacerdote per essere consacrato per loro. A questi elettori, tuttavia, vogliamo che tu raccomandi anzitutto che in una faccenda comunitaria non badino a interessi personali. Non vi sia quindi, in questa elezione, venalità di sorta, perché mentre cercano ricompense non perdano — nell'elezione — la libertà di discernere e ritengano degno di questo ufficio colui che è a loro gradito non per i meriti ma per il contraccambio. Che sappiano infatti, in modo speciale e perfetto, che non solo è indegno del sacerdozio, ma che sarà certamente soggetto ad altre colpe, chiunque avrà osato mercanteggiare sulla stima del dono di Dio. Non si elegga, quindi, chi è prodigo nei doni ma chi è degno per i meriti. Saranno infatti esposti a punizione sia l'eletto che gli elettori, se avranno tentato di violare con mente sacrilega la purezza del sacerdozio. Inoltre, tanto se l'eletto fosse uno solo quanto se ve ne fossero due, ricorda loro, per ogni cosa, di venire qui assieme a cinque dei primi presbiteri e a cinque dei piú ragguardevoli [cittadini]. Dei chierici, poi, oltre a quelli che avevano deciso di venire, se ritieni necessario che ve ne siano presenti altri, mandali da noi, senza indugio, perché non abbiano a intercorrere scuse e ritardi di sorta nel mettere in assetto la Chiesa di Dio.
Data il 10 febbraio della XIII indizione
Note595 d.C., 10 febbraio. La sede ravennate è vacante per la recente morte dell’arcivescovo Giovanni II. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza di Castorio, “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Castorio notario.
Nostro quaedam ad nos de Pisaurensi episcopo pervenerunt, quae indiscussa nullomodo sunt relinquenda. Propterea experientiae tuae praecipimus ut de vita ac actibus ipsius subtili indagatione studeat perscrutari. Et si quid fortasse reppererit quod sacerdotii, quod absit, integritatem valeat maculare, ad nos eum cum scriptis tuis de his quae in veritate cognoveris omnimodo sub competenti cautela transmitte, ut informati Deo revelante subtilius veritatem, quid fieri debeat pertractemus. Non solum autem de eo sed et de aliorum quoque sacerdotum vita te convenit esse sollicitum. Et si de quolibet sinistrum quippiam sentire potueris, nobis renuntiare festina, ut actuum pravitas salubriter cum Dei solacio debeat emendari.
Pervenit itaque ad nos Adeodatum quendam civem Pisaurensem filio atque vernaculo suo heredibus institutis Thomam deputasse tutorem, hanc condicionem adiciens ut, si forte heredes ipsius in pupillari aetate de hac vita transirent, omnis eius substantia per manus antedicti tutoris debuisset pauperibus erogari. His qui heredes fuerunt instituti defunctis, ne defuncti possit voluntas impleri suprascriptus tutor a quibusdam dicitur impediri. Propterea si, sicut edocti sumus, ita esse in veritate compereris, curae atque sollicitudinis tuae sit antedictum tutorem rationabiliter tueri atque defendere, ut quaeque sibi iniuncta sunt, valeat effectui mancipare. Sed quoniam dicitur eundem tutorem velle aliquid in diaconia quae ibidem constituta est emere, summopere ei solaciari festina, ut ea quae mercedis intuitu piis causis relicta sunt, te concurrente, sine cuiusquam possint impedimento compleri.
Valerianum vero monachum, quem emendatum in monasterio beati Iohannis in Classe posito tradidisti, in eo eum monasterio sine dubio volumus permanere. Praeterea ne quam necessitatem in expensis tua experientia patiatur, de reditibus sanctae Romanae ecclesiae, qui illic te providente aggregati sunt, omnes expensas tuas te facere volumus. Et si quid superfuerit, nobis cum veneris defer.
TraduzioneGregorio al nostro notaio Castorio.
Ci sono pervenute alcune notizie sul vescovo di Pesaro che non bisogna lasciare in nessun modo senza approfondimento. Per questo raccomandiamo all'esperienza tua che cerchi di promuovere un'approfondita indagine sulla vita e le azioni di quest'uomo. E se caso mai avrai trovato qualcosa che possa macchiare l'integrità del sacerdozio — il che sia lungi —, con la dovuta precauzione mandalo da noi, accompagnato da una lettera su quanto di vero avrai riscontrato, affinché, informati minutamente — con l'aiuto del lume divino — sulla verità, studiamo il da farsi. Conviene, poi, che tu sia sollecito non solo di lui ma anche della vita degli altri sacerdoti. E se ti sarai potuto accorgere di qualcosa in contrario, affrettati a riferirmelo, perché — con il soccorso di Dio — si emendi in modo salutare la perversità delle azioni.
Abbiamo poi appreso che un certo Adeodato, cittadino di Pesaro, avendo nominato eredi il figlio e un suo domestico, ha designato Tommaso come tutore, aggiungendo questa clausola: che, se i suoi eredi fossero morti minorenni, tutta la sua proprietà sarebbe dovuta essere distribuita — per mano del citato tutore — ai poveri. Essendo morti coloro che furono costituiti eredi, affinché non potesse essere adempiuta la volontà del defunto, da alcuni si dice che il suddetto tutore sia incapace. Perciò, se avrai avuto per certo che la cosa sta veramente così come siamo stati informati, sia tua cura e sollecitudine proteggere e difendere il sopraddetto tutore, perché possa condurre a termine tutto ciò che gli è stato ingiunto. Anzi, poiché si dice che il medesimo tutore voglia comprare qualcosa nella diaconia che ivi è stata eretta, affrettati con ogni sforzo perché sia esaudito; affinché, ciò che — in vista della ricompensa — è stato concesso per opere pie possa essere, mediante il tuo aiuto, portato a compimento senza l'intralcio di alcuno.
Il monaco Valeriano, poi, che hai mandato in penitenza nel monastero di San Giovanni in Classe, vogliamo senza alcun dubbio che vi rimanga. Inoltre, perché la tua esperienza non abbia a subire nessuna ristrettezza per le spese da fare, è nostra volontà che tutte queste spese tu le computi sui redditi della santa Romana Chiesa che — per tua cura — sono stati ivi raccolti. Se dovesse avanzare qualcosa, rimettilo a noi quando sarai venuto.
Note595 d.C., febbraio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza di Castorio, “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Il monastero di SS. Giovanni e Stefano in Classe sembra sia stato fondato dall’arcivescovo Giovanni II e nei primi anni legato a Roma (Giovanni II e l’abate Claudio erano romani e le lettere di Gregorio Magno confermano l’interesse), poi viene assorbito da altri monasteri e risulta distrutto nell’XI d.C.
Testo originaleGregorius Severo scolastico exarchi.
Qui assistunt iudicibus et sinceris erga eos dilectionibus obstringuntur, illa eis suadere debent atque suggerere, quae et animam salvant et opinioni non derogant. Proinde quoniam novimus quanta fidei sinceritate excellentissimum exarchum diligatis, idcirco magnitudini vestrae quae acta sunt indicare curavimus, ut haec cognoscentes ad consentiendum eum rationabiliter provocetis.
Scitote autem quia Agilulfus Langobardorum rex generalem pacem facere non recusat, si tamen domnus patricius iudicium esse voluerit. Nam multa sibi in locis suis intra pacis terminum queritur esse commissa. Et quoniam sibi, si ratio iudicantium invenerit, satisfieri postulat, et ipse quoque se satisfacturum modis omnibus pollicetur, si quid a partibus suis constiterit in pace commissum. Quia ergo rationi non ambigitur convenire quod petit, oportet esse iudicium, ut, si qua ab utraque parte male facta sunt, componantur, dummodo generalis pax Deo valeat protegente firmari. Nam qualiter nobis sit omnibus necessaria bene nostis. Sapienter itaque, sicut consuestis, agite, ut excellentissimus exarchus ad hoc sine mora debeat consentire, ne per eum pax rennui, quod non expedit, videatur. Si enim consentire noluerit, nobis cum quidem specialem pacem facere repromittit, sed scimus quia et diversae insulae et loca sunt alia procul dubio peritura. Haec autem consideret et pacem habere festinet, quatenus in hac saltem dilatione et nos quietem habere possimus ad modicum, et reipublicae resistendi vires adiuvante Domino melius reparentur.
TraduzioneGregorio a Severo, scolastico dell’esarca.
Coloro che assistono gli alti funzionari, e sono legati ad essi da sincero amore, debbono consigliare e suggerire loro ciò che salva l'anima e non danneggia la reputazione. Poiché sappiamo con quanta sincera fedeltà amiate l'eccellentissimo esarca [Romano], ci diamo premura di segnalare alla vostra magnificenza ciò che è avvenuto, perché, conoscendo come stanno le cose, lo induciate ragionevolmente al consenso.
Sappiate, d'altra parte, che Agilulfo, re dei Longobardi, non è contrario a fare una tregua generale, se il signor patrizio avrà acconsentito che ci sia un giudizio. Quello si lamenta, infatti, che nelle sue terre, durante il tempo di tregua, sono state commesse molte azioni a lui contrarie. E siccome richiede che gli si dia un indennizzo, se il giudizio degli arbitri avrà appurato la cosa, anch'egli promette, a sua volta, di dare in tutti i modi un indennizzo, se sarà risultato che dalle sue parti qualcosa è stato contravvenuto durante la tregua. Poiché non c'è dubbio che quanto egli richiede è secondo ragione, conviene che ci sia un discernimento, affinché, qualora dall'una e dall'altra parte si sono compiute malamente certe cose, siano messe a posto, purché ciò valga a che venga stipulata — con l'aiuto di Dio — una tregua generale. Voi conoscete bene quanto essa sia necessaria a noi tutti. Agite perciò con saggezza, come siete abituato, in modo che l'eccellentissimo esarca debba acconsentire senza indugi a questo, perché non appaia che a motivo suo la tregua sia negata, il che non conviene. Se infatti non vorrà acconsentire, Agilulfo si ripromette di fare una tregua speciale con noi, ma in questo caso sappiamo che diverse case e altri poderi andrebbero senza dubbio perduti. Si consideri tutto questo e ci si affretti a stipulare la tregua, perché, almeno in questa proroga, noi possiamo avere un po' di quiete, e le risorse dell'amministrazione pubblica per la resistenza siano recuperate meglio, con l'aiuto di Dio.
Note595 d.C., maggio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche lo “scolasticus”, esperto/consulente di diritto, Severo. Esarcato di Romano: 589/590-595/597 d.C. Regno di Agilulfo: 591-616 d.C.
Testo originaleGregorius Constantinae augustae.
Omnipotens Deus, qui pietatis vestrae cor suae dextera maiestatis tenet, et nos ex vobis protegit et vobis pro temporalibus actibus aeternae praemia remunerationis parat. Nam Sabiniano diacone responsali meo scribente, cognovi in causis beati Petri apostolorum principis contra quosdam superbe humiles, ficte blandos quanta se iustitia vestra serenitas impendat. Et in redemptoris nostri largitate confido quia bonum hoc in serenissimo domino et piissimis filiis, in caelestis quoque patriae retributione recipiatis; nec dubium est, peccatorum vinculis solutis, aeterna vos bona recipere, quae in causis eius ecclesiae ipsum vobis, cui potestas ligandi et solvendi data est, debitorem fecistis. Unde adhuc peto ut nullius praevalere contra veritatem hypocrisin permittatis, quia sunt quidam qui iuxta egregii praedicatoris vocem “per dulces sermones et benedictiones seducunt corda innocentium” [S. Paolo, Romani, 16.18]; qui veste quidem despecti sunt sed corde tument et quasi in hoc mundo cuncta despiciunt sed tamen ea quae mundi sunt cuncta simul adipisci quaerunt; qui indignos se omnibus hominibus fatentur sed privatis vocabulis contenti esse non possunt, quia illud appetunt unde omnibus digniores esse videantur. Vestra itaque pietas, quam omnipotens Deus cum serenissimo domino universo mundo praeesse constituit, illi per favorem iustitiae suum famulatum reddat, a quo ius tantae potestatis accepit, ut quanto verius in exsecutione veritatis auctori omnium servit, tanto securius commisso mundo dominetur.
Praeterea indico quia piissimi domini scripta suscepi, ut cum fratre et consacerdote meo Iohanne debeam esse pacificus. Et quidem sic religiosum dominum decuit, ut sacerdotibus ista praeciperet. Sed cum se nova praesumptione atque superbia isdem frater meus universalem episcopum appellet, ita ut sanctae memoriae decessoris mei tempore ascribi se in synodo tali hoc superbo vocabulo faceret, quamvis cuncta acta illius synodi, sede apostolica contradicente, soluta sint, triste mihi aliquid serenissimus dominus innuit, quod non eum corripuit qui superbit, sed me magis ab intentione mea declinare studuit, qui in hac causa evangeliorum et canonum statuta, humilitatis atque rectitudinis veritatem defendo. Qua in re a praedicto fratre et consacerdote meo contra evangelicam sententiam, contra quoque beatum Petrum apostolum et contra omnes ecclesias canonum que agitur statuta. Sed est omnipotens Deus, in cuius manu sunt omnia, de quo scriptum est: “Non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Deum” [Proverbi, 21.30]. Et quidem saepe praefatus sanctissimus frater serenissimo domino multa suadere conatur; sed bene novi quia tantae illae orationes eius et lacrimae nihil ei a quoquam contra rationem aut animam suam subripi permittunt.
Triste tamen valde est ut patienter feratur quatenus, despectis omnibus, praedictus frater et coepiscopus meus solus conetur appellari episcopus. Sed in hac eius superbia quid aliud nisi propinqua iam Antichristi esse tempora designantur? Quia illum videlicet imitatur qui, spretis in sociali gaudio angelorum legionibus, ad culmen conatus est singularitatis erumpere dicens: “Super astra caeli exaltabo solium meum, sedebo in monte testamenti, in lateribus aquilonis, ascendam super altitudinem nubium, similis ero altissimo” [Isaia, 14.13-14]. Unde per omnipotentem Dominum rogo ne pietatis vestrae tempora permittatis unius hominis elatione maculari neque tam perverso vocabulo ullum quoquo modo praebeatis assensum. Atque hac in causa nequaquam me pietas vestra despiciat, quia, etsi peccata Gregorii tanta sunt, ut pati talia debeat, Petri apostoli peccata nulla sunt, ut vestris temporibus pati ista mereatur. Unde iterum atque iterum per omnipotentem dominum rogo ut, sicut parentes vestri priores principes sancti petri apostoli gratiam quaesiuerunt, vos quoque hanc vobis et quaerere et servare curetis et propter peccata nostra, qui ei indigni servimus, eius apud vos honor nullatenus minuatur, qui et modo vobis adiutor esse in omnibus, et postmodum vestra valeat peccata dimittere.
Viginti autem iam et septem annos ducimus, quod in hac urbe inter Langobardorum gladios vivimus. Quibus quam multa ab hac ecclesia cotidianis diebus erogantur, ut inter eos vivere possimus, suggerenda non sunt. Sed breviter indico quia, sicut in Ravennae partibus dominorum pietas apud primiexercitum Italiae saccellarium habet, qui, causis supervenientibus, cotidianas expensas faciat, ita et in hac urbe in causis talibus eorum saccellarius ego sum. Et tamen haec ecclesia, quae uno eodem que tempore clericis, monasteriis, pauperibus, populo atque insuper Langobardis tam multa indesinenter expendit, ecce adhuc ex omnium ecclesiarum afflictione premitur, quae de hac unius hominis superbia multum gemunt, etsi dicere nil praesumunt.
Salonitanae vero civitatis episcopus, me ac responsali meo nesciente, ordinatus est, et facta res est, quae sub nullis anterioribus principibus evenit. Quod ego audiens ad eundem praevaricatorem, qui inordinate ordinatus est, protinus misi, ut omnino missarum sollemnia celebrare nullomodo praesumeret, nisi prius a serenissimis dominis cognoscerem, si hoc fieri ipsi iussissent; quod ei sub excommunicationis interpositione mandavi. Et contempto me atque despecto, in audacia quorundam saecularium hominum, quibus denudata sua ecclesia praemia multa praebere dicitur, nuncusque missas facere praesumit atque ad me venire secundum iussionem dominorum noluit. Ego autem praeceptioni pietatis eius oboediens eidem Maximo, qui me nesciente ordinatus est, hoc quod in ordinatione sua me vel responsalem meum praetermittere praesumpsit, ita ex corde laxavi, ac si me auctore fuerit ordinatus. Alia vero perversa illius, scilicet mala corporalia, quae cognovi, vel quia cum pecuniis est electus vel quod excommunicatus missas facere praesumpsit, propter Deum irrequisita praeterire non possum. Sed opto et Dominum deprecor, quatenus nihil in eo de his quae dicta sunt valeat inveniri, et sine periculo animae meae causa ipsius terminetur. Prius tamen quam haec cognoscantur, serenissimus dominus discurrenti iussione praecepit ut eum venientem cum honore suscipiam. Et valde grave est ut vir de quo tanta et talia nuntiantur, cum ante requiri et discuti debeat, honoretur. Et si episcoporum causae mihi commissorum apud piissimos dominos aliorum patrociniis disponuntur, infelix ego in ecclesia ista quid facio? Sed ut episcopi mei me despiciant et contra me refugium ad saeculares iudices habeant – omnipotenti Deo gratias ago – peccatis meis deputo. Hoc tamen breviter suggero quia aliquantulum exspecto et, si ad me venire diu distulerit, exercere in eo districtionem canonicam nullomodo cessabo. In omnipotente autem Domino confido quia longam piissimis dominis vitam tribuet et nos sub manu vestra non secundum peccata nostra sed secundum suae gratiae dona disponet. Haec ergo tranquillissimae dominae suggero, quia integerrima serenitatis eius conscientia quanto moveatur zelo rectitudinis atque iustitiae non ignoro.
Data die kalendarum Iuniarum.
TraduzioneGregorio a Costantina augusta.
Dio onnipotente sostiene con la destra della sua maestà il cuore della clemenza vostra, protegge noi per riguardo di voi, e prepara a voi — a motivo del bene che compite— il premio della ricompensa eterna. Ho saputo dalla lettera di Sabiniano, mio diacono e apocrisario, con quanta rettitudine la serenità vostra è impegnata negli interessi di san Pietro, principe degli apostoli, contro alcuni che nella superbia si atteggiano ad umiltà e fingono di essere miti. E inoltre io confido nella generosità del nostro Redentore che questo bene che voi compite ricada sul serenissimo mio signore e sui piissimi suoi e che ve lo ritroviate anche nella ricompensa della celeste patria; né vi è dubbio che, sciolti i vincoli dei peccati, voi riceviate i beni eterni, dal momento che — negli interessi della sua Chiesa — avete reso vostro debitore colui al quale è stata concessa la potestà di legare e di sciogliere. Perciò chiedo ancora che non permettiate che prevalga l'ipocrisia di alcuno contro la verità, perché ci sono quelli che, secondo l'espressione dell'eccellente Predicatore, “con le dolci parole e le benedizioni seducono i cuori degli innocenti”; che, invero, nel vestito sono dimessi ma sono gonfi nel cuore; che si direbbe che disprezzino tutti i beni di questa terra ma cercano tuttavia di ottenere le cose mondane tutte insieme; che si dichiarano indegni dinanzi a tutti gli uomini ma non possono accontentarsi di denominazioni comuni, perché ricercano ciò per cui appaiano essere superiori a tutti. Perciò la vostra clemenza, che Dio onnipotente ha stabilito che fosse a capo — accanto al serenissimo imperatore — del mondo intero, renda il suo servizio — a favore della giustizia — a colui dal quale ha ricevuto il privilegio di una così grande autorità, affinché quanto più sinceramente — nella ricerca della verità — è sottomessa al Creatore di tutte le cose, tanto più serenamente regnerà sulla terra a lei affidata.
Dichiaro, inoltre, di aver ricevuto la lettera del piissimo imperatore [Maurizio], perché mi rappacificassi con Giovanni [patriarca], fratello mio e collega nel sacerdozio. Certo, si addice a un sovrano religioso raccomandare atteggiamenti di questo genere a dei sacerdoti. Ma proclamandosi, questo mio medesimo fratello, con inaudita presunzione e superbia, vescovo “universale” — così, con questo superbo appellativo, al tempo del mio predecessore di santa memoria [Pelagio II], si faceva chiamare in un sinodo, i cui atti furono tutti dichiarati nulli per opposizione della Sede apostolica —, il serenissimo imperatore mi palesa qualcosa di molto triste, dal momento che non ha corretto lui che insuperbiva ma si è dato cura piuttosto di far desistere me dal mio proposito, mentre io difendo — in questa questione — le prescrizioni dei Vangeli e dei canoni, e inoltre la realtà dell'umiltà e della rettitudine. In questo, il predetto fratello e collega mio nel sacerdozio va contro il pensiero evangelico, contro l'apostolo san Pietro, contro tutte le Chiese e le prescrizioni dei canoni. Ma c'è Dio onnipotente, nelle cui mani sono tutti gli esseri, e di lui è scritto: “Non c'è sapienza, non c'è accortezza, non c'è senno contro Dio”. Certo, il predetto santissimo fratello spesso cerca di persuadere il serenissimo sovrano; ma so bene che le tante sue preghiere e lacrime non gli permettono di ottenere da qualcuno, in modo subdolo, nulla contro la ragione o contro la sua anima.
È molto triste, tuttavia, che si sopporti con rassegnazione che il predetto fratello e collega mio nell'episcopato cerchi di essere chiamato vescovo “da solo”. Ma in questa sua superbia, che altro si preannunzia se non che è vicino il tempo dell'Anticristo? Quegli imita, cioè, colui che — disprezzando il comune gaudio delle legioni angeliche — ha tentato di balzare al culmine della singolarità, dicendo: “Innalzerò il mio trono al di sopra degli astri del cielo, siederò sul monte del testamento, dal lato del settentrione, salirò al di sopra dell'altezza delle nubi, sarò simile all'Altissimo”. Perciò, in nome dell'onnipotente Signore, vi prego di non permettere che i tempi della vostra clemenza siano macchiati dall'esaltazione di un solo uomo, e di non dare il vostro assenso in alcun modo a un appellativo perverso. Inoltre, in questa circostanza, la vostra bontà in nessun modo mi disdegni, perché, se i peccati di Gregorio sono tanti da meritare tali castighi, i peccati di san Pietro non esistono da meritare tali ingiurie sotto il vostro Impero. Per questo, più e più volte vi prego, per l'onnipotente Signore, affinché, come i vostri genitori [la coppia imperiale Tiberio II e Elia Anastasia] e gli antecedenti sovrani chiesero il favore dell'apostolo san Pietro, anche voi cerchiate di chiederlo e di conservarlo; e perché, per i peccati nostri — noi che indegnamente lo serviamo —, la vostra devozione verso di lui non diminuisca in modo alcuno. Che lui soltanto vi sia d'aiuto in tutto, e in seguito possa condonare i vostri peccati. Sono già ventisette anni [568 d.C.] che in questa città viviamo tra le spade dei Longobardi. E quanto denaro si sborsi ad essi da questa Chiesa ogni giorno per poter vivere tra loro, non è il caso di dirlo. Ma in breve dichiaro che, come nelle parti di Ravenna la demenza dell'imperatore ha un primo tesoriere dell'esercito d'Italia che — per i bisogni che sopravvengono — fa le spese giornaliere, così anche in queste città — in circostanze simili — il tesoriere sono io. E tuttavia questa Chiesa, che spende in uno stesso tempo incessantemente tanto denaro per chierici, monasteri, poveri, e anche per il popolo longobardo, ecco che, inoltre, è compressa dalla pena di tutte le Chiese, che si dolgono molto di questa arroganza di un solo uomo, sebbene non osino dire nulla.
Il vescovo della città di Salona [Massimo], poi, è stato eletto senza che io e il mio apocrisario ne sapessimo niente: un fatto che sotto i sovrani precedenti non è mai accaduto. Avendo saputo ciò, ho scritto subito allo stesso prevaricatore, che è stato eletto non secondo le norme, perché non osasse in nessun modo celebrare la solennità della Messa se io prima non avessi conosciuto dal serenissimo imperatore se gli avesse ordinato lui stesso di fare questo: gli ho ordinato questa cosa sotto pena di scomunica. E lui, non curandosi affatto di me e basandosi sulla temerità di alcuni secolari — ai quali si dice abbia versato molto denaro depauperando la propria Chiesa —, fino ad oggi osa celebrare la Messa e si è rifiutato di venire da me secondo la disposizione dell'imperatore. Io, d'altra parte, obbedendo all'ordinamento della sua clemenza, mi sono pacificato di tutto cuore — come se fosse stato eletto per mia iniziativa — verso lo stesso Massimo che è stato nominato a mia insaputa: e si è rifiutato di venire da me secondo la disposizione dell'imperatore. Io, d'altra parte, obbedendo all'ordinamento della sua clemenza, mi sono pacificato di tutto cuore — come se fosse stato eletto per mia iniziativa — verso lo stesso Massimo che è stato nominato a mia insaputa: per il fatto che aveva scavalcato nella sua elezione, me e il mio apocrisario. Le altre sue perversità, però, cioè: i peccati della carne di cui sono venuto a conoscenza, l'essere stato eletto per denaro, l'aver osato celebrare la Messa da scomunicato, non posso — per riguardo a Dio — lasciarle non inquisite. Ma desidero ardentemente e prego il Signore che non si riscontri in lui niente di quanto è stato detto, e che la sua situazione si determini senza rischio per l'anima mia. Tuttavia, prima che si accertino queste cose, il serenissimo sovrano, in una disposizione ordinaria mi prescrive che, venendo lui [il vescovo] qui, io lo riceva con onore. È assai grave che un uomo di cui si dicono tante e tali cose, dovendo essere prima inquisito, sia oggetto di onori. Se le questioni dei vescovi a me affidati sono decise, con il patrocinio di altri, presso il piissimo imperatore, che ruolo esercito io, infelice, in questa Chiesa? Ma io attribuisco ai miei peccati il fatto che i miei vescovi mi disprezzino e ricorrano alle autorità secolari contro di me: ne rendo grazie a Dio onnipotente. Tuttavia, in breve, aggiungo questo: io aspetto un poco e, se quello avrà rinviato a lungo a venire da me, non mi asterrò assolutamente dall'esercitare su di lui la severità canonica. Ho fiducia in Dio onnipotente che concederà una lunga vita ai piissimi sovrani, e disporrà di noi — sotto la vostra autorità — non secondo i nostri peccati ma secondo i doni della sua grazia. Sottopongo, quindi, queste cose alla serenissima imperatrice, perché non ignoro da quanto zelo di rettitudine e di giustizia sia mosso l'integerrimo sentimento della sua serenità.
Data il primo di giugno.
Note595 d.C., 1 giugno. Costantina (regno: 582-602 d.C.) era moglie dell’imperatore Maurizio (regno: 582-602 d.C.). La prima parte della lettera riguarda il conflitto istituzionale col patriarca di Costantinopoli Giovanni “il Digiunatore” (Nesteutes, 582-595 d.C.), autoproclamatosi universale contro l’autorità del Papa; la seconda parte la presa di posizione nei confronti dell’elezione episcopale a Salona di Massimo, fatta contro le norme vigenti. Sabiniano era il rappresentante ufficiale di Gregorio Magno a Costantinopoli. Il predecessore di Gregorio Magno fu papa Pelagio II (papato: 579-590 d.C.). La sinodo nella quale Giovanni di Costantinopoli si proclamò universale si tenne a Costantinopoli nel 587 d.C. Costantina era figlia dell’imperatore Tiberio II (regno: 578-582 d.C.) e della moglie Ino Elia Anastasia (regno: 578-582 d.C.). Gregorio Magno colloca l’invasione longobarda al 568 d.C.: il papa cita i contributi imperiali che sia a Ravenna che a Roma sono in gran parte spesi per scongiurare la definitiva capitolazione imperiale in Italia mediante il pagamento di tributi e riscatti.
Testo originaleGregorius Andreae scolastico.
Excellentissimi viri domni patricii voluntatem in persona Donati archidiaconi implere voluimus. Sed quia valde periculosum est animae temere cuiquam manum imponere, curae nobis fuit vitam actumque eius subtili investigatione discutere. Et quoniam multa inventa sunt, sicut eidem domno patricio scripsimus, quae eum procul ab episcopatu removerent, Dei iudicium metuentes in ordinando eo non praesumpsimus consentire. Sed nec Iohannem presbyterum psalmorum nescium praevidimus ordinare, quia haec eum res minus sui profecto habere studium demonstrabat. His igitur remotis, cum ad eligendum de suis a nobis partes urguerentur et nullum se habere ad hoc officium faterentur idoneum maiorque nos una cum eis teneret afflictio, tandem venerabilem fratrem Marinianum presbyterum, quem diu mecum didicere in monasterio conversatum, communi concordantique voce atque consensu saepius petiverunt.
Cuique refugienti diversis modis vix aliquandoque potuit suaderi ut eorum praeberet petitioni consensum. Et quia bene nobis eius vita est cognita atque in lucrandis illum animabus novimus esse sollicitum, nullam in ordinatione ipsius moram attulimus. Gloria itaque vestra eum sicut decet suscipiat novitatique eius consolationis auxilium porrigat. Nam omnibus, sicut nostis, cuiuslibet officii valde onerosa est novitas. Ego autem magnam confidentiam habeo quia omnipotens Deus, qui eum in suo est dignatus grege praeponere, et ad interiora illum curanda exacuit et ad exteriora gerenda gratiae suae pietate confortat. Sed quia post longa quietis otia eius, ut praediximus, novitas proculdubio perturbatur, peto ut, cum venerit tempestatum saeculariurn procellas fugiens, semper apud vestram mentem portum quietis inveniat et de vestrae bono caritatis hilarescat. Quantum vero vobis cum illo convenire valeat, citius cognoscetis, quia ad episcopatum venit invitus.
TraduzioneGregorio ad Andrea scolastico.
Avremmo voluto soddisfare il desiderio dell'eccellentissimo signor patrizio [l’esarco Romano] circa la persona dell'arcidiacono Donato. Ma poiché è molto pericoloso per l'anima imporre alla cieca le mani su qualcuno, è stata nostra cura esaminare con minuziosa indagine la sua vita e la sua condotta. E siccome sono state scoperte molte cose, come abbiamo scritto allo stesso signor patrizio, che lo allontanavano dall'episcopato, temendo il giudizio divino, non abbiamo osato acconsentire alla sua elezione. Ma non abbiamo previsto di eleggere neppure il presbitero Giovanni, che ignora i salmi, perché questo fatto dimostrava, senza dubbio, che egli avesse poca cura di sé. Messi da parte, perciò, questi due, poiché le parti erano sollecitate da me a che fosse eletto uno dei loro, e poiché dichiaravano che non avevano nessuno idoneo a questo ufficio, essendo io e loro presi da grande afflizione, alla fine — per comune e concorde voce e consenso — hanno richiesto più volte il venerabile fratello Mariniano, presbitero, che sapevano che aveva fatto vita comune con me per lungo tempo in monastero.
Sfuggendo egli a ciò, a stento alla fine, in diversi modi lo si è potuto persuadere a dare il consenso alla loro richiesta. E poiché la sua vita ci è favorevolmente nota e lo abbiamo riconosciuto sollecito nel guadagnare anime, non abbiamo posto nessun indugio per la sua nomina. Perciò la gloria vostra lo riceva come si conviene, e porti alla sua nuova condizione di vita, il sostegno della protezione. Per tutti, infatti, come sapete, la novità di qualsiasi ufficio è molto onerosa. Io però ho grande fiducia che Dio onnipotente, il quale si è degnato di preporlo al suo gregge, lo stimoli nel nutrire la vita interiore e lo fortifichi, con la forza della sua grazia, nel disbrigo degli affari esteriori. Ma poiché dopo un lungo periodo di silenzio l'innovazione certamente porta turbamento, come abbiamo detto sopra, vi prego che quando dovesse venire da voi, fuggendo le tempeste del mondo trovi sempre presso il vostro cuore il porto della tranquillità e sia allietato dal vantaggio della vostra considerazione. Quanto, poi, vi convenga essere d'accordo con lui, ve ne accorgerete presto, poiché egli ha acconsentito a malincuore all'episcopato.
Note595 d.C., luglio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche lo “scolasticus”, esperto/consulente di diritto, Andrea. Esarcato di Romano: 589/590-595/597 d.C. La lettera riguarda l’elezione del nuovo arcivescovo di Ravenna, che sarà il romano Mariniano, precedentemente confratello di papa Gregorio nel monastero del Celio: 595-606 d.C.
Testo originaleGregorio Mariniano episcopo Ravennati.
Apostolicae sedis benivolentia et antiquae consuetudinis ordine provocati fraternitati tuae, quam in Ravennati ecclesia gubernationis suscepisse constat officium, pallii usum pervidimus concedendum. Quo non aliter uti memineris, nisi in propria tuae civitatis dimissis iam filiis ecclesia procedens a salutatorio ad sacra missarum sollemnia celebranda; peractis vero missis id in salutatorio rursum curabis deponere. Extra ecdesiam vero non amplius illo tibi nisi quater in anno in letaniis quas ad decessorem tuum Iohannem expressimus uti permittimus, hoc nihilominus admonentes ut, sicut a nobis huiuscemodi decoris usum ad sacerdotalis officii honorem largiente Domino percepisti, ita etiam morum, atque actuum probitate ad Christi gloriam susceptum adornare contendas officium. Sic etenim alterno eris invicem decore conspicuus, si ad huiusmodi corporis habitum mentis quoque tuae bona concordent. Omnia etiam privilegia, quae tuae pridem concessa esse constat ecclesiae, nostra auctoritate firmamus et illibata decernimus permanere.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Stimolati dalla benevolenza della Sede apostolica e dalla regola dell'antica consuetudine, abbiamo ritenuto di concedere alla fraternità tua, che ha assunto l'incarico,di governare la Chiesa di Ravenna, l'uso del pallio. Ti ricorderai di usarlo solamente nella chiesa della tua città, dopo aver congedato i chierici, procedendo dalla sacrestia al presbitero per celebrare la Messa; terminata la Messa, provvederai a deporlo in sacrestia. Fuori della chiesa, poi, ti permettiamo di usarlo non più di quattro volte l'anno, durante le litanie, come abbiamo notificato al tuo predecessore Giovanni che lo avremmo permesso; ammonendoti nondimeno che, come hai ricevuto da noi di usare un abbigliamento siffatto — accordandolo il Signore — per la dignità dell'ufficio sacerdotale, così anche tu cerchi di rendere bello — per la gloria di Cristo — l'impegno assunto, mediante l'integrità dei costumi e delle azioni. Così, infatti, ti segnalerai alternativamente per un duplice ornamento, se ad un abbigliamento di tal fatta del corpo saranno in armonia anche le tue buone doti di animo. Confermiamo anche, con la nostra autorità, e stabiliamo che rimangano intatti i privilegi che constano essere stati concessi alla tua Chiesa già da gran tempo.
Note595 d.C., agosto (15). Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il predecessore fu Giovanni II: 578-595 d.C. La lettera riguarda il corretto uso del pallio, un mantello sacerdotale, concesso nel 569 all’arcivescovo di Ravenna da papa Giovanni III (pontificato: 561-574 d.C.).
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Sicut iniusta poscentibus nullus est tribuendus effectus, ita legitima desiderantium non est differenda petitio. Presbyteri igitur ac diacones atque clerus fraternitatis vestrae oblata nobis petitione conquesti sunt Iohannem quondam decessorem tuum condito testamento diversa in ecclesiae suae gravamine conscripsisse et petiverunt ut haec in damno ecclesiae, prohibente quippe lege, nulla debeant occasione persolvi. Et quamvis, postquam hereditas ipsius successio que repudiata est, ad haec te satisfacienda ratio nulla constringat, verumtamen ex abundanti his te hortamur affatibus ut ea quae de ecclesiae suae vel de acquisitis in episcopatu rebus contra legum fieri statuta disposuit, fraternitas vestra nec praebeat nec aliqua in his ratione consentiat. Si quid autem de propriis rebus, quas ante episcopatum habuit, quod quidem prius ecclesiae suae non contulit, fieri voluit vel decrevit, firmum per omnia robur obtinere necesse est, nec quisquam ecclesiasticorum ea contra rationem qualibet temptet excusatione convellere.
Quia vero, dum viveret, saepius a nobis expetiit ut ea quae in monasterio illo contulerat, quod iuxta ecclesiam sancti Apollinaris ipse construxerat, nostra debuissemus auctoritate firmare, et hoc facturos nos esse promisimus, fraternitatem vestram necessarium praevidimus adhortandam ut nihil de his quae illic contulit atque constituit, aliquomodo patiatur imminui, sed omnia firma studeat stabilitate servari. Huius igitur monasterii et collatarum illic rerum quia in testamento quod condidit fecisse noscitur mentionem, sciendum vobis est non nos ea ideo confirmasse, quoniam supremam eius sequimur voluntatem, sed quia hoc ei, sicut diximus, viventi promisimus. Haec itaque omnia sic sollicite fraternitas vestra implere festinet, quatenus et quae in suprascripto monasterio constituit et a nobis sunt firmata serventur et illa quae in damno dari vel fieri per testamentum suae decrevit ecclesiae, nullam, prohibente nempe lege, obtineant firmitatem.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Come non bisogna dar retta a quelli che chiedono ciò che non è giusto, così non bisogna rinviare la richiesta di chi desidera ciò che è legittimo. I presbiteri, i diaconi e il clero della fraternità vostra, con una petizione a noi indirizzata, si sono lamentati che Giovanni — già tuo predecessore —, avendo fatto testamento, ha dato varie disposizioni a carico della sua Chiesa, e hanno chiesto che tali disposizioni, perché contrarie alla legge, non siano eseguite in alcuna occasione. Quantunque nessun motivo ti costringa, dopo che la sua eredità e la sua successione sono state annullate, a soddisfarle, tuttavia — per essere generosi — ti esortiamo con questa lettera a fare in modo che, per quanto riguarda le disposizioni — contro la legge — circa i beni della sua Chiesa e quelli acquisiti durante l'episcopato, la fraternità vostra non le permetta e non consenta ad esse per nessuna ragione. Se invece ha voluto e disposto che si faccia qualcosa dei beni propri, che ha posseduto prima dell'episcopato e che non aveva per certo già destinato alla sua Chiesa, per tutto questo è necessario possedere un fermo vigore, né alcuno degli ecclesiastici tenti con qualche scusa — contro ragione — di sovvertirlo.
Poiché poi, mentre viveva, molto spesso ci aveva chiesto con insistenza che dovessimo confermare con la nostra autorità i beni che aveva trasferito ,a quel monastero da lui stesso costruito presso la chiesa di Sant'Apollinare, e poiché noi avevamo promesso che lo avremmo fatto, abbiamo creduto necessario esortare la fraternità nostra perché niente di ciò che in quel posto egli aveva trasferito o costituito fosse in qualche modo soggetto a diminuzione, ma essa si adoperi a che tutto fosse conservato con ferma stabilità. Siccome, dunque, di questo monastero e dei beni ad esso conferiti si sa che ha fatto menzione nel testamento che ha redatto, dovete sapere che noi perciò li abbiamo confermati, non perché seguiamo le sue ultime volontà ma perché lo avevamo promesso — come abbiamo detto — a lui vivente. Tutto questo, pertanto, la fraternità vostra si affretti a compierlo sollecitamente, in maniera tale e che sia osservato quanto da lui è stato stabilito per il predetto monastero — che da noi è stato confermato — e che quelle disposizioni con le quali ha determinato per testamento che fosse dato o compiuto qualcosa a danno della sua Chiesa non siano tenute — proibendolo, cioè, la legge — in alcun valore.
Note595 d.C., settembre. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il predecessore fu Giovanni II: 578-595 d.C. Il monastero presso la basilica di S. Apollinare in Classe dev’essere quello di SS. Marco, Marcello e Felicula, titolari di una cappella esterna alla stessa basilica, che risulta fondato da Giovanni II, ma non più nominato dopo gli inizi del VII sec. e forse assorbito dal cenobio di S. Apollinare, attestato a partire dal 731 d.C.
Testo originaleGregorius clero et plebi ecclesiae Ravennatis.
Pervenit ad nos quosdam homines maligni spiritus instigatione pervasos erga opinionem fratris et coepiscopi nostri Mariniani mentes vestras corrumpere falsa locutione voluisse, dicentes quod isdem frater noster minus quam decet sanctam Chalcedonensem synodum veneretur. De qua re omnibus vobis et ipse praesens de integritate suae fidei satisfacit, et nos per omnia testamur eum a cunabulis in sanctae universalis ecclesiae gremio nutritum rectam praedicationem fidei cum vitae suae attestatione tenuisse. Veneratur enim sanctam Nicaenam synodum, in qua Arrius, Constantinopolitanam, in qua Macedonius, Ephesenam primam, in qua Nestorius, et sanctam Chalcedonensem synodum, in qua isdem Nestorius, Dioscorus atque Eutyches damnatus est. Si quis autem contra harum quattuor synodorum fidem et contra sanctae memoriae Leonis papae tomum atque definitionem aliquid umquam loqui praesumit, anathema sit. Proinde satisfactionem plenissimam recipientes caritate integra, puro corde pastorem vestrum diligite, ut apud Deum purius fusa eiusdem vobis prodesse valeat intercessio pastoris.
TraduzioneGregorio al clero e al popolo della chiesa di Ravenna.
Abbiamo saputo che alcuni uomini, istigati dallo spirito maligno contro la stima dovuta al fratello e coepiscopo nostro Mariniano, hanno voluto corrompere le vostre menti con una falsa diceria, dicendo che questo medesimo nostro fratello venera meno di quanto si debba il santo Concilio di Calcedonia. Su questa faccenda, a tutti voi — e anche lui stesso presente — ha dato ampia soddisfazione dell'integrità della sua fede, e noi attestiamo per ogni cosa che egli, nutrito nel grembo della santa Chiesa universale dalla culla, ha mantenuto la retta predicazione della fede attestata dalla sua vita. Venera, infatti, il santo Concilio di Nicea in cui fu condannato Ario; di Costantinopoli, in cui fu condannato Macedonio; il primo Concilio di Efeso, in cui fu condannato Nestorio; e il santo Concilio di Calcedonia, in cui furono condannati lo stesso Nestorio, Dioscoro ed Eutiche. Se poi uno osa dire qualcosa contro la fede di questi quattro Concili e contro il torno e la definizione del papa Leone di santa memoria, sia anatema. Perciò, avendo ottenuto pienissima soddisfazione, amate con carità piena e cuore puro il vostro Pastore, affinché abbiate a giovarvi della sua intercessione di Pastore esercitata davanti a Dio nella integrità della sua fede.
Note595 d.C., settembre. La lettera riguarda l’accusa rivolta a Mariniano dai ravennati e dall’esarca di essere contro i Tre Capitoli, ma Gregorio Magno, conscio che dietro l’accusa c’è la delusione per la scelta di Mariniano rispetto ai candidati locali, ribadisce l’ortodossia del suo ex collaboratore richiamando i testi fondamentali, cioè i quattro grandi concili e la lettera sinodale di Leone Magno (440-461 d.C.) a Flaviano di Costantinopoli (446-449 d.C.), detta “Tomus”. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Concilio di Nicea: 325 d.C. I Concilio di Costantinopoli: 381 d.C. Concilio di Efeso: 431 d.C. Concilio di Calcedonia: 451 d.C.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennati.
Scripta fraternitatis vestrae Vigilio diacono deferente suscepimus, in quibus indicastis quosdam de clero et populo clamitasse contra leges et canones esse ut inter ecclesiam vestram et Claudium abbatem causa hic examinari ac debeat iudicari. Qui si ecclesiasticum ordinem vel inter quos agitur nossent advertere, a superflua se querella modis omnibus abstinerent, praesertim quia nec causa illic dici potuit, ubi se praedictus abbas a decessore vestro questus est iniustitiam pertulisse et ex ea hactenus laborare. Hoc enim poterat fortassis opponi, si non ad maiorem recurreret et apud eum causae suae peteret meritum terminari. Numquid non ipse nosti quia causa, quae a Iohanne presbytero contra Iohannem Constantinopolitanum fratrem et coepiscopum nostrum orta est, secundum canones ad sedem apostolicam recurrit et nostra est sententia definita? Si ergo de illa civitate ubi princeps est ad nostram causa cognitionem deducta est, quanto magis negotium quod contra vos est hic est veritate cognita terminandum. Vos autem ibi stultorum verba non moveant, nec per vos credatis aliquod ecclesiae vestrae dispendium fieri. Nam si Secundum servum Dei diaconum vestrum atque Castorium notarium nostrum requiritis, ab eis agnoscitis qualiter causam istam iam decessor vester voluerit ordinare. Fraternitas autem vestra sapienter egit personas pro negotio ipso transmittere et verba inania non audire. Confidimus in omnipotenti Domino quia examinata subtilius veritate ita Deo placitus huic causae finis imponitur, ut nec aliqua denuo querella remaneat nec pars quaelibet contra iustitiam praegravetur.
Spatham vero, quam apud decessorem vestrum dilectus filius noster petrus Diaconus tunc illic defensor reliquerat, nobis per Secundum servum dei atque Castorium notarium praesentium portitores transmittite.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Abbiamo ricevuto la lettera della fraternità vostra che il diacono Vigilio ha portato. In essa ci avete detto che alcuni del clero e del popolo hanno protestato, dicendo che è contro le leggi e i canoni che la causa legale tra la vostra Chiesa e l'abate Claudio debba essere esaminata e definita qui [a Roma]. Questi, se sapessero porre attenzione all'ordinamento ecclesiastico o tra chi si controverte, si asterrebbero in tutti i modi da una lamentela inutile, soprattutto perché la causa legale non si è potuta celebrare da voi, dopo che il predetto abate si è lamentato di aver subìto ingiustizia dal vostro predecessore e di subirne ancora le conseguenze. Si poteva forse fare opposizione, se egli non fosse ricorso a un'autorità di grado superiore e non avesse chiesto a questa che entrasse nel merito della sua controversia. Forse che non hai saputo tu stesso che la controversia originata dal presbitero Giovanni [di Calcedonia] contro il fratello e coepiscopo nostro Giovanni di Costantinopoli è stata deferita; secondo i canoni, alla Sede apostolica ed è stata definita con una nostra sentenza? Se quindi, dalla città dove risiede l'imperatore, una causa legale è stata sottoposta al nostro giudizio, quanto più una faccenda contro di voi deve, conosciuta la verità, essere risolta qui. Non vi mettano poi in agitazione, lì, le parole degli stolti, né crediate che attraverso di voi derivi qualche pregiudizio per la vostra Chiesa. Infatti, se interrogate Secondo — monaco e vostro diacono — e Castorio — nostro notaio —, verrete a conoscere da essi come il vostro predecessore già abbia voluto regolare questa controversia. La fraternità vostra, poi, ha fatto bene a mandare qui delle persone per la stessa faccenda e a non ascoltare parole vane. Noi abbiamo fiducia nel Signore onnipotente, poiché, dopo aver ricercato con cura la verità, si trovi per questa controversia una soluzione gradita a Dio; in modo tale che, né rimanga ancora qualche lamentela, né qualunque parte sia vittima di ingiustizia.
La spada a due tagli, poi, che il diletto figlio nostro, il diacono Pietro — allora costì difensore —, aveva lasciato presso il vostro predecessore, mandatemela mediante Secondo, monaco, e Castorio, notaio, latori della presente.
Note596 d.C., gennaio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il predecessore fu Giovanni II: 578-595 d.C. Claudio, romano e collaboratore di papa Gregorio, era abate di SS. Giovanni e Stefano in Classe. Il notaio Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Il diacono Pietro era stato “apocrisarius”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna prima del 590 d.C.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Miramur cur sic in brevi fraternitatis tuae fuerit immutata discretio, ut ea quae postulat non advertat. Ex qua re dolemus, quia manifestum praebes indicium plus apud te verba male suadentium valuisse quam divinae lectionis studium profecisse. Cum que ergo monasteria te oporteat defensare et religiosos illic summopere congregare, ut lucrum de animarum congregatione possis efficere, in eorum te e diverso gravamine, sicut litterae tuae testantur, desideras exercere et, quod est deterius, nos tuae culpae studes fieri debere participes, scilicet dum cum nostro consensu monasterium, quod decessor tuus condidit, cupis sub curandarum rerum atque causarum nomine praegravare.
Debes enim recolere quia te praesente, diversis etiam presbyteris ac diaconibus clericis que tuis contra testamentum ipsius praesentibus, praeceptum, sicut postulavere, concessimus, ubi tamen eiusdem decessoris tui dispositio quam fecerat de monasterio ipsa firmata est. Et nunc ista dissimulans contraria nos poscis debere praecipere. Et haec quidem, scimus, non tua sunt. Sed dum incongrua dicentes audire non rennuis, non solum opinionem tuam sed gravas et animam. Quia ergo multum diligo, instanter admoneo, quod districte considera: non plus pecuniae, quam animabus studeas. Illud a latere respiciendum est, ad hoc autem tota mentis intentione laborandum ac vehementius innitendum. Huic rei operam et sollicitudinem vigilanter impende, quia redemptor noster a sacerdotis officio non quaerit aurum sed animas.
Praeterea pervenit ad nos quia monasteria quae sub fraternitate tua sunt constituta clericorum importunitatibus et diversis eorum molestiis praegraventur. Quod ne de cetero fiat, stricta hos interminatione compesce, qualiter monachis illic degentibus libere in Dei nostri liceat laudibus exsultare.
Romanum vero atque Dominicum clericos, qui de hac urbe temerario ausu sine nostra praesumpserunt benedictione decedere, licet maiori fuerant ultione plectendi, tamen relaxari eis benignitatis studio […] ad suum remeare officium videantur.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Ci meravigliamo che in così breve tempo la capacità di discernere della fraternità tua sia mutata al punto da non rendersi conto di ciò che chiede. Ne siamo addolorati, perché con questo offri un indizio manifesto che hanno avuto più peso su di te le parole dei cattivi consiglieri che non il progresso nell'esercizio della meditazione dei libri sacri. Mentre dunque devi difendere i monasteri, e soprattutto radunare in essi i religiosi perché tu possa trarre vantaggio dalla unione delle anime, tu desideri, al contrario — come la tua lettera dimostra —, agitarti nell'essere loro di peso e — ciò che è peggio — ti adoperi per dover rendere noi partecipi della tua colpa: mentre vuoi, cioè, con il nostro consenso — sotto il pretesto di curarne i beni e le cause — gravare oltre misura il monastero fondato dal tuo predecessore.
Devi ricordare, infatti, che alla tua presenza, essendoci anche diversi presbiteri, diaconi e chierici tuoi contrari al testamento del tuo predecessore, noi abbiamo dato disposizione secondo le loro richieste. Ma in quella circostanza fu confermata la volontà stessa che il tuo predecessore aveva espresso riguardo al monastero. E ora, passando sopra a tutto questo, ci chiedi di comandare il contrario. Questo, veramente, non è cosa tua, lo sappiamo. Ma se non rinunci ad ascoltare coloro che ti suggeriscono ciò che è sconveniente, non solo intacchi la tua buona reputazione ma anche la tua anima. Poiché io amo molto, esorto con insistenza; pondera rigorosamente questo: non badare al denaro più che alle anime. Quello bisogna guardarlo a distanza; per queste, invece, bisogna faticare con tutta la tensione dell'animo e bisogna impegnarvisi con tutte le forze. Su questo devi prodigare — con vigilanza — fatica e sollecitudine, poiché il nostro Redentore non cerca, dal ministero sacerdotale, oro ma anime.
Inoltre veniamo a sapere che i monasteri posti sotto la giurisdizione della tua fraternità sono sottoposti a importunità e a diverse molestie da parte dei chierici. Perché ciò non avvenga in avvenire, frenali con severe minacce, in modo che sia dato ai monaci che ivi vivono di esultare liberamente nelle lodi del loro Dio.
Quanto ai chierici Romano e Domenico, che osarono sconsideratamente allontanarsi da questa città [Ravenna] senza la nostra benedizione, per quanto bisognerebbe colpirli con più severa punizione, tuttavia questa colpa deve essere loro perdonata per benevolenza, perché tornino al loro ufficio.
Note596 d.C., marzo. La lettera riguarda l’ingerenza del clero regolare e della nobiltà, legati entrambi all’arcivescovado, nella vita e nei beni dei monasteri. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il citato monastero dev’essere quello presso la basilica di S. Apollinare in Classe di SS. Marco, Marcello e Felicula, titolari di una cappella esterna alla stessa basilica, che risulta fondato da Giovanni II, ma non più nominato dopo gli inizi del VII sec. e forse assorbito dal cenobio di S. Apollinare, attestato a partire dal 731 d.C.
Testo originaleGregorius Castorio notario nostro.
Vir magnificus domnus Andreas crebro mihi imminet de usu pallii secundum antiquam consuetudinem in Ravennati ecclesia restituendo. Et sciens quia Iohannes episcopus mihi scripserit quod in letaniis sollemnibus consuetudo fuit eiusdem ecclesiae episcopis uti pallio, huius ecclesiae diaconus Adeodatus, cum me pro eadem causa fortiter rogaret, iureiurando satisfecit quia quater in anno uti in letaniis pallio eiusdem loci episcopi solebant. Praedictus domnus Andreas in epistulis suis dicit quia praeter in Quadragesima omni tempore Ravennas episcopus in letaniis pallio utebatur et ipsas asserit letanias sollemnes quas non erubescit dicere cotidianas. Unde, omnino miratus sum. Sed tua experientia nullius personam, nullius verba consideret. Solum Dei timorem et rectitudinem ante oculos habe et seniores personas et eiusdem ecclesiae archidiaconem, quem non suspicor pro alterius honore periurare, et alios antiquiores, qui in sacris ordinibus ante Iohannis episcopi tempora fuerant, requirat, vel si qui maturiores sunt extra sacros ordines. Et veniant ante corpus sancti Apollinaris et tacto eius sepulcro iurent, quae consuetudo ante Iohannis episcopi tempora fuerit, quia, sicut scis, isdem vir multum praesumptor exstitit et multa sibi per superbiam conabatur arrogare. Et quicquid a fidelioribus viris et gravibus iuratum fuerit secundum indiculum qui subter adnexus est, hoc volumus in eadem ecclesia conservari. Sed vide ne negligenter agas, ne quis fidem tuam aut devotionem in hac causa corrumpat; zelum enim tuum scio. Age sollicite, ita tamen ut praedicta ecclesia contra iustitiam non gravetur, sed usus qui ante Iohannis episcopi tempora exstitit ei conservetur. Personas autem non duas vel tres ad satisfaciendum tibi sed quantas antiquiores et graviores inveneris require, ut neque quod usus fuit antiquior eidem ecclesiae denegemus neque quod novo ausu appetitum est concedamus. Sed omnia age blande et dulciter, ut et actio tua districta sit et lingua mitis.
Spatham quae illic dimissa est, sicut iam pridem scripsimus, te cum revoca et hoc quod tibi filius noster diaconus Bonifatius et vir magnificus Maurentius chartularius scripsit sollicite attende.
Iuramentum. Iuro ego per Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, inseparabilis divinae potentiae trinitatem, et hoc corpus beati Apollinaris martyris me pro nullius favore personae neque commodo aliquo interveniente testari. Sed hoc scio et per memetipsum cognovi quia ante tempora Iohannis quondam episcopi Ravennas episcopus praesente apocrisiario sedis apostolicae illo atque illo et illis diebus consuetudinem utendi pallio habuit; et non cognovi quia hoc latenter vel absente apocrisiario usurpasset.
TraduzioneGregorio a Castorio notaio nostro.
Il signor Andrea, uomo magnifico, insiste spesso con me che si ricostituisca nella Chiesa di Ravenna, secondo l'antica consuetudine, l'uso del pallio. E sapendo che il vescovo Giovanni mi aveva scritto che fu in uso, per i vescovi di quella Chiesa, di valersi del pallio nelle litanie solenni, Adeodato, diacono della medesima Chiesa, sollecitandomi molto per il medesimo motivo, mi ha dato assicurazione, con giuramento, che i vescovi di quella Sede solevano usare il pallio quattro volte l'anno: durante le litanie. Il predetto signor Andrea dice nelle sue lettere che, all'infuori della Quaresima, il vescovo di Ravenna usava sempre il pallio durante le litanie, e asserisce — senza vergognarsi — che queste litanie solenni si celebravano ogni giorno. Di qui, la mia totale meraviglia. Ma la tua esperienza non dia peso a nessuna persona o voce. Abbia davanti agli occhi solo il timore di Dio e la rettitudine, e chieda notizie alle persone anziane, all'arcidiacono della stessa Chiesa — che non penso spergiuri per l'onore di un altro — e agli altri di età più avanzata che avevano ricevuto gli Ordini sacri nei tempi prima del vescovo Giovanni, o — se ce ne sono — agli anziani al di fuori dell'Ordine sacro. E così, vengano davanti al corpo di sant'Apollinare e giurino, con la mano sul sepolcro, di dire quale ne sia stato l'uso ai tempi prima del vescovo Giovanni; perché quest'uomo — come tu sai — è stato un grande usurpatore e cercava, per superbia, di arrogarsi molte cose. E ciò che sarà stato giurato dagli uomini più veritieri e autorevoli, secondo la formula che è annessa sotto, vogliamo che sia osservato nella medesima Chiesa. Bada di non agire con negligenza, e che nessuno corrompa in questa faccenda la tua fedeltà o la tua devozione: conosco, infatti, il tuo zelo. Agisci con sollecitudine, in modo tale — tuttavia — che la suddetta Chiesa non sia gravata contro giustizia, ma si conservi l'uso che c'è stato ai tempi prima del vescovo Giovanni. Non ti accontentare, poi, di due o tre persone, ma cercane quante ne avrai potute trovare tra le più anziane e autorevoli; perché, né proibiamo a quella Chiesa ciò che è stato l'uso più antico, né concediamo ciò che è stato richiesto con una audacia nuova. Compi tutto, però, con bontà e dolcezza, in modo che il tuo intervento sia severo e la tua lingua sia mite.
La spada a due tagli che è ivi rimasta, prendila e tienila — come già abbiamo scritto — presso di te, e considera con sollecitudine ciò che ti hanno scritto il figlio nostro, il diacono Bonifacio, e il cartulario Maurenzio, uomo magnifico.
Giuramento. Io, per il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, per la Trinità della divina inseparabile potenza, e per questo corpo di sant'Apollinare martire, giuro di non testimoniare a favore di nessuna persona né per qualsiasi gratificazione si presenti. Ma questo so e ho constatato di persona, che — ai tempi prima di Giovanni, defunto vescovo — il vescovo di Ravenna ebbe l'abitudine di usare il pallio in quello e in quell'altro modo e in quei dati giorni, alla presenza dell'apocrisario della Sede apostolica; e non ho riconosciuto che lo abbia usato indebitamente, di nascosto, o assente l'apocrisario.
Note596 d.C., aprile. La lettera riguarda il corretto uso del pallio, un mantello sacerdotale, concesso nel 569 all’arcivescovo di Ravenna da papa Giovanni III (pontificato: 561-574 d.C.). Il notaio Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Andrea è “scolasticus”, esperto/consulente di diritto, dell’esarco. Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. L’arcidiacono di Ravenna menzionato era Donato, già candidato alla cattedra arcivescovile.
Testo originaleGregorius Secundo servo Dei non a paribus Ravennae.
Postquam revertens Castorius omnia nobis quae inter vos et Agilulfum regem acta sunt indicavit, ne excusationem contra nos de mora potuisset aliquis invenire, sub omni eum celeritate illic retransmittendum praevidimus. Ab eo ergo ea quae sunt agenda cognoscens esto sollicitus et omnimodo immine ut pax ista debeat ordinari, quia, quantum dicitur, aliqui in hoc impedire conantur. Pro qua re festina strenue agere, ut labor vester sine effectu non valeat remanere. Nam iam et partes istae et diversae insulae in gravi sunt periculo positae.
Fratrem nostrum Marinianum episcopum verbis quibus vales excita, quia obdormisse eum suspicor. Nam venerunt quidam ad me, in quibus quidam senes mendicantes, qui a me discussi sunt, a quibus quid acceperint, et per singula retulerunt quanta eis et a quibus in itinere data sint. Quos dum sollicite de praedicto fratre requirerem quid eis dedisset, responderunt se eum rogasse, sed ab eo se omnino nihil accepisse, ita ut neque panem in via acceperint, quod dare omnibus illi ecclesiae semper familiare fuit. Dixerunt enim: respondit nobis dicens: “non habeo quod vobis dare”.
Et miror si is qui vestes habet, argentum habet, cellaria habet, quod pauperibus debeat dare non habet. Dic ergo ut cum loco mutet mentem. Non sibi credat solam lectionem et orationem sufficere, ut remotus studeat sedere et de manu minime fructificare. Sed largam manum habeat, necessitatem patientibus concurrat, alienam inopiam suam credat, quia, si haec non habet, vacuum episcopi nomen tenet. Quaedam vero eum per epistulam meam de anima sua admonui, sed nil mihi omnino respondit; unde credo quia ea neque legere dignatus est. Pro qua re iam necessarium non fuit ut eum per epistulam meam admonere aliquid debuissem, sed tantum illa scripsi quae in causis terrenis consiliarius dictare potuit. Nam ego ad hominem non legentem fatigari in dictatu non debui. Tua ergo dilectio secreto ei omnia loquatur et admoneat qualiter se disponere debeat, ne per praesentem neglegentiam vitam, quod absit, priorem perdat.
TraduzioneGregorio a Secondo, monaco di Ravenna: non copia uniforme.
Dopo che Castorio, ritornando, ci ha riferito tutto ciò che è avvenuto tra voi e il re Agilulfo, affinché nessuno avesse potuto trovare dinanzi a noi la scusa del ritardo, abbiamo provveduto a rimandarlo [Castorio] costì con ogni premura. Venendo quindi a conoscere da lui ciò che bisogna compiere, sii sollecito e datti da fare in tutti i modi perché questa pace venga stipulata, dal momento che — a quanto si dice — alcuni tentano di ostacolarla. Per questa impresa, affrettati ad agire con ogni impegno, perché la vostra fatica valga a non restare senza risultato. Infatti, anche le nostre regioni e diverse isole sono già in grave pericolo.
Cerca di risvegliare con parole di cui tu sei capace il nostro fratello, il vescovo Mariniano, perché ho l'impressione che si sia addormentato. Infatti sono venuti alcuni da me, e tra essi c'erano dei vecchi che cercavano l'elemosina, i quali sono stati da me interrogati su che cosa avessero ricevuto e da chi, e mi hanno riferito minutamente ciò che era stato loro dato durante il viaggio e da quali persone. Avendoli poi interrogati con inquietudine su ciò che avessero ricevuto dal suddetto nostro fratello, mi risposero che si erano rivolti a lui ma che non avevano ottenuto assolutamente niente, neppure il pane per il viaggio: ciò che, a quella Chiesa, è sempre stato abituale dare a tutti. Mi hanno riferito, infatti, che quegli rispose dicendo: “Non ho nulla da darvi”. E così mi meraviglio che colui il quale ha vesti, denaro, provviste, non ha ciò che debba dare ai poveri.
Digli quindi che, con il grado, cambi il cuore. Non creda che gli basti solo la lettura e la preghiera, per starsene seduto in disparte e non fruttificare minimamente di opere. Sia di mano larga, soccorra quelli che si trovano nel bisogno, reputi propria la povertà degli altri, perché, se non ha queste doti, porta invano il nome di vescovo. Veramente, tramite una mia lettera, gli ho ricordato qualcosa circa la sua anima, ma non mi ha risposto assolutamente nulla; perciò penso che non si è degnato neppure di leggere quelle cose. Per questo, non è stato più necessario ormai che lo avessi dovuto ammonire su qualche cosa con una mia lettera, ma gli ho scritto solo ciò che, circa gli affari terreni, il [mio] consigliere ha potuto comporre. Io, infatti, non ho dovuto affaticarmi nella dettatura per un uomo che non legge. La tua amabilità, quindi, gli dica tutto in segreto e lo ammonisca su come debba comportarsi, affinché non guasti, per la presente negligenza — il che sia lungi —, la vita di prima.
Note596 d.C., aprile. La lettera riguarda l’opera di Gregorio Magno per raggiungere un accordo coi Longobardi di re Agilulfo (regno: 591-616 d.C.), che stavano minacciando di occupare e saccheggiare diverse zone, tra cui Roma e la Sardegna: per le differenze di vedute con l’esarco Romano il papa si rivolge al diacono (non monaco) Secondo, evidentemente un influente membro della chiesa di Ravenna. Castorio, notaio, è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius episcopus cum ceteris fratribus et coepiscopis meis qui me cum praesentibus inveniri potuerunt sacerdotibus, levitis, ducibus, nobilibus, clericis, monachis, militibus militantibus et populo in ravenna civitate consistentibus vel ex ea foris degentibus.
Quidam maligni spiritus consilio repletus contra Castorium notarium ac responsalem nostrum nocturno silentio in civitatis loco contestationem posuit in eius crimine loquentem mihi que etiam de facienda pace callide contradicentem. Et quia, quisquis veraciter loquitur, semetipsum innotescere non debet formidare, oportet ut publice exeat et, quaeque in contestatione sua loqui praesumpsit, ostendat. Qui si non exierit neque publice confessus fuerit quis ille sit qui hoc agere praesumpsit vel consensum in tantae iniquitatis consilio praebuit, in Dei et domini nostri Iesu Christi spiritu definimus ut sancti eius corporis ac sanguinis participatione privatus sit. Sin vero, quia latet et quoniam nescitur, teneri ad disciplinam non valet tanti mali conscius et iam prohibitus corpus ac sanguinem Domini percipere praesumit, anathematis ultione percussus sit, ut fallax ac pestifer a sanctae ecclesiae corpore sit divisus. Si quis autem fortasse talis est quem nos huius facti auctorem aut participem esse nescientes, ad eum bona optantes epistulas transmittamus, ipsa pro eo apud omnipotentem Dominum deprecatio nostra sit vacua. Sin autem in eadem civitate egressus ad publicum potuerit docere quae dixit vel certe sciens se non posse quae scripsit ostendere errorem suum fuerit aperte confessus, dominici corporis ac sanguinis participatione non sit privatus neque sanctae ecclesiae corpore alienus exsistat, quia nos apud omnipotentem Dominum ex nostris cotidie culpis agnoscimus, ut, quamvis servato disciplinae moderamine, aliorum tamen erratis parcamus.
TraduzioneGregorio vescovo, con tutti i fratelli e coepiscopi miei che hanno potuto trovarsi con me, ai sacerdoti, ai leviti, ai duchi, ai nobili, ai chierici, ai monaci, ai soldati in servizio e al popolo, che vivono nella città di Ravenna o che abitano fuori di essa.
Un individuo, spinto dall'istigazione dello spirito maligno, ha esposto nel silenzio della notte — in un punto della città — un'accusa contro Castorio, nostro notaio e apocrisario: un'accusa che parla di un suo reato; e contesta astutamente anche me per la pace che si sta stipulando. E poiché chiunque parla veracemente non deve temere di farsi conoscere, bisogna che costui esca in pubblico e dica apertamente ciò che ha osato esporre nella sua accusa. Che se poi non sarà uscito fuori e non avrà dichiarato pubblicamente chi sia colui che ha osato fare ciò o che ha prestato il suo consenso a questa idea tanto iniqua, definiamo nello Spirito di Dio e del Signore nostro Gesù Cristo che sia privato della partecipazione al santo suo corpo e sangue. Se poi, però, poiché rimane nascosto e anonimo, conscio di un così grande peccato non fa in modo di attenersi alla disciplina e — pur essendone escluso — ha il coraggio di ricevere il corpo e il sangue del Signore, sia colpito da solenne scomunica, perché sia separato — come falso e pestifero — dal Corpo della santa Chiesa. Se poi si tratta forse di un uomo al quale, non sapendolo noi autore o partecipe di questo fatto, indirizziamo lettere beneauguranti, la nostra stessa preghiera per lui presso Dio onnipotente sia vana. Se poi, asceso a un luogo pubblico nella medesima città costui avrà potuto far sapere quello che ha detto, oppure, sapendo sicuramente di non poter dimostrare ciò che ha scritto avrà confessato apertamente il suo errore, non sia privato della partecipazione al corpo e al sangue del Signore, né sia separato dal Corpo della Chiesa; poiché, davanti a Dio onnipotente, noi ogni giorno ci confessiamo delle nostre colpe, per perdonare — fatta salva la regola della disciplina —, tuttavia, le mancanze degli altri.
Note596 d.C., aprile. L’intitolazione della lettera fa presumere che sia stata letta pubblicamente in luoghi ufficiali: l’oggetto della scomunica papale è il tentativo di screditare con false accuse Castorio e far fallire le trattative di pace che questo portava avanti coi Longobardi per conto del papa. Il notaio Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Cypriano diacono.
Novit dilectio tua hanc olim consuetudinem tenuisse, ut fratres et coepiscopi nostri Romam semel in triennio de Sicilia convenirent sed nos eorum labori consulentes constituisse ut suam hic semel in quinquennio praesentiam exhiberent. Et quia iam diu est, quod hic minime convenerunt, eos hortari te volumus, ut natale sancti Petri hic Deo perducente nobis cum debeant celebrare. Sed ne forte praetori aliqua possit nasci suspicio, si eos hic admonitos venire cognoverit, voluntatem nostram intellegens ita hoc ex te facere stude, ut et ipsi, sicut praediximus, ad diem constitutum hic veniant et nulla de eis praetori possit esse suspicio. Liparitanum vero et Regitanum episcopos ut hic veniant pariter commonebis.
Circa Libertinum vero magnificum esto sollicitus, ut nullus illum dolus decipiat, quia aliqua nobis de ravennati urbe scripta sunt. Ipsam que ad te epistulam misimus, ut ex ea qualiter te erga eum debeas exhibere possis addiscere. Consolare autem eum, ut se non affligat, quia credimus quod nos excellentissimus filius noster exarchus non contristet. Nam de persona ipsius scribere non distulimus. Sed quia in Pado isdem exarchus occupatus est, minime autem scripta eius suscepimus.
TraduzioneGregorio al diacono Cipriano.
La carità tua ha saputo che una volta vigeva questa consuetudine: che i fratelli e coepiscopi nostri venissero dalla Sicilia a Roma una volta ogni tre anni, ma che noi, per riguardo al loro disagio, abbiamo stabilito che presenziassero qui una volta ogni cinque anni. E poiché è già molto tempo che non sono venuti assolutamente qui, vogliamo che tu li esorti a celebrare con me — con l'aiuto di Dio — nel giorno natalizio di san Pietro. Ma perché non nasca, forse, alcun sospetto nel pretore, se sia venuto a sapere che essi sono stati convocati qui, cerca — conoscendo la nostra volontà — di fare, da parte tua, in modo che essi — come abbiamo detto prima — si trovino qui nel giorno stabilito, e non possa esserci alcun sospetto a loro riguardo da parte del pretore. Avviserai parimenti i vescovi di Lipari e di Reggio perché vengano qui.
Sii sollecito, poi, riguardo a Libertino, uomo magnifico, perché nessuna insidia lo tragga in inganno, poiché mi sono state riferite alcune cose da Ravenna. Noi ti abbiamo mandato proprio tale lettera perché tu da essa possa renderti conto come devi comportarti con lui. Consolalo, perché non si affligga, poiché abbiamo fiducia che l'eccellentissimo figlio nostro, l'esarca [Callinico], non ci contristerà. Non abbiamo infatti tardato a scrivere sulla sua persona. Ma siccome l'esarca è occupato sul Po, non abbiamo per niente ricevuto risposta.
Note597 d.C., maggio. Il diacono Cipriano è il rettore del patrimonio della Sicilia. Il giorno natalizio di S. Pietro è la festa del martirio, il 29 giugno. Libertino è il pretore della Sicilia, ovvero il responsabile civile. Gregorio Magno cita le operazioni che il nuovo esarco Callinico (governo: 596/597-602/603 d.C.) stava svolgendo sul Po contro il re longobardo Agilulfo.
Testo originaleGregorius Eulogio episcopo Alexandrino et Anastasio episcopo Antiocheno a pari.
Caritas, qua vobis valde constrictus sum, tacere me minime permittit, ut sanctitas vestra quaecumque apud nos aguntur agnoscat et falsis rumoribus non decepta suae iustitiae atque rectitudinis viam, sicut perfecte coepit, perfectius teneat. Responsales siquidem fratris et consacerdotis nostri Cyriaci venientes eius ad me synodicam epistulam detulerunt. Et quidem inter nos et ipsum, sicut vestra beatitudo novit, propter appellationem profani nominis est gravis discordia. Sed in causa fidei transmissos responsales eius existimavi esse suscipiendos, ne culpa elationis, quae in Constantinopolitana ecclesia paene contra omnes sacerdotes exorta est, dissensionem fidei et rixam ecclesiasticae faceret unitati. Eosdem vero responsales me cum quia hoc omnino humiliter precabantur, missarum sollemnia celebrare feci, quia, sicut et serenissimo domno imperatori intimare studui, responsales fratris et consacerdotis nostri Cyriaci mihi communicare debuerunt, quia auctore Deo in elationis errorem non cecidi. Meus vero diaconus cum praedicto fratre nostro Cyriaco missarum sollemnia celebrare non debet, quia per profanum vocabulum culpam superbiae aut commisit aut sequitur, ne, si, quod absit, ei in tali elatione posito procedit, vanitatem stulti nominis confirmare videamur. Eundem vero fratrem admonere studui ut se a tali superstitione corrigat, quia, si hanc non correxerit, pacem nobis cum nullomodo habebit.
Praeterea isdem frater noster omnia in suis synodicis catholice Deo auctore locutus est. Quendam vero Eudoxium damnavit, quem neque in synodis damnatum invenimus neque a decessoribus eius in suis synodicis reprobatum. Et canones quidem Constantinopolitani concilii Eudoxianos damnant, sed quis fuerit eorum auctor Eudoxius nequaquam dicunt. Romana autem ecclesia eosdem canones vel gesta synodi illius hactenus non habet nec accepit, in hoc autem eandem synodum suscepit, quod est per eam contra Macedonium definitum. Reliquas vero haereses quae illic memoratae sunt ab aliis iam patribus damnatas reprobat; de Eudoxianis vero nihil hactenus agnovit. In historia autem Sozomeni de quodam Eudoxio, qui Constantinopolitanae ecclesiae episcopatum arripuisse dicitur, aliqua narrantur. Sed ipsam quoque historiam sedes apostolica suscipere recusat, quoniam multa mentitur et Theodorum Momsuestiae nimium laudat atque usque ad diem obitus sui magnum doctorem ecclesiae fuisse perhibet. Restat ergo ut, si quis illam historiam recipit, et synodo quae piae memoriae Iustiniani temporibus de tribus capitulis facta est, contradicat. Qui vero huic contradicere non valet, illam historiam necesse est ut repellat. In latina ergo lingua de hoc Eudoxio nunc usque neque in Philastro neque in beato Augustino, qui multa de haeresibus conscripserunt, neque in aliis patribus aliquid invenimus. Caritas igitur vestra, si quis apud Graecos probatorum patrum de eo sermonem fecit, suis mihi epistulis innotescat.
Praeterea ante triennium cogente causa monachorum Isauriae, qui haeretici accusabantur, satisfaciens mihi quondam frater et consacerdos meus domnus Iohannes litteras misit, quibus nitebatur ostendere eos Ephesinae synodi definitionibus contradixerunt, velut ex eadem synodo certa nobis, quibus ipsi obsisterent, capitula destinavit. Inter alia autem scriptum illic continebatur de Adae anima, quia in peccato mortua non fuerit et quod diabolus in cor hominis non ingrediatur et, si quis haec dixisset, anathema esset. Quae cum mihi relecta fuissent, valde contristatus sum. Si enim Adae, qui primus peccavit, anima mortua in peccato non est, quomodo de ligno vetito ei dictum est: “in quacumque die comederitis ex eo, morte moriemini?” (Genesi 2.17). Et certe comedit Adam et Eva de ligno vetito et tamen in carne sua ultra DCCCC annos postmodum vixerunt. Constat itaque quia carne non est mortuus. Si ergo anima mortuus non est, quod dici nefas est, falsam sententiam de illo protulit Deus, qui dixit quia qua die comederet moreretur. Sed absit hic error, absit a vera fide. Nos enim primum hominem, qua die peccavit, anima mortuum, dicimus atque per hunc omne genus humanum in hac mortis et corruptionis poena damnatum. Per secundum vero hominem et modo a morte animae et postmodum ab omni corruptione carnis in aeterna resurrectione liberari nos posse confidimus. Sicut autem et praedictis responsalibus diximus, Adae animam mortuam in peccato dicimus non a substantia vivendi sed a qualitate vivendi. Quia enim aliud est substantia atque aliud qualitas, non est eius anima ita mortua, ut non esset, sed ita mortua, ut beata non esset. Qui tamen Adam postmodum per paenitentiam ad vitam rediit.
Quod vero Diabolus cor hominis ingrediatur, si evangelio creditur, non negatur. Ibi enim scriptum est: “Et post buccellam introivit in eum Satanas” (Giovanni 13.27). Et ibi rursum dicitur: “Cum Diabolus iam se misisset in corde, ut traderet eum Iudas” (Giovanni 13.2). Hoc autem qui negat, in Pelagianam haeresem cadit. Quia ergo perscrutantes Ephesinam synodum nihil in ea tale contineri invenimus, de Ravennati quoque ecclesia vetustum valde codicem eiusdem synodi ad nos deferri fecimus et synodo quam habemus eum ita concordare invenimus, ut in nullo discreparet, et nihil aliud continet in definitione anathematis et reprobationis, nisi quod xii capitula beatae memoriae Cyrilli reprobant. Hanc autem totam rationem multo latius subtilius que praedictis responsalibus eius in praesenti positis reddidimus atque ei plenissime satisfecimus. Igitur ne vel haec vel aliqua similia illic subrepant, quae sanctam ecclesiam scandalizent, necesse nobis fuit haec ipsa sanctitati vestrae indicare. Et quamvis fratrem et coepiscopum nostrum Cyriacum noverimus orthodoxum, tamen propter alios cauti esse debemus, ut, antequam ad publicum prodeant, errorum semina conculcentur.
Scripta vestrae sanctitatis communi filio Sabiniano diacono veniente suscepi. Sed quia harum lator iam ad egrediendum paratus retineri non potuit, ad haec responsali meo diacone veniente respondeo.
TraduzioneGregorio a Eulogio vescovo di Alessandria e ad Anastasio vescovo di Antiochia: copie uniformi.
La carità con la quale sono molto unito a voi non mi permette assolutamente di tacere, perché la vostra santità sappia tutto ciò che si compie da noi e, non ingannata da false dicerie, tenga, come con perfezione ha cominciato, più perfettamente la strada della propria giustizia e della rettitudine. I nunzi del fratello e coepiscopo nostro Ciriaco [patriarca di Costantinopoli], venendo a Roma, mi hanno portato la sua lettera sinodica. E veramente, tra noi e lui — come, la vostra beatitudine sa — vi è una grave discordia a motivo di un appellativo sacrilego. Ma ho pensato di dover ricevere i suoi apocrisari inviati per motivi di fede, perché un peccato di superbia, che è sorto nella Chiesa di Costantinopoli quasi contro tutti i vescovi, non creasse una discordia di fede e una opposizione all'unità della Chiesa. Così li ho fatti celebrare la Messa con me, dal momento che con grande umiltà me lo chiedevano; e ciò perché, come mi sono premurato di rendere noto al serenissimo signor imperatore [Maurizio], i nunzi del fratello e coepiscopo nostro Ciriaco hanno potuto partecipare con me, non essendo io caduto — per grazia di Dio — nell'errore di orgoglio. Il mio diacono, però, non deve celebrare la Messa col suddetto nostro fratello Ciriaco, perché egli o ha commesso o segue il peccato di superbia per via di un empio appellativo, poiché, se — il che sia lungi — il mio diacono si mostra con lui che si trova in tale orgoglio, non appaia che noi confermiamo la vanità di un appellativo insensato. Ho cercato poi di esortare il medesimo fratello a correggersi da questa superstizione, poiché, se non se ne fosse emendato, non avrebbe avuto in nessun modo pace con noi.
Inoltre il medesimo nostro fratello, nella sua lettera sinodica, si è espresso — per grazia di Dio — secondo il dogma cattolico. Ma ha condannato un certo Eudossio che, né troviamo condannato nei Concili né è stato riprovato dai suoi predecessori nelle loro lettere sinodiche. I canoni del Concilio di Costantinopoli condannano, veramente, gli Eudossiani, ma non dicono chi fosse stato il loro maestro Eudossio. La Chiesa di Roma, poi, non possiede a tutt'oggi quei canoni e gli atti di quel Concilio, né li ha accolti; accetta di quel sinodo quello che mediante esso è definito contro Macedonio. Le altre eresie, poi, ivi elencate le riprova in quanto condannate già dagli altri Padri; degli Eudossiani, finora, non ne ho saputo niente. Nella storia di Sozomeno, poi, si narrano alcune cose di un certo Eudossio, che si dice abbia usurpato l'episcopato della Chiesa costantinopolitana. Ma la Sede apostolica si rifiuta di accettare anche questa narrazione, in quanto dice molte falsità e loda troppo Teodoro di Mopsuestia, e lo presenta come fosse stato un grande dottore della Chiesa fino al giorno della sua morte. Resta, quindi, che, se uno accetta quella narrazione, si mette contro il Concilio [di Costantinopoli II] sui Tre Capitoli celebrato ai tempi di Giustiniano, di santa memoria. Chi veramente non è in grado di opporsi a questo, bisogna che respinga quella versione storica. Di questo Eudossio, finora, non abbiamo trovato nulla in opere in lingua latina: .né in Filastrio, né in sant'Agostino — che scrissero molto sulle eresie —, né negli altri Padri. La carità vostra, quindi, mi faccia sapere se qualcuno dei Padri greci approvati nomini questo Eudossio.
Inoltre, più di tre anni fa, mentre era pressante la questione dei monaci dell'Isauria che erano accusati di eresia, per dare soddisfazione a me, il defunto fratello e coepiscopo mio, Giovanni [di Costantinopoli], mi inviò una lettera con la quale cercava di dimostrare che quei monaci andarono contro le definizioni del Concilio di Efeso, e mi inviò alcuni articoli, come appartenenti a quel Concilio, ai quali essi stessi si opponevano. Tra l'altro, in quella lettera, era scritto qualcosa circa l'anima di Adamo, che non sarebbe morta nel peccato, che il Demonio non entra nel cuore dell'uomo, e che se qualcuno avesse affermato ciò fosse scomunicato. Avendo poi riletto queste cose, sono rimasto molto contristato. Se infatti l'anima di Adamo, il quale peccò per primo, non morì in peccato, come può essere detto a lui, con riferimento all'albero proibito: “In qualunque giorno avrete mangiato di esso, morirete?”. Certo Adamo ed Eva mangiarono del frutto proibito, e tuttavia vissero nel loro corpo, dopo questo fatto, ancora oltre novecento anni. Consta perciò che egli non morì riguardo al corpo. Se non è morto nell'anima — il che fa orrore a dirsi —, Dio, il quale sentenziò che sarebbe morto il giorno in cui ne avesse mangiato, avrebbe pronunziato a suo riguardo una frase falsa. Ma sia lungi questo errore, sia lungi dalla vera fede.
Noi diciamo infatti che il primo uomo, nel giorno in cui peccò, mori nell'anima, e che — per mezzo suo — tutto il genere umano è condannato a questa pena di morte e di corruzione. Per opera del secondo uomo, poi — il Cristo —, confidiamo di poter essere liberati subito dalla morte dell'anima, e dopo da ogni corruzione della carne nella risurrezione eterna. Come dunque abbiamo detto anche a quei nunzi di Ciriaco, affermiamo che l'anima di Adamo morì nel peccato: non nella sostanza della vita ma nella qualità della vita. Poiché altro è la sostanza altro la qualità, l'anima di lui non mori in modo da non esistere più, ma mori in modo da non essere beata. Adamo, tuttavia, dopo — per la penitenza — tornò alla vita.
Che poi il Diavolo entri nel cuore dell'uomo non lo si può negare, se si crede al Vangelo. Lì infatti sta scritto: “Dopo il boccone entrò in lui Satana”. E lì di nuovo è detto: “Quando già il Demonio si era insediato nel cuore perché Giuda lo tradisse”. Chi nega questo cade nell'eresia pelagiana. Poiché esaminando attentamente gli atti del Concilio di Efeso non abbiamo trovato niente di tal genere, ci siamo fatti portare da Ravenna anche un codice molto antico del medesimo Concilio, e lo abbiamo trovato così rispondente alla copia da noi posseduta da non discordare in nulla. Esso non contiene altro, nella definizione dell'anatema e della condanna, se non ciò che è riprovato dai Dodici Capitoli di Cirillo [di Alessandria], di santa memoria. Abbiamo reso ragione di tutto ciò in modo molto più esteso e più approfondito alla presenza dei suoi messi, e abbiamo dato loro, così, pienissima soddisfazione. È stato quindi necessario metterne la santità vostra al corrente, perché non spuntassero fuori questi pretesti o altri simili che creassero scandalo nella santa Chiesa. E per quanto sappiamo che il nostro fratello e coepiscopo Ciriaco sia ortodosso, tuttavia dobbiamo essere attenti per gli altri, a calpestare i semi dell'errore prima che questi si manifestino in pubblico.
Ho ricevuto gli scritti della santità vostra per mezzo del comune figlio, il diacono Sabiniano. Ma poiché il latore di essi non era più disposto a ripartire, rispondo ad essi con la venuta del mio diacono apocrisario.
Note597 d.C., giugno. Regno di Maurizio: 582-602 d.C. L’”appellativo sacrilego” del patriarca di Costantinopoli Ciriaco (596-606 d.C.) è l’”universale” che fu di fatto una sfida al Papato, e fu giù usato dal predecessore Giovanni “il Digiunatore” (Nesteutes, 582-595 d.C.). Concilio di Efeso: 431 d.C. II Concilio di Costantinopoli: 553 d.C.; non fu accolto a Roma per l’alta posizione data al patriarcato di Costantinopoli nella Chiesa. La Storia Ecclesiastica di Sozomeno fu scritta in greco nel 444 d.C.: fu tradotta in latino nella composizione dell’”Historia Tripartita” prodotta nella Vivarium di Cassiodoro, ma forse Gregorio Magno ha letto l’opera in greco. Il “Diversarum hereseon liber” del vescovo di Brescia Filastrio fu composto tra 370/385 d.C. Cirillo è il patriarca di Alessandria (412-444 d.C.). Il diacono Sabiniano era “apocrisarius”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Costantinopoli.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennati.
Fraternitatis vestrae epistula nuntiante, comperimus Corneliensis ecclesiae filios assidua supplicatione in loco lapsi quondam episcopi sui consecrandum sibi a vobis poscere sacerdotem atque vos, quid de ea re fieri debeat, dubitare et nostrum evidens exspectare mandatum. Postquam ergo quemquam criminaliter excedentem in locum, de quo lapsus est, nulla permittit ratio revocari et ultra tres menses ecclesiam vacare pontifice statuta sacrorum canonum non permittunt, ne cadente pastore dominicum gregem antiquus, quod absit, hostis insidiando dilaniet, fraternitas vestra deprecationi eorum consentire et in loco lapsi debet episcopum ordinare. Nam dum non petentes eos etiam ante vestris ad hoc debueratis adhortationibus admonere, postulantes nulla vos oportet excusatione differre, quia ecclesia Dei diu viduata a proprio episcopo non debet remanere.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Dall'epistola della fraternità vostra abbiamo saputo che i figli della Chiesa di Forum Cornelii [Imola] vi supplicano continuamente di consacrare loro un vescovo al posto di quello “lapso” che avevano una volta, mentre voi siete in dubbio sul da farsi e aspettate una nostra chiara disposizione. Poiché per nessun motivo è permesso a uno che ha commesso dei crimini di ritornare al posto dal quale è decaduto, e poiché le disposizioni dei sacri canoni non consentono che una Chiesa rimanga priva del suo vescovo oltre i tre mesi; affinché, venendo meno il pastore, l'Antico Nemico — il che sia lungi — non riduca a brandelli con insidie il gregge del Signore, la fraternità vostra deve acconsentire alle loro preghiere e deve consacrare un vescovo al posto di quello “lapso”. Infatti, mentre se non ve lo avessero chiesto avreste dovuto incitarli anche prima a ciò con le vostre esortazioni, non bisogna per nessun pretesto differire di fare quanto chiedono, dal momento che la Chiesa di Dio non deve rimanere a lungo priva del vescovo proprio.
Note597 d.C., agosto. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Dudum ad nos multorum relatione pervenerat monasteria in Ravennatibus partibus constituta omnino clericorum vestrorum dominio praegravari, ita ut occasione quasi regiminis ea, quod dici grave est, velut in proprietate possideant. Quibus non modicum condolentes decessori vestro epistulas misimus ut hoc emendare per omnia debuisset. Sed quoniam vitae est termino citius occupatus, ne hoc onus monasteriis remaneret, fraternitati vestrae eadem nos scripsisse recolimus. Et quia, ut comperimus, in huius rei correctione cessatum est, haec ad vos iterum praevidimus scripta dirigere. Hortamur ergo ut, omni mora omni que excusatione submota, ita monasteria ipsa ab huiusmodi studeatis gravamine relevare, quatenus nullam deinceps in eis clerici vel hi qui in sacro sunt ordine constituti ob aliud habeant, nisi orandi tantummodo causa, accedendi licentiam, aut si forte ad peragenda sacra missarum fuerint invitati mysteria. Sed ne vel per cuiuslibet monachi aut abbatis promotionem onus aliquod fortasse sustineant, studendum vobis est ut, si quispiam abbatum aut monachorum ex quocumque monasterio ad clericatus officium vel ordinem sacrum accesserit, non illic aliquam habeat, ut diximus, ulterius potestatem, ne monasteria cuiuslibet occasionis velamine ea quae prohibemus sustinere onera compellantur. Haec itaque omnia vigilanti cura emendare iam secundo commonita sanctitas vestra non differat, ne, si post hoc neglegentes vos esse, quod non credimus, senserimus, aliter monasteriorum quieti prospicere compellamur. Nam notum vobis sit, quia tantae necessitati servorum Dei congregationem amplius subiacere non patimur. Ne vero aliqua vobis excusatio de monachis oriatur, personam hic quam praeviderit utilem ex opere fraternitas vestra transmittat et ei nos, qui cum eo ad vos venire possint, monachos deputamus. Quos ut prospexeritis, debeatis in monasteriis ordinare, si tamen talia loca sunt, ut sit unde ibi subsistere valeant.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Da parecchio tempo, dalla relazione di molti, ci è pervenuta notizia che i monasteri situati nelle parti di Ravenna sono del tutto oppressi dall'egemonia dei vostri chierici, che, sotto il pretesto di dirigerli, li ritengono — il che è grave a dirsi — come delle proprietà. Rattristandoci quindi non poco con questi, abbiamo inviato una lettera al vostro predecessore [Giovanni II], perché ciò in tutti i modi fosse emendato. Ma siccome egli fu subito raggiunto dalla morte, perché questo gravame sui monasteri non rimanesse, ricordiamo di averne già scritto alla fraternità vostra. E poiché, come riscontriamo, in questa correzione ci si è fermati, abbiamo provveduto a mandarvi di nuovo una lettera. Vi esortiamo, quindi — rimossi ogni scusa e ogni indugio —, ad alleggerire i monasteri da un peso di questo genere, in modo che d'ora in poi i chierici e quelli che sono costituiti nell'Ordine sacro non abbiano, in seguito, nessun permesso di accedere ai monasteri, se non soltanto per pregare o per celebrare la Messa, se caso mai vi fossero stati invitati. Ma perché neppure per la promozione di un semplice monaco o dell'abate i monasteri abbiano a sostenere un qualche onere, dovete far sì che, se qualcuno degli abati o dei monaci dovesse accedere al clericato o all'Ordine sacro da qualsiasi monastero, egli non abbia più lì — cioè nel monastero di origine — potestà alcuna, come abbiamo detto, affinché i monasteri, sotto la parvenza di un qualsiasi pretesto, non subiscano quei gravami che vogliamo tenere lontani. Perciò la santità vostra, dopo un secondo avvertimento, non differisca dall'emendare tutto questo con cura vigilante, perché, se verremo a conoscere — il che non crediamo — che siete stato negligente, non siamo costretti a provvedere in altro modo alla quiete dei monasteri. Vi sia infatti chiaro che non sopportiamo più che le comunità dei monaci soggiacciano a così grande difficoltà. Affinché poi non nasca per voi qualche pretesto da parte dei monaci, la fraternità vostra mandi qui una persona che avrà stimato realmente capace e noi assegniamo dei monaci che, con essa, possano venire da voi. Questi, poi, dovrete sistemarli — secondo le vostre previsioni — nei monasteri, se tuttavia i posti sono tali che ci sia in essi di che possano vivere.
Note597 d.C., agosto. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. La lettera riguarda l’ingerenza del clero regolare e della nobiltà, legati entrambi all’arcivescovado, nella vita e nei beni dei monasteri. Il predecessore fu Giovanni II: 578-595 d.C.
Testo originaleGregorius Eusebio Thessalonicensi, Urbicio Dyracitano, Constantio Mediolanensi, Andreae Nicopolitano, Iohanni Corinthensi, Iohanni Primaeiustinianae, Iohanni Cretensi, Iohanni Scodritano, Iohanni Larissaeo, Mariniano Ravennati, Ianuario Caralis Sardiniae et omnibus episcopis Siciliae.
Legem quam piissimus imperator dedit, ne fortasse hi qui militiae vel rationibus sunt publicis obligati, dum causarum suarum periculum fugiunt, ad ecclesiasticum habitum veniant vel in monasteriis convertantur, vestrae studui fraternitati transmittere, hoc maxime exhortans quod hi qui saeculi actionibus implicati sunt in clero ecclesiae propere suscipiendi non sunt; quia, dum in ecclesiastico habitu non dissimiliter quam vixerunt vivunt, nequaquam student saeculum fugere sed mutare. Quod si etiam tales quique monasterium petunt, suscipiendi nullomodo sunt, nisi prius a rationibus publicis fuerint absoluti. Si qui vero ex militaribus numeris in monasteriis converti festinant, non sunt temere suscipiendi, nisi eorum vita subtiliter fuerit inquisita. Et iuxta normam regularem debent in suo habitu per triennium probari et tunc monachicum habitum Deo auctore suscipere. Qui si ita sunt probati atque suscepti et pro anima sua paenitentiam de perpetratis culpis agere student, pro eorum vita et lucro caelesti non est eorum conversio rennuenda. Qua de re etiam serenissimus et christianissimus imperator, mihi credite, omnimodo placatur et libenter eorum conversionem suscipit, quos in rationibus publicis implicatos non esse cognoscit.
TraduzioneGregorio a Eusebio vescovo di Tessalonica, Urbico di Durazzo, Costanzo di Milano, Andrea di Nicopoli, Giovanni di Corinto, Giovanni di Prima Giustiniana, Giovanni di Creta, Giovanni di Scutari, Giovanni di Larissa, Mariniano di Ravenna, Gennaro di Cagliari in Sardegna e a tutti i vescovi della Sicilia.
La legge che il piissimo imperatore ha emanato, per la quale coloro che sono sottoposti agli obblighi del servizio militare o dell'erario non possono, sottraendosi ai vincoli delle proprie incombenze, accedere alla vita ecclesiastica o entrare in monastero, mi sono adoperato di trasmetterla alla vostra fraternità, esortandovi soprattutto a questo che chiunque è implicato nelle faccende del mondo non sia accettato in fretta nelle file del clero, perché, vivendo nello stato ecclesiastico non diversamente da come ha vissuto nel secolo, uno cerchi non di abbandonare il mondo ma di mutare condizione in esso. Che se individui di questo genere si affrettano ad entrare in monastero, non bisogna assolutamente accettarli, se prima non si siano liberati dagli obblighi con l'erario. Se poi alcuni dalle file dell'esercito si danno premura di entrare in monastero, non debbono essere accettati senza esitazione, se prima non si sia inquisita minutamente la loro vita. Ma essi, secondo la regola, debbono essere sottoposti a prove per un triennio e quindi, con l'aiuto di Dio, prendere l'abito monastico. Se poi sono stati sottoposti a prova e sono stati accettati e si adoperano, a vantaggio della propria anima, di far penitenza delle colpe commesse, la loro conversione non deve essere rigettata per la loro vita spirituale e per la ricompensa celeste. Anche il serenissimo e cristianissimo imperatore a questo riguardo, credetemi, è completamente ben disposto e accetta volentieri la conversione di coloro che sa non essere implicati con l'erario.
Note597 d.C., novembre. La lettera è indirizzata a tutti i metropoliti sottoposti all’autorità ecclesiastica di Roma, ai quali va aggiunta Salona, il cui vescovo era considerato illegittimo. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennati.
Quam sit necessarium monasteriorum quieti prospicere et de eorum perpetua securitate tractare, anteactum vos officium quod in regimine monasterii exhibuistis informat. Et ideo quia monasterium beatorum Iohannis et Stephani, quod in Classitana civitate est constitutum, cui communis filius Claudius abbas praeesse dinoscitur, multa a decessoribus vestris praeiudicia atque gravamina pertulisse cognovimus, oportet ut fraternitatis vestrae provisio eorum de futuro quietem salubri ordinatione disponat, quatenus conversantes illic in Dei servitio, ipsius quoque gratia suffragante, mente libera perseverent. Sed ne ex ea quae magis emendanda est consuetudine quisquam illic quolibet tempore quicquam molestiae praesumat inferre, necesse est ut haec quae inferius enumeranda curavimus ita fraternitatis vestrae studio debeant custodiri, ut ex eis non possit ulterius inferendae inquietudinis occasio repperiri.
Nullus igitur ultra audeat de reditibus, rebus vel cartis praedicti monasterii vel de loco aliquo quod ad eum pertinet quocumque modo qualibet exquisitione minuere nec immissiones vel dolos aliquos facere. Sed si qua forte causa inter Ravennatem ecclesiam et praefatum monasterium evenerit et pacifice non potuerit ordinari, apud electos a partibus timentes Deum sine voluntaria dilatione mediis sacrosanctis evangeliis finiatur. Defuncto vero abbate non extraneus nisi de eadem conversatione quem sibi propria voluntate congregatio elegerit et qui electus fuerit sine dolo vel venalitate aliqua ordinetur. Quod si aptam inter se personam invenire nequiverint, sollerter de aliis monasteriis sibi similiter eligant ordinandum. Neque viventi abbati quaecumque persona qualibet occasione in suo monasterio praeponatur, nisi forte exstantibus, quod absit, criminibus quae sacri canones punire monstrantur. Pariter autem custodiendum est ut invito eiusdem monasterii abbate ordinanda alia monasteria aut ad ordines sacros vel clericatus officium tolli exinde monachi non debeant. Sed si abundantes fuerint, qui ad celebrandas Deo laudes vel utilitates monasteriorum complendas sufficiant, abbas cum devotione de his qui superfuerint offerat, quos dignos coram deo potuerit. Quod si sufficienter habens dare noluerit, tunc Ravennae episcopus ad ordinanda alia monasteria de his qui supersunt tollat: ad ecclesiasticum tamen officium nullus exinde producatur, nisi quem abbas loci admonitus propria voluntate obtulerit. Quisquis autem ex praedicto monasterio ad ecclesiasticum ordinem pervenerit, ulterius illic nec potestatem aliquam nec licentiam habeat habitandi.
Obseruandum quoque est ut descriptio rerum aut cartarum eiusdem monasterii ab ecclesiasticis fieri non debeat, si quando res exigit, sed abbas loci cum abbatibus aliis rerum inventarium faciat.
Quotiens autem pro utilitate monasterii sui ad pontificem Romanum abbas venire vel transmittere forte voluerit, ei modis omnibus liceat.
Praeterea cum episcoporum adventus desideranter a monasteriis debeat exspectari, quia tamen hospitandi occasione praedictum monasterium temporibus decessoris vestri nobis fuisse nuntiatum est praegravatum, oportet ut hoc sanctitas vestra decenter debeat temperare, ut visitandi exhortandi que gratia ad monasterium, quotiens placuerit, ab eiusdem civitatis antistite accedatur, sed sic caritatis officium illic episcopus impleat, ut gravamen aliquod monasterium non incurrat. Vestram vero fraternitatem praedictus abbas non solum non metuit ad monasterium frequenter accedere sed etiam desiderabiliter concupiscit, sciens quod per vos substantia monasterii omnino gravari non possit.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Quanto sia necessario provvedere alla quiete dei monasteri e badare alla loro definitiva sicurezza, lo sapete dall'ufficio da voi ricoperto in passato nel dirigere un monastero. E per questo, siccome sappiamo che il monastero dei Santi Giovanni e Stefano, situato nella città di Classe e al quale presiede il comune figlio, l'abate Claudio, ha subito dai vostri predecessori danni e oneri, conviene che la previdenza della vostra fraternità disponga con salutare sistemazione per il futuro quanto attiene alla quiete dei monaci, perché quelli che ivi sono dediti al servizio di Dio, con l'aiuto della sua grazia, perseverino con mente libera nella loro vocazione. Ma affinché, partendo da quella consuetudine che va piuttosto corretta, qualcuno in qualsiasi tempo non osi causare ivi qualche molestia, è necessario che quanto sotto abbiamo cercato di enumerare sia dallo zelo della carità vostra osservato in modo che non si prenda da ciò che è stato disposto occasione di apportare ulteriormente fastidio.
Nessuno osi ancora riguardo ai redditi, i beni, le carte del predetto monastero e riguardo ai luoghi che ad esso appartengono diminuire in qualsiasi modo e con qualunque tentativo ciò che ad esso compete, né farvi usurpazioni e danno alcuno. Ma se per caso sorge tra la Chiesa di Ravenna e il suddetto monastero una causa che non possa essere definita pacificamente, sia risolta davanti a giudici scelti da ambo le parti, senza voluta dilazione, alla presenza dei sacrosanti evangeli. Alla morte del suo abate, non sia ordinato un estraneo ma chi professa lo stesso genere di vita e che la comunità ha di propria volontà eletto. E l'eletto sia ordinato senza inganno e venalità alcuna. Che se tra loro i monaci non possono trovare la persona adatta, ne eleggano da consacrare egualmente uno da altri monasteri. Né, vivendo l'abate, sia preposta a lui nel monastero per qualunque pretesto una qualsiasi persona, se non nel caso — ciò che sia lontano da noi — in cui ci si ritrovi alla presenza di colpe degne di punizione secondo i sacri canoni. Allo stesso modo occorre tener per fermo che, contro la volontà dell'abate, non si costituiscano altri monasteri; né si prelevino dal suo monastero monaci da promuovere agli ordini sacri e all'ufficio del chiericato. Ma se i monaci sono numerosi nel celebrare le lodi a Dio e nel compiere le occupazioni monastiche, l'abate offra devotamente quelli che può tra coloro che risultino in soprannumero e che siano degni davanti a Dio. Che se l'abate, pur avendone in soprannumero non li vuol cedere, allora il vescovo di Ravenna ne prenda dai superflui per la fondazione di altri monasteri: però nessuno sia preso per l'ufficio ecclesiastico all'infuori di colui che l'abate del posto, una volta avvertito, abbia presentato di sua volontà. Chiunque poi è pervenuto dal predetto monastero ad una carica ecclesiastica non abbia più il potere e la possibilità di abitare in esso.
Bisogna poi osservare pure che l'inventario dei beni e delle carte di quel monastero non sia compiuto dagli ecclesiastici, ma tale inventario sia fatto, quando è necessario, dall'abate del luogo con gli altri abati.
Tutte le volte che per il bene del monastero l'abate vuol venire al romano Pontefice e mandare a lui qualcosa, gli sia in tutti i modi lecito farlo.
Inoltre, dovendo la venuta dei vescovi essere desiderata dai monasteri, poiché in occasione dell'ospitalità ci è stato detto che ai tempi del vostro predecessore il predetto cenobio fu soggetto a gravi danni, bisogna che la santità vostra temperi opportunamente le cose, in modo che il vescovo della città acceda al monastero per visitarlo e per esortare i monaci tutte le volte che vuole e che il monastero non subisca alcun gravame. Il predetto abate non solo non teme che la fraternità vostra acceda frequentemente al monastero, ma lo desidera con tutto il cuore, sapendo che da parte vostra i beni del monastero non ricevono alcun danno.
Note598 d.C., aprile. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il predecessore fu Giovanni II: 578-595 d.C. Claudio, romano e collaboratore di papa Gregorio, era abate di SS. Giovanni e Stefano in Classe. La lettera riguarda l’ingerenza del clero regolare e della nobiltà, legati entrambi all’arcivescovado, nella vita e nei beni dei monasteri, e costituisca una normativa per il corretto rapporto tra comunità monastiche e clero cittadino.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Quod communem filium Claudium abbatem latorem praesentium longa apud nos hactenus mora retinuit, res illa fecit, quod magnum nobis, sicut nostis, erat in verbo Dei solacium; quem etiam hic adhuc volueramus diutius retinere, nisi et ipse ad suum monasterium festinasset et nos congregationi fratrum eius praesentiam esse omnino necessariam sciremus. Et ideo, quia illum, sicut petiit et exigebat utilitas, relaxandum esse prospeximus, commendantes eum hortamur ut sanctitas vestra sacerdotali illum affectione suscipiat, paternam illi monasteriis que ipsius caritatem, sicut decet, impendat, benignitatis suae eum consolatione refoveat, in eius se tuitionem instanter accommodet et praesidii sui beneficio liberum ab omni inquietudine redditum quieti et utilitatibus fratrum vacare permittat atque peculiariter, sicut a nobis eum scit diligi, diligat, quatenus et caritatis vestrae affectum, quem olim expertus est, in se multiplicius recognoscat et nos in vobis invenisse se gaudeat.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
La causa per cui il comune figlio, l'abate Claudio, latore della presente, fu trattenuto a lungo fino a questo momento presso di noi, fu il fatto che egli ci è stato, come sapete, di grande aiuto nel commentare la parola di Dio. Avremmo voluto trattenerlo ancora più a lungo, se non si fosse affrettato a tornare nel suo monastero e noi non avessimo saputo che la sua presenza era molto necessaria alla comunità dei fratelli. Poiché, quindi, abbiamo provveduto a rilasciarlo, come egli ci ha chiesto e come la situazione esigeva, raccomandandovelo, esortiamo la santità vostra a riceverlo con sacerdotale amore. Usi verso di lui e verso il suo monastero, come conviene, la sua paterna carità, lo rianimi con la consolazione della sua benignità, si applichi in modo pressante alla sua protezione, gli permetta di occuparsi. reso libero da ogni inquietudine, della quiete e della cura dei fratelli e lo ami particolarmente come sa essere da noi amato, in modo che egli riconosca in sé moltiplicato l'affetto della vostra carità, che una volta ha sperimentato, e goda di aver trovato noi in voi.
Note598 d.C., aprile. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Claudio, romano e collaboratore di papa Gregorio, era abate di SS. Giovanni e Stefano in Classe.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Iohannes praesentium portitor queritur uxorem suam molestias Georgii cuiusdam refugientem diu in saeptis venerabilibus residere et nullum hactenus invenire solacium. Cuius quia de condicione esse controversiam asserit et vestrae eam fraternitati petiit commendandam, his vos hortamur affatibus ut eidem mulieri servata aequitate tuitionem debeatis impendere et a nullo eam contra rationis ordinem gravari aliquomodo permittatis. Sed si de statu eius quaestio perseverat, studii vestri sit ut sine oppressione aliqua legali modo ad iudicium veniatur, quatenus, dum veritate cognita quod iuris ordo suaserit fuerit definitum, neutra se pars aliquod doleat praeiudicium pertulisse.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Giovanni, latore della presente, si lamenta che sua moglie, fuggendo alle molestie di un certo Giorgio, sia da tempo rinchiusa nei recinti della chiesa e che a tutt'oggi non trovi nessun aiuto. Poiché asserisce che è in piedi una causa sulla condizione servile della donna e ha chiesto che sia raccomandata alla vostra fraternità, con questa lettera vi esortiamo a prestarle, fatta salva la giustizia, la vostra protezione e a non permettere che sia danneggiata in alcun modo da nessuno contro i dettami della ragione. Ma se la controversia riguardante il suo stato dura a lungo, sia vostra cura che si arrivi, senza alcuna oppressione e in modo legale al giudizio, in quanto, mentre, conosciuta la verità, sarà definito ciò che detta il diritto, nessuna delle due parti si dolga di aver subito un torto.
Note598 d.C., aprile. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C.
Testo originaleGregorius Amandino.
Ea quae per Paulum latorem praesentium et Timarcum excubitorem gloria vestra transmisit eo quo voluistis modo suscepta sunt. Sed excellentissimo filio nostro exarcho per superscriptum excubitorem qui ad eum profectus est scripsimus ut cautiones agentium vices Iohannis praefecti simul et Iohannis palatini hic transmittere debeat, indicantes ei quia, nisi illas direxerit, usque ad adventus vestros ea quae a gloria vestra transmissa sunt non tangantur, sed vobis remeantibus conserventur.
De persona autem gloriosi Libertini quaedam ad nos ante pervenerant et necesse fuit ut ea vobis sicut revera filiis quos diligimus minime taceremus. Et quantum in gloriae vestrae epistulis invenimus, moleste illa, quod non decuit, suscepistis, dum quando nihil asperum scripsisse meminimus, sed hortati sumus ut cum eo caritatem et gratiam haberetis. Sed quia ad haec aspera vobis rescribentibus, ne ipsam ad nos epistulam mitteretis, per somnium vos scripsistis esse prohibitos, omnipotenti deo gratias agimus, qui sic vos vigilantes custodit, ut etiam dormientes admoneat. Sed quia in eodem somnio et a me vos eadem causa reprehensos scribitis, qualis vobis sim vel ex hoc colligite et, quando vos paterna adhortatione convenio, moleste suscipere non debetis, quia, qui dormientibus purus sum, vigilantibus duplex non esse pateo.
TraduzioneGregorio ad Amandino.
Ciò che la vostra gloria ha inviato per mezzo di Paolo, latore della presente, e Timarco, guardia del corpo, è arrivato nel modo da voi voluto. Ma abbiamo scritto all'eccellentissimo figlio nostro, l'esarca, per mezzo del predetto Timarco il quale è partito alla volta di lui, che deve inviarci le “cautiones” dei facenti le veci del prefetto Giovanni e contemporaneamente del palatino Giovanni, specificandogli che se non le manda, fino al vostro arrivo, ciò che dalla gloria vostra è stato inviato non sarà toccato, ma sarà conservato fino al vostro ritorno.
Quanto poi alla persona del glorioso Libertino, ci erano pervenute in anticipo delle notizie che fu necessario non fossero assolutamente taciute a voi come a un figlio che amiamo davvero. Ma, da quanto ci risulta dalla lettera della vostra gloria, queste notizie furono accolte — ciò che non conveniva — in mala parte, mentre non ricordiamo avervi scritto qualcosa di male, ma vi abbiamo esortato a usargli amore e bontà. Però, siccome voi che rispondevate con queste dure espressioni, mi avete scritto che è stato proibito in sogno di mandarci questa lettera, ringraziamo Dio onnipotente che vi protegge da sveglio al punto da ammonirvi anche quando dormite. Tuttavia, poiché mi scrivete che nel medesimo sogno eravate ripreso anche da me per lo stesso motivo, almeno da questo fatto deducete quali siano le mie disposizioni d'animo verso di voi. Quando vi avverto paternamente di qualche cosa, non dovete avervela a male, perché se sono schietto con voi mentre dormite, non mi va di essere considerato falso mentre state sveglio.
Note598 d.C. settembre/ottobre. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche il “domesticus”, assistente personale dell’esarco, Amandino. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. I latori Paolo e Timarco avevano portato a Roma da Ravenna frumento. Il prefetto del pretorio Giovanni, responsabile amministrativo e giuridico d’Italia sotto l’autorità dell’Esarco, risiedeva a Ravenna: è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato. Libertino era ex pretore della Sicilia.
Testo originaleGregorius Gennadio exarcho Africae.
Droctulfus praesentium portitor de hostibus ad rempublicam veniens opinionis vestrae, quod longe late que diffusum est, bono succensus est, ad excellentiae vestrae obsequia summo desiderio festinavit occurrere. Et quoniam nostra se apud vos poposcit epistula commendari, paterna dulcedine salutantes, petimus ut eum, sicut Deus vobis incordaverit ac utile visum fuerit, excellentia vestra ordinare dignetur, quatenus et ipse bona quae de vobis etiam positus adhuc inter hostes audivit in se valeat experiri et excellentiae vestrae eius ante omnipotentis Dei oculos inter ceteras merces accrescat.
TraduzioneGregorio a Gennadio esarca d’Africa.
Droctulf, latore della presente, passando dai nemici allo Stato romano, si è entusiasmato del bene che si dice di voi — bene che è sparso in lungo e in largo — e vuole senza indugi mettersi con tutta l'anima agli ordini dell'eccellenza vostra. E poiché ha chiesto di essere raccomandato da una nostra lettera a voi indirizzata, salutandovi con paterna dolcezza, chiediamo che l'eccellenza vostra, come Dio la ispira e le sembrerà utile, lo sistemi in modo che egli sperimenti il bene che di voi ha sentito dire anche quando era ancora tra le file dei nemici. Contemporaneamente preghiamo che cresca per l'eccellenza vostra agli occhi di Dio onnipotente, tra le altre ricompense, quella per lui.
Note598 d.C. settembre/ottobre. Droctulf, generale dei Longobardi passato nell’esercito bizantino, risiedeva a Ravenna.
Testo originaleGregorius Theodoro curatori Ravenna.
Licet multa de vobis ad nos olim referentibus responsalibus nostris, quae animos nostros laetificarent, pervenerint, nunc tamen remeans filius noster Probus abbas tanta de gloriae vestrae amplius caritate retulit, quanta de bono revera et christianissimo decet filio praedicari. Et quoniam tantum sibi a vobis affectum impensum ac tale studium in ordinanda pace vos habuisse narravit, quale nec in nostris civibus qui illic ante inventi sunt exstitit, supernae protectionis misericordiam postulamus ut hanc vobis vicem in corpore, in anima et hic et in futuro retribuat, qui pro multorum salute vigilanter agere quae erant utilia non cessatis.
Indicamus itaque Ariulfum de servanda pace, non ut rex ipsius iuravit, sed sub condicione: si sibi in quoquam excessum non fuerit aut si nullus contra Arogis ambulaverit, sacramenta praestasse. Quod quia omnino iniquum atque dolosum est, nos, tamquam si non iurasset, habemus, quia in aliquid parum facilem sibi excedendi occasionem inveniet et plus nos, si de eo suspecti non fuerimus, decipiet. Vuarnifrida vero, ad cuius consilium isdem Ariulfus cuncta agit, omnino iurare despexit. Et id contigit ut ex pace, quam multum desideravimus, nos in his partibus nullum paene remedium habere possimus, quia de eisdem hostibus de quibus suspecti nunc usque fuimus adhuc et in posterum suspecti sumus.
Cognoscat praeterea gloria vestra homines regis qui hic transmissi sunt imminere ut in pacto debeamus subscribere. Sed recordantes eorum quae Agilulfus Basilio viro clarissimo per nos in beati Petri dixisse fertur iniuria, quamvis hoc penitus isdem Agilulfus negaverit, a subscriptione tamen abstinere praevidimus, ne nos, qui inter eum et excellentissimum filium nostrum domnum exarchum petitores sumus et medii, si quid forte clam sublatum fuerit, falli in aliquid videamur et nostra ei promissio in dubium veniat et, si qua de futuro, quod absit, necessitas fuerit, occasionem inveniat, qualiter nostrae petitioni consentire non debeat. Et ideo petimus ut, sicut et a praedicto excellentissimo filio nostro poposcimus, gloria vestra ea qua nobis caritate unita est peragat, quatenus, antequam homines ipsi ab Arogis revertantur, rex eis sub festinatione scripta transmittat, quae tamen ad nos deferantur, in quibus eis praecipiat ut nos subscribere non petant. Sed si tantum est, gloriosum fratrem nostrum vel unum de episcopis aut certe archidiaconem subscribere faciemus.
De persona vero Augusti gratias agimus atque studemus, ut cum adversario suo causam suam secundum aequitatem definiat, quia ita illi, ne illuc exhiberetur, laborem imponi noluimus, ut tamen adversario ipsius iustitiam non negemus.
De aliis autem quia digne vobis gratias agere necdum occurrimus, in subsequenti responsalem dirigimus, per quem in caritate qua ad alterutrum nexi sumus amplius miserante Domino constringamur. Praeterea gloriae vestrae maeror nos vehementer afficit. Sed quia vir sapiens ea quae post consolationem dicenda sunt cuncta novit, verbis vos consolare cessamus, sed oratione prosequimur, petentes ut omnipotens Deus vitam et salutem vestram vestrorum que omnium pietatis suae protectione custodiat et cor vestrum in afflictione positum consoletur.
TraduzioneGregorio a Teodoro curatore a Ravenna.
Per quanto ci siano pervenuti da tempo, per mezzo dei nostri rappresentanti, a vostro riguardo apprezzamenti che allietavano il nostro animo, ora tuttavia il nostro figlio, l'abate Probo, ci ha riferito più diffusamente sull'amore della gloria vostra cose tanto grandi, quali si addicono ad un figlio buono davvero e cristianissimo. E poiché Probo ci ha raccontato con quanto affetto e con quanta passione vi siate impegnato nello stabilire la pace, come neppure nei nostri concittadini che prima si sono trovati da quelle parti fu riscontrato, chiediamo alla misericordia della protezione divina che ve ne dia la ricompensa nel corpo e nell'anima, qui in questa vita e in quella futura, dal momento che non desistete dal compiere con vigilanza ciò che è utile per la salvezza comune.
Per questo vi notifichiamo che Ariulfo non ha giurato sulla conservazione della pace come il suo re Agilulfo, ma lo ha fatto sotto condizione: che non si fosse ecceduto in nulla contro di lui e che nessuno avesse marciato contro Aroge [Arechi]. E poiché questo risulta ingiusto e ingannevole, per noi è come se non avesse giurato, perché egli prenderà facile occasione da un nonnulla per assalirci e ci trarrà maggiormente in inganno, se non siamo guardinghi. Warnifrida, per il cui consiglio Ariulfo fa tutto, si rifiutò del tutto di giurare. E così capite che noi da quella pace che abbiamo desiderato molto non ricaviamo in queste zone quasi nessun rimedio, perché degli stessi nemici dei quali fino ad ora siamo stati diffidenti, continueremo ad esserlo anche per il futuro.
Sappia inoltre la vostra gloria che gli uomini del re che sono stati inviati qui, insistono che noi dobbiamo sottoscrivere il patto. Ma, ricordandoci di ciò che Agilulfo si vocifera abbia detto a Basilio, uomo chiarissimo, a causa nostra in offesa di san Pietro, quantunque lo stesso Agilulfo l'abbia del tutto negato, tuttavia abbiamo pensato di astenerci dalla sottoscrizione. E ciò affinché noi, che siamo tra lui e l'eccellentissimo nostro figlio, il signor esarca [Callinico], richiedenti e intermediari, se di nascosto vien sottratto qualcosa a quanto pattuito, non sembriamo essere stati tratti in inganno e che la nostra promessa fatta a lui sia messa in dubbio e, in tal modo, se ci sarà — ciò che sia lungi da noi — in futuro qualche necessità, il re trovi il pretesto per non acconsentire alla nostra richiesta. Per questo domandiamo, come abbiamo chiesto al predetto eccellentissimo figlio nostro, che la vostra gloria agisca con quell'amore con cui è legata a noi, di modo che, prima che gli uomini [di Agilulfo] tornino da Aroge, il re scriva loro con urgenza una lettera, da consegnare a noi, nella quale comandi loro di non richiedere la nostra sottoscrizione. Ma, solamente se è necessario, faremo sottoscrivere un glorioso nostro fratello, o uno dei vescovi, o per lo meno l'arcidiacono.
Quanto alla persona di Augusto vi ringraziamo e ci studiamo di por fine, secondo giustizia, alla causa che ha con il suo avversario. Non vogliamo però che gli sia imposta la fatica di presentarsi da voi, facendo tuttavia in modo che non sia negata giustizia alla controparte.
Circa le altre faccende, poi, siccome non ancora ci riesce di ringraziarvi, vi mandiamo in seguito il nostro rappresentante, tramite il quale, con la misericordia di Dio, ci uniamo più strettamente con il vincolo della carità che già ci lega vicendevolmente. La tristezza della vostra gloria, inoltre, ci coinvolge profondamente. Ma poiché l'uomo saggio conosce tutto ciò che si dice cercando di consolare, ci asteniamo dal confortarvi a parole, ma proseguiamo il discorso con la preghiera, chiedendo a Dio onnipotente che custodisca, con la protezione della sua bontà, la vita e la salvezza vostra e di tutti i vostri cari e consoli il vostro cuore che giace nell'afflizione.
Note598 d.C., ottobre. La lettera riguarda il trattato di tregua siglato tra Longobardi e Bizantini sotto gli auspici di Gregorio Magno, i cui emissari sono Teodoro, curatore di Ravenna, Probo, abate di SS. Andrea e Lucia di Roma. Il curatore (“curator civitatis”) era il referente burocratico e civile di una città: l’importanza di Ravenna, sede dell’esarco, spiega l’influenza che il principale esponente cittadino aveva sulle trattative diplomatiche. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Regno di Agilulfo: 591-616 d.C. Ducato di Spoleto di Ariulfo: 591-601 d.C. Arechi fu il secondo duca di Benevento: 591-641 d.C. Augusto, “vir clarissimus” di Ravenna, fu pure un curiale, cioè un membro della nobiltà cittadina coinvolto nella gestione della città, e in particolare sarà “curator formarum”, responsabile dell’approvvigionamento idrico.
Testo originaleGregorius Amandino domestico.
Confidentes quod gloria se vestra in amicorum suorum solaciis devota semper exhibeat, eorum vobis causas commendare quos diligitis studemus. Atque ideo salutantes petimus ut gloriosus filius noster Gregorius, quales vos hic habuit, illic tales inveniat et tam apud gloriosum filium nostrum Leontium vel alibi, quocumque necesse fuerit, gloriae vestrae solacia consequatur ac magnam in vobis consolationem inveniat et, in quantum possibile est, ne cuidam iniustae possit afflictioni vel gravamini subiacere, gloriae vestrae sollicitudo studio vigilanti provideat et tranquillo maturo que hoc studeat consilio declinari, quatenus, dum suos vos, sicut decet, adiutores habuerit, et ipse et nos amplius cognoscere valeamus quia, sicut de gloria vestra praesumimus, non ad faciem sed, quod est valde laudabile, puras nostis amicitias exhibere.
TraduzioneGregorio ad Amandino ufficiale dell’esarca.
Nella fiducia che la vostra gloria si mostri sempre dedita ad aiutare i suoi amici, ci adoperiamo a raccomandarvi gli interessi di coloro che amate. E così, porgendovi i nostri saluti, vi chiediamo che il nostro figlio, il glorioso Gregorio, vi trovi lì quale vi ha avuto qui e ottenga il vostro sostegno tanto presso il glorioso figlio nostro Leonzio che presso altri, ovunque ne abbia bisogno. Ottenga da voi un grande conforto e, per quanto è possibile, riesca a non soggiacere a qualunque ingiusta afflizione e a qualunque aggravio. La sollecitudine della vostra gloria con zelo vigilante e con serena e ponderata saggezza si adoperi perché ciò sia evitato, affinché, avendo voi, come si conviene, per sostenitore, tanto lui che io possiamo conoscere che, nel modo che presumiamo di voi, sapete essere non all'apparenza, ma — ciò che è degno di grande lode — sinceramente amico.
Note598 d.C., novembre. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche il “domesticus”, assistente personale dell’esarco, Amandino. Il prefetto del pretorio Gregorio, responsabile amministrativo e giuridico d’Italia sotto l’autorità dell’Esarco, risiedeva a Ravenna: è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato.
Testo originaleGregorius Theodoro curatori.
Postquam sic de gloriae vestrae sinceritate praesumimus, ut vestros vos credamus reputare qui nostri sunt, latori praesentium Petro viro magnifico ad promerendam bonitatis vestrae gratiam hoc solum sufficere poterat indicari quia noster est. Sed quoniam paterna commendatio boni filii mentem solet semper accendere, paterna dulcedine salutantes, petimus ut memorato filio nostro atque gloriosae filiae nostrae matri ipsius patrocinii vestri gratiam ostendatis eos que et illic positos tuitionis vestrae remedio foveatis et venientes ad nos vestris subsidiis adiuvetis, quatenus, dum ea quae gloria vestra ex se solet impendere nostra benignius epistula interveniente praestiterit, et ipsa rem consuetam videatur laudabiliter exhibere et nos sibi pro sua bonitate gratiarum esse faciat per omnia debitores.
TraduzioneGregorio al curatore Teodoro.
Dal momento che abbiamo fiducia nella purezza della vostra gloria al punto da pensare che riteniate vostri coloro che sono nostri, al latore della presente, il magnifico Pietro, poteva bastare per meritare il dono della vostra bontà solo questo: l'indicarvi che ci appartiene. Ma poiché la raccomandazione di un padre suole sempre accendere il cuore di un figlio affezionato, porgendovi con paterna dolcezza i nostri saluti, chiediamo che mostriate al ricordato figlio nostro e alla gloriosa sua madre il dono della vostra protezione. Confortateli, mentre sono da voi, con l'aiuto del vostro appoggio e, quando vengono da noi, soccorreteli con il vostro favore affinché, mentre la vostra gloria offrirà loro con maggiore benignità, per l'intervento della nostra lettera, ciò che è solita offrire da sé, sembri che essa faccia lodevolmente ciò che è sua abitudine fare e renda noi, per la sua bontà, in tutto debitori di ringraziamenti.
Note599 d.C., gennaio. Il curatore (“curator civitatis”) era il referente burocratico e civile di una città: Teodoro era curatore di Ravenna.
Testo originaleGregorius […].
Quia gloriam vestram fixam valde atque stabilem in suis esse moribus audio, nimis laetificor et sic vobis quae mihi displicent sicut speciali filio fiducialiter loquor. Excellentissimus enim exarchus aliqua loquitur, quae omnes qui eum amant ad inimicitias illius valeant excitare. De qua re ei per latorem praesentium in excepto quae mihi visa sunt relegenda dictavi; quae, si placent, etiam vobis legantur, ut sciatis quid ei de re eadem scribere debeatis. Hic autem quanta necessitas et quae nos mala constringant, et praesentis responsalis nostri relatione et ex epistulis fratris et coepiscopi mei Mariniani potestis agnoscere. Unde gloriam vestram decet studiose cogitare quia nos de sapientia vestra magnam in omnipotente Domino fiduciam habemus et, ubi vos estis, illic causas neglegi nullomodo credimus. Ita ergo facite, ut confidentia nostra a sua certitudine non inveniatur aliena. Gratia superna custodiat et prospere vos agere omnia concedat.
TraduzioneGregorio […].
Poiché odo che la vostra gloria è molto ferma e costante nel suo modo di sentire, ne godo assai e così confidenzialmente dico a voi come a un figlio speciale ciò che mi reca dolore. L'eccellentissimo esarca [Callinico] va dicendo cose che inducono tutti quelli che lo amano all'inimicizia contro di lui. Per questo, tramite il latore della presente, ho dettato in una minuta ciò che mi è sembrato opportuno sia letto a lui: sono cose che, se vi aggrada, possono essere lette anche a voi, perché sappiate quello che gli dobbiate scrivere sullo stesso argomento. Quante difficoltà e quanti mali ci angustiano, lo potete sapere dalla relazione di questo nostro apocrisario e dalle lettere del nostro fratello e coepiscopo Mariniano. Perciò conviene che la vostra gloria rifletta attentamente che noi riguardo alla vostra saggezza abbiamo una grande fiducia in Dio onnipotente e crediamo che dove ci siete voi, i nostri problemi non sono negletti. Fate quindi in modo che la nostra fiducia non risulti priva della sua certezza. La grazia divina vi custodisca e vi conceda di compiere con fortuna ciò che fate.
Note599 d.C., gennaio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. “Apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna, era il notaio Castorio.
Testo originaleGregorius Andreae.
Audiens quod gloriam vestram vehementer afflixerit luctus et aegritudo, valde condolui. Sed protinus agnoscens quod perfecte reliquerit, dolorem mox in laetitia verti magnas que omnipotenti Deo gratias retuli, quia percussit, ut sanaret, afflixit, ut ad gaudia vera perduceret. Hinc enim scriptum est: “quem diligit Dominus castigat, flagellat omnem filium quem recipit” [S. Paolo, Ebrei, 12.6]. Hinc per semetipsam veritas dicit: “Pater meus agricola est et omnem palmitem in me non ferentem fructum tollit eum; omnem vero qui fert fructum purgavit eum, ut fructum plus afferat” [Giovanni, 15.1-2]. Palmis enim infructuosus tollitur, quia peccator funditus eradicatur; palmis vero fructuosus purgari dicitur, quia per disciplinam reciditur, ut ad uberiorem gratiam perducatur. Sic enim spicarum grana tribulis attrita aristis et paleis nudantur; sic olivae praelo pressae in olei pinguedinem defluunt; sic botri vinearum tunsi calcibus in vinum liquescunt. Gaude igitur, bone vir, qui in hoc flagello tuo et provectu conspicis quod ab aeterno iudice amaris.
Praeterea filiam meam gloriosam coniugem vestram mea peto vice salutari. Omnipotens autem Deus caelesti vos protectione custodiat vos que et modo consoletur de largitate donorum et postmodum de retributione praemiorum.
TraduzioneGregorio ad Andrea.
Venendo a sapere che la vostra gloria è afflitta intensamente dal lutto e dalla malattia, mi sono sentito vivamente partecipe del vostro dolore. Ma, conoscendo allo stesso tempo che vi abbandonate perfettamente alla volontà divina, ho subito convertito il dolore in gaudio e ho reso grazie a Dio onnipotente, perché egli ha colpito per risanare, vi ha afflitto per condurvi alle gioie vere. Per questo, infatti, è scritto: “Il Signore castiga chi ama, flagella ogni figlio che accoglie”. Per questo la verità dice per la sua stessa bocca: “Il Padre mio è l'agricoltore e taglia via ogni tralcio che non porta frutto in me; mentre quello che porta frutto lo ha potato perché portasse più frutto”. E detto che il tralcio infruttuoso è tolto via, perché il peccatore è sradicato completamente; mentre il tralcio che porta frutto è potato, in quanto è sfrondato con il dolore per essere condotto a una grazia più abbondante. Così i grani della spiga sfregati dall'erpice sono liberati dalle ariste e dalla paglia; così le olive premute dal torchio defluiscono nel pingue olio; così i grappoli delle vigne calpestati dai piedi si liquefanno in vino. Siate quindi lieto, mio buon uomo, perché vedete che in questo vostro flagello e in questo vostro progresso siete amato da Dio.
Vi chiedo di salutare in mia vece la figlia mia, la gloriosa vostra signora. Dio onnipotente vi custodisca con la sua celeste protezione e vi sia di conforto ora con la larghezza dei suoi doni e poi con la ricompensa celeste.
Note599 d.C., gennaio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche lo “scolasticus”, esperto/consulente di diritto, Andrea.
Testo originaleGregorius Theodoro curatori.
Quamvis gloriae vestrae bonitas semel sibi commendatos nesciat oblivioni mandare, verumtamen scientes haec eadem iterata carissimum filium non onerose suscipere, scribere nos quae iamdudum scripsimus non piget. Quia ergo gloriosissimus filius noster Iohannes praefectus Urbis ad deducendam hic coniugem suam latorem praesentium Iohannem virum clarissimum illic noscitur transmisisse, paterna dulcedine salutantes, petimus ut, quia memoratus gloriosissimus filius noster divisus hic consistere non potest, venienti coniugi ipsius gloriae vestrae sinceritas patrocinii sui opem ferat. Et ut securius iter suum Deo custodiente peragere valeat, iure ad Perusinam civitatem militari eam solacio Dei fulciri disponat, quatenus et antedictus gloriosus vir amplius patrociniis vestris sit deditus et nos dulcissimae gloriae vestrae gratias referamus.
TraduzioneGregorio al curatore Teodoro.
Quantunque la bontà della vostra gloria non sappia dimenticare una persona una volta raccomandatagli, tuttavia conoscendo che il carissimo nostro figlio non sopporta malvolentieri che cose di questo genere siano ripetute, non ci rincresce scrivere di nuovo ciò che precedentemente vi abbiamo scritto. Poiché, dunque, il gloriosissimo nostro figlio Giovanni, prefetto della Città, ha mandato dalle vostre parti Giovanni, uomo chiarissimo, latore della presente, per condurre qui sua moglie, porgendovi i nostri saluti con paterna dolcezza, chiediamo, dal momento che il predetto gloriosissimo nostro figlio non può stare qui diviso dalla consorte, che la purezza della vostra gloria presti a questa donna che viene qui la forza del suo patrocinio. E, affinché essa con la protezione divina possa con maggiore sicurezza fare il viaggio, vi preghiamo di disporre che, con l'aiuto del cielo, sia scortata dalla forza militare fino alla città di Perugia, di modo che il predetto glorioso marito vi sia più obbligato per la vostra assistenza e noi rendiamo grazie alla dolcissima vostra gloria.
Note599 d.C., febbraio/aprile. Il curatore (“curator civitatis”) era il referente burocratico e civile di una città: Teodoro era curatore di Ravenna. Giovanni era prefetto della città di Roma, carica precedentemente rivestita dallo stesso Gregorio Magno.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Gloriosissimus filius noster Iohannes praefectus Urbis ad hoc illic latorem praesentium Iohannem virum clarissimum destinavit, ut gloriosam coniugem ipsius hic Deo debeat protegente deducere. Quam cum iam et nos hic per omnia volumus advenire, ut praedictum gloriosissimum filium nostrum non divisum sed totum habere possimus, fraternitas vestra sollicitudinem gerat, ne quod ad veniendum impedimentum sustineat, atque, ut hic citius adesse valeat, studiose concurrat et ita se circa eam, quocumque exegerit usus, exhibeat, ut nec suum abesse coniugem sentiat et nos in vobis modis omnibus praesentes esse cognoscat.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Il gloriosissimo figlio nostro Giovanni, prefetto della Città, ha inviato costì Giovanni gloriosissimo uomo, latore della presente, perché conduca qui, con la protezione di Dio, la gloriosa sua moglie. Siccome anche noi vogliamo a tutti i costi che ella venga qui, per poter possedere il predetto gloriosissimo nostro figlio non diviso, ma per intero, la fraternità vostra si dia cura perché lei non trovi difficoltà nel venire e concorra attivamente perché possa presto essere qui. Si comporti nei suoi riguardi, ovunque il bisogno lo richieda, in modo che ella non avverta l'assenza di suo marito e riconosca che noi le siamo presenti per mezzo vostro in tutti i modi.
Note599 d.C., febbraio/aprile. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Giovanni era prefetto della città di Roma, carica precedentemente rivestita dallo stesso Gregorio Magno.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravenna.
Postquam gloriosissimo filio nostro Maurentio hoc apud vos solum potest sufficere, quod eum nostrum esse proprium non nescitis, qualiter ei a vobis sit concurrendum, scribere non debemus. Sed ne data occasione fraternitatem vestram in causam ipsius praetermittere videamur, latores praesentium commendantes, hortamur ut, quia eos pro percipiendo precario suo illic noscitur transmisisse, vestra ope in omnibus fulciantur.Quod ut melius praestare possitis, quia vos in multis esse non est dubium occupatos, Menam notarium, quia bene novit esse sollicitus, deputate, ut ipse eos vestro nomine in cunctis, ubi necesse fuerit, studeat adiuvare, quamquam, quid agere debeant, dato sibi capitulari, ut perhibent, sunt instructi. Cum que ergo sanctitatem vestram sua in praesenti relatione informaverint, ita vos in eius causis impendite, ut, sicut et nos de fraternitate vestra certi sumus et ille omnino confidit, vobis suffragantibus utilitas ipsius adiutore Deo salubriter peragatur.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Poiché al gloriosissimo figlio nostro Maurenzio può bastare, per raccomandarlo a voi, solo il fatto che non ignoriate che egli ci appartiene intimamente, non dovrebbe essere necessario scrivervi come dovete venirgli in aiuto. Ma perché, offrendosene l'occasione, non sembri che noi vi mettiamo da parte in una faccenda che lo riguarda, affidando alla vostra protezione i latori della presente, vi esortiamo, dal momento che egli, come si sa, li ha inviati dalle vostre parti a ricevere la sua paga, a far sì che essi siano in ogni circostanza appoggiati dal vostro favore. Perché questo sia da voi compiuto meglio, siccome non c'è dubbio che siete occupato in molte faccende, date incarico al notaio Mena, il quale sa essere molto premuroso, perché egli, a nome vostro, si studi di aiutarli in tutto, per quanto, avendo ricevuto istruzioni scritte, essi sono informati sul da farsi. Perciò, quando avranno informato la vostra santità direttamente con la loro relazione, impegnatevi nelle sue pratiche in modo che, come noi siamo certi della vostra fraternità e come egli è del tutto convinto, il suo affare sia favorevolmente portato a termine per il vostro appoggio e per l'aiuto di Dio.
Note599 d.C., aprile. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Maurenzio era “magister militum”, generale dell’esercito bizantino di stanza a Napoli, e si rivolge a Ravenna per riscuotere lo stipendio, incontrando evidentemente delle difficoltà per le quali, con Gregorio Magno, chiede l’aiuto dell’arcivescovo e di un suo notaio per fare pressione sull’esarco.
Testo originaleGregorius Theodoro curatori.
Quia de gloria vestra sicut de carissimo revera filio omnino praesumimus, certi vobis eos qui nostri sunt commendamus. Ob quam rem paterno salutantes affectu, quaesumus ut praesentium portitoribus, quos gloriosissimus Maurentius magister militum ad precarium suum accipiendum transmisit, vestram tuitionem impertire dignemini, quatenus vobis patrocinantibus nec moram illic contra rationem nec laborem debeant sustinere, sed quicquid praedicto gloriosissimo viro competit, gloriae vestrae opitulatione sine difficultate percipiant, ut et ipse vestris amplius sit devotus obsequiis et nos pro eo referre gratias, sicut dignum est, valeamus.
TraduzioneGregorio al curatore Teodoro.
Poiché confidiamo assolutamente nella vostra gloria come in un figlio davvero carissimo, raccomandiamo con sicurezza a voi quelli che ci appartengono. Perciò, salutandovi con affetto paterno, chiediamo che vi degniate di accordare la vostra protezione ai latori della presente, che il gloriosissimo Maurenzio, maestro delle milizie, ha inviati a ritirare la sua paga, in modo che, con la vostra difesa, non debbano soffrire dalle vostre parti, contro ragione, indugio e fatica, ma ricevano senza difficoltà, con l'aiuto della vostra gloria, quello che compete al predetto gloriosissimo uomo. Così egli sarà più zelante nella deferenza verso di voi e noi possiamo rendervi grazie, come si conviene, per lui.
Note599 d.C., aprile. Il curatore (“curator civitatis”) era il referente burocratico e civile di una città: Teodoro era curatore di Ravenna. Maurenzio era “magister militum”, generale dell’esercito bizantino di stanza a Napoli, e si rivolge a Ravenna per riscuotere lo stipendio, incontrando evidentemente delle difficoltà per le quali, con Gregorio Magno, chiede l’aiuto del curatore della città per fare pressione sull’esarco.
Testo originaleGregorius Mariniano archiepiscopo Ravennae.
Qualiter ordinati a nobis sacerdotis corporis, qua notum est, impediente molestia Ariminensis ecclesia pastorali hactenus sit regimine destituta, dudum fraternitas vestra cognovit. Quem dum habitatorum loci illius precibus permoti saepius hortaremur ut, si se de eadem capitis qua detinebatur molestia melioratum esse sentiret, ad suam auxiliante Domino reverteretur ecclesiam, qui datis indutiis, in hoc est quadriennio exspectatus. Quem dum nomine cleri vel civium illinc venientium nos que precibus urguentium instantius hortaremur ut, si valeret, cum eis auxiliante domino remearet, data scriptis supplicatione nos petiit ut, quia ad eiusdem ecclesiae regimen vel susceptum officium pro eadem qua detinetur molestia assurgere nullatenus posset, ecclesiae ipsi ordinare episcopum deberemus.Unde quia cunctarum ecclesiarum iniuncta nos sollicitudinis cura constringit, ne diutius gregi fidelium desit custodia pastoralis, illorum precibus huius que ex sui impossibilitate renuntiatione compulsi, visum nobis est eidem Ariminensi ecclesiae deberi episcopum ordinari, et datis ex more praeceptis clerum plebem que eiusdem ecclesiae non destitimus admonere quatenus ad eligendum sibi antistitem concordi provisione concurrant. Hortamur ergo ut fraternitas vestra eum quem uno consensu omnes elegerint, sicut et ipsi a nobis poposcisse noscuntur, ad se faciat evocari. Quem cauta ex omnibus examinatione discutite. Et si ea in eo quae in textu Eptatici morte multata sunt, minime Domino fuerint opitulante repperta atque fidelium personarum relatione eius vobis quoque vita placuerit, ad nos eum cum decreti pagina, vestrae quoque addita testificationis epistula, destinate, quatenus eidem a nobis ecclesiae disponente Domino consecretur antistes.
TraduzioneGregorio a Mariniano arcivescovo di Ravenna.
La vostra fraternità sa da qualche tempo che la Chiesa di Rimini, per l'impedimento di salute del vescovo da noi ordinato, è a tutt'oggi priva del governo pastorale. Ma mentre abbiamo spesso esortato, mossi dalle preghiere degli abitanti di quella sede, tale vescovo a tornare con l'aiuto di Dio alla sua chiesa, se avvertisse di essere migliorato quanto al fastidio che provava alla testa, egli, essendogli stato dato del tempo, si è fatto attendere in questo quadriennio. Sollecitandolo poi con maggiore insistenza a nome del clero e dei cittadini che erano venuti di lì e ci facevano premura perché, se si sentisse ristabilito, tornasse con loro, sempre con l'aiuto di Dio, egli, presentataci una petizione scritta, ci ha chiesto che, siccome non poteva in nessun modo, per il male che aveva, farcela a sostenere il governo di quella Chiesa e l'ufficio assuntosi, dovessimo ordinare un vescovo per quella Chiesa. Poiché quindi ci spinge la cura affidataci di tutte le chiese, a far sì che non manchi più a lungo al gregge dei fedeli la salvaguardia del pastore, ci è sembrato opportuno, spinti dalle preghiere di quelli e dalla rinuncia per impossibilità di questi, che si dovesse ordinare un vescovo per la Chiesa di Rimini e, date le solite disposizioni, non abbiamo cessato dall'esortare il clero e il popolo di quella Chiesa a riunirsi per eleggere concordemente il vescovo. Esortiamo quindi la vostra fraternità a convocare a sé colui che tutti avranno eletto unanimemente. Esaminatelo con prudente indagine su tutto. E se, con l'aiuto di Dio, non troverete in lui assolutamente nulla di quanto nel testo dell'Eptateuco è punito con la morte e se anche la sua vita, secondo la relazione di persone veraci, sarà di vostro gradimento, mandatelo con il testo del decreto di elezione, aggiungendovi anche la lettera della testimonianza vostra, perché sia da noi consacrato, a Dio piacendo, vescovo di quella Chiesa.
Note599 d.C., maggio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il vescovo di Rimini in questione era Castorio, che si tratteneva a Roma a causa del malessere che lo colpiva. Il vescovo di Rimini doveva essere consacrato a Roma perché la Pentapoli era ecclesiasticamente sottoposta a Roma, ma la vicinanza con Ravenna ed i buoni rapporti con l’arcivescovo lo portano a chiedergli la supervisione dell’elezione del nuovo vescovo.
Testo originaleGregorius clero et plebi consistenti Arimino.
Pastoralis nos cura constringit ecclesiis sacerdotis moderamine destitutis sollicita consideratione concurrere. Et ideo quia ecclesia vestra diu sacerdotis proprii corporis qua nostis impediente molestia pastorali est regimine destituta, vestris precibus permoti eundem episcopum non destitimus admonere ut, si ex eadem molestia se melioratum esse sentiret, ad suscepti sacerdotii debuisset ministerium remeare. Qui semel a nobis saepiusve commonitus, eadem urguente molestia, nunc scriptis nobis supplicatione porrecta noscitur intimasse nullatenus se ad regimen eiusdem ecclesiae vel susceptum officium, impediente molestia, assurgere posse. Qua personae eius desperatione compulsi necessarium duximus de ordinatione nos vestrae ecclesiae cogitare. Hortamur ergo ut uno omnes eodem que consensu, remoto strepitu, talem vobis praeficiendum eligatis auxiliante domino sacerdotem, qui et a venerandis canonibus nullatenus respuatur et tanto ministerio dignus valeat repperiri. Qui dum fuerit postulatus cum sollemnitate decreti omnium subscriptionibus roborati et visitatoris pagina prosequente ad nos veniat ordinandus, quatenus ecclesia vestra disponente Domino proprium habere valeat sacerdotem. Volumus autem ut eum quem unanimitas vestra elegerit ad fratrem et coepiscopum nostrum Marinianum Ravennae sine dilatione aliqua perducatis, ut ab eo subtiliter inquisitus atque perspectus ipsius quoque ad nos veniens testimonio roboretur.
TraduzioneGregorio al clero e al popolo di Rimini.
La cura pastorale ci costringe a venire in aiuto con sollecita attenzione alle chiese prive del governo del vescovo. E poiché la vostra Chiesa, per i disturbi di salute che conoscete del proprio vescovo, è da tempo priva della guida pastorale, mossi dalle vostre preghiere, non abbiamo desistito dall'esortare il medesimo vescovo che, se si sentisse alleggerito dal suo malessere, ritornasse al ministero sacerdotale da lui assunto. Ma egli, esortato più volte da noi, incombendo il solito malanno, ora con una petizione scritta mi ha comunicato, come si sa, di non poter assolutamente, impedendoglielo la malattia, sostenere il governo della Chiesa e l'ufficio accettato. Spinti da questa sua mancanza di fiducia, abbiamo creduto necessario pensare alla sistemazione della vostra Chiesa. Perciò vi esortiamo tutti ad eleggervi con unanime consenso, senza chiasso, un vescovo che vi sia preposto, tale che non venga in nessun modo respinto dai sacri canoni e possa essere ritenuto degno di un così alto ministero. Quando poi questi sia stato postulato, con l'ufficialità di un decreto avvalorato dalla sottoscrizione di tutti e con l'accompagnamento della lettera del visitatore, venga da noi per essere ordinato, in modo che la vostra Chiesa, per disposizione di Dio, possa avere il suo vescovo. Vogliamo poi che la persona eletta dalla vostra unanimità sia condotta, senza alcun indugio, dal nostro fratello e coepiscopo Mariniano di Ravenna, in modo che, inquisita e riconosciuta degna da questi, venga qui a noi anche con l'appoggio della sua testimonianza.
Note599 d.C., maggio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il vescovo di Rimini in questione era Castorio, che si tratteneva a Roma a causa del malessere che lo colpiva. Il vescovo di Rimini doveva essere consacrato a Roma perché la Pentapoli era ecclesiasticamente sottoposta a Roma, ma la vicinanza con Ravenna ed i buoni rapporti con l’arcivescovo lo portano a chiedergli la supervisione dell’elezione del nuovo vescovo.
Testo originaleGregorius Callinico exarcho Italiae.
Apud excellentiam vestram tanto quae nobis speranda sunt velut impetrata iam credimus, quanto et hoc quod petitur ab officio nostro non discrepat et vos inter curas fluctuationum saecularium aeternae quoque ex hoc cumulum retributionis exspectat. Harum siquidem latores de Histriae ad nos partibus venientes scismaticorum, inter quos erant positi, vitantes errorem unitatis ecclesiae subdi salubriter cupierunt. Quorum boni intentionem operis perpendentes in sinu matris ecclesiae competenti cum exhortatione suscepimus eos que nostrae desiderantes ecclesiae militare grate concessimus. Praemisso quapropter excellentiae vestrae paternae salutationis affectu, petimus ut eos pro bono desiderii sui, quo ad apostolorum principis petram solidam concurrerunt, ne fluctuantium adhuc erroribus mixti naufragium desperatae salutis incurrerent, habere dignemini commendatos, quatenus ad propria remeantes nullis propter hoc bonum, quod appetisse noscuntur, perversorum inquietudinibus perturbentur, sed magis in omnibus auxilium vestrae tuitionis inveniant, ut ex eorum quiete aliorum adhuc in scismate positorum corda flectantur atque horum per bonum vestri patrocinii provocati sequaces exsistant. Ad augmentum namque mercedis vestrae pertinet, si inter curas bellicas, sicut corpus ab exteriori hoste, sic animam ab interni insidiatoris impugnatione protegitis.
TraduzioneGregorio a Callinico esarca d’Italia.
Noi tanto più consideriamo come già ottenuto dalla vostra eccellenza ciò che dobbiamo sperare, quanto più quello che si chiede non è in disaccordo con il nostro ufficio e quanto più voi, tra le cure degli affari secolari che fluttuano, vi attendete anche da questa accondiscendenza la corona del premio celeste. I latori della presente, venendo da noi dalle zone dell'Istria, cercando di sfuggire all'errore degli scismatici, tra i quali vivevano, hanno mostrato vivo desiderio, per la loro salvezza, di essere inclusi nell'unità della Chiesa. Valutando positivamente la loro buona intenzione, li abbiamo ricevuti, con la adeguata esortazione, nel seno della madre Chiesa e abbiamo con piacere concesso loro di essere al servizio, desiderosi com'erano, di questa nostra Chiesa. Perciò, premettendo l'affettuoso paterno saluto per l'eccellenza vostra, chiediamo che vi degniate di ritenerli a voi raccomandati per la bontà del desiderio con cui hanno fatto ricorso alla solida pietra del principe degli apostoli, al fine di non incorrere, frammisti a coloro che fluttuano ancora nell'errore, nel naufragio, senza speranza di salvezza. Che non siano turbati, ritornando alle loro sedi, da nessuna inquietudine da parte dei cattivi, ma piuttosto trovino in tutto l'aiuto della vostra protezione, perché, per la loro quiete, si pieghino i cuori di altri che vivono ancora nello scisma e che, sollecitati dal bene del vostro patrocinio, diventino loro seguaci. È infatti importante per il vostro premio eterno che, tra le preoccupazioni della guerra, proteggiate l'anima dagli attacchi di chi insidia interiormente, così come proteggete il corpo dal nemico esterno.
Note599 d.C., maggio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Lo scisma citato è quello dei Tre Capitoli, molto vivo nel nord Italia e sulla costa adriatica orientale tra VI e VII sec.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravenna.
Latores praesentium de Histriae ad nos partibus venientes unitati se ecclesiae subdi auxiliante Domino cupiverunt. Quos pro sui laude desiderii cum affectu suscepimus eos que de conservatione adeptae unitatis praemissa exhortatione, nostrae quoque, sicut eorum erat desiderium, ecclesiae concessisse noscimur militare. Quos fraternitas vestra gratanter excipiat eis que opem, ut exegerint, libenter impendat, quatenus ad propria revertentes nullis ad bonum operis sui perversorum inquietudinibus fatigentur. Magis autem apud excellentissimum filium nostrum id studiosius peragitis, ut suis illos iussionibus apud eos quorum illic interest securos in omnibus reddat, ut horum quiete aliorum quoque adhuc in scismate positorum animi ad conversionis gratiam provocentur.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
I latori della presente, venendo a noi dalle zone dell'Istria, si sono mostrati disposti, con l'aiuto di Dio, a sottomettersi all'unità della Chiesa. E noi, lodando il loro desiderio, li abbiamo accolti con affetto e, dopo averli esortati a conservare la recuperata unità, abbiamo concesso loro, come essi desiderano, di servire la Chiesa. La fraternità vostra quindi li accolga con gioia e presti volentieri loro l'aiuto di cui hanno bisogno, di modo che tornando alle loro case non siano infastiditi in nessun modo per il bene che hanno compiuto. Piuttosto impegnatevi molto presso l'eccellentissimo nostro figlio, l'esarca [Callinico], affinché con le sue disposizioni li renda in ogni modo sicuri presso coloro che dalle vostre parti sono interessati e così, per il fatto che essi godono pace, anche gli animi di quanti rimangono ancora nello scisma siano sollecitati a chiedere la grazia della conversione.
Note599 d.C., maggio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Lo scisma citato è quello dei Tre Capitoli, molto vivo nel nord Italia e sulla costa adriatica orientale tra VI e VII sec.
Testo originaleGregorius Constantio episcopo Mediolanensi.
Maximus Salonitanae ecclesiae praevaricator, postquam per potestates maiores saeculi obtinere nihil valuit, ad minores sese contulit nobis que nimietate precum quam attestatione bonorum operum praevalere contendit. Ex qua re inhumanum credidi, si is qui se quasi multum timere me dicit in aliquo me temperatiorem minime invenire potuisset. Et ideo decrevi ut reverentissimus frater et coepiscopus noster Marinianus eius causam debeat in Ravennati urbe cognoscere. Si autem persona eius suspecta forsitan habetur, volumus ut vestra quoque fraternitas, si ei laboriosum non est, ad eandem civitatem fatigare se debeat et cum praedicto fratre in eodem iudicio pariter sedere. Quicquid autem vestrae utrorumque sanctitati placuerit, scitote mihi modis omnibus placiturum; et vestrum ego iudicium meum deputo, et quae utrique vos relaxanda esse censetis, me relaxare certum tenete, hoc tamen sollicite pensantes ne aut cum peccato remissi aut cum iniuria sanctae ecclesiae esse videamur. Huius autem causae exsecutionem Castorio cartulario iniunximus, ut ipse nobis debeat cuncta quae acta fuerint subtiliter nuntiare.
TraduzioneGregorio a Costanzo vescovo di Milano.
Massimo, usurpatore della Chiesa di Salona, dopo che non ha potuto ottenere nulla da quelli che sono più potenti nel mondo, si è rivolto agli inferiori e cerca di prevalere su di me più con le suppliche che con la testimonianza della buona condotta. Perciò mi è sembrato inumano che colui il quale dice a parole di temermi molto non mi trovasse poi in qualche cosa più moderato. Ho stabilito quindi che il reverendissimo fratello e coepiscopo nostro Mariniano dovesse celebrare la sua causa nella città di Ravenna. Se per caso poi la sua persona dovesse essere ritenuta sospetta, vogliamo che anche la vostra fraternità, se non le costa fatica, debba andare nella stessa città e sedere in tribunale con il predetto fratello per la stessa causa. Tutto ciò che piacerà alla santità di voi due sappiate che sarà in ogni modo gradito a me; reputo mio il vostro giudizio e ciò che voi due crederete doversi perdonare, tenete per certo che lo perdono io, badando tuttavia a questo: che non sembriamo deboli di fronte al peccato e all'oltraggio recato alla santa Chiesa. L'esecuzione di tale causa l'abbiamo rimessa al cartulario Castorio, che ci deve riferire minutamente tutto ciò che è stato compiuto.
Note599 d.C., maggio. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai protagonisti della presente missiva. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il notaio, qui “cartularius”, responsabile della redazione dei documenti, Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Andreae scolastico.
Qualiter de gloriae vestrae debeamus sinceritate praesumere, cognitae devotionis qualitas, quam beato Petro apostolorum principi olim exhibuistis, ostendit. Cuius licet causis mente vos adesse promptissima confidamus, non tamen ab re est, si ea quae sponte agitis nostra ex abundanti epistula deposcamus. Atque ideo salutantes paternae caritatis affectu, petimus ut, quia latorem praesentium Castorium cartularium nostrum pro necessariis illic causis transmisimus, vestra in eum ope in omnibus adiuvetis atque illi bonitatis vestrae consilio, quocumque necesse fuerit, concurratis, quatenus fultus christianitatis vestrae solacio ad explenda quae sibi iniuncta sunt sollers possit et idoneus inveniri. Sic etenim et vos quae vestra sunt facitis et nos pro vobis enixius orare compellitis. Omnipotens Deus gratiae suae vos tuitione praemuniat et ita actus vestros in suo, sicut desideratis, propitius timore disponat, ut et hic a malis omnibus exuat et ad gaudia vos aeterna perducat.
TraduzioneGregorio allo scolastico Andrea.
La tempra della devozione che noi conosciamo e che avete già mostrata verso san Pietro, principe degli apostoli, ci indica come dobbiamo far conto sulla purezza della vostra gloria. Ma per quanto confidiamo che voi, con animo quanto mai disposto, prestate assistenza alle cause dell'apostolo, tuttavia non è fuori di proposito se chiediamo, ad abbondanza, con una nostra lettera, ciò che fareste spontaneamente. Perciò, salutandovi con paterno affetto, chiediamo che, avendo mandato da voi il nostro cartulario Castorio, latore della presente, per alcune commissioni necessarie, lo aiutiate in tutto con il vostro potere e, in qualsiasi modo sia necessario, gli veniate incontro con i suggerimenti della vostra bontà, in quanto, forte dell'appoggio della vostra cristianità, possa essere pronto e capace di fare ciò che gli è stato comandato. Così voi fate la parte vostra e noi siamo obbligati a pregare più ardentemente per voi. Dio onnipotente vi premunisca con la protezione della sua grazia e disponga benevolmente le vostre azioni, come desiderate, nel suo timore, in modo che vi liberi qui in terra da tutti i mali e vi conduca ai gaudi eterni.
Note599 d.C., maggio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche lo “scolasticus”, esperto/consulente di diritto, Andrea. Il notaio, qui “cartularius”, responsabile della redazione dei documenti, Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius habitatoribus insulae Capreae Histriae provinciae.
Redemptor noster Dei hominum que mediator condicionis humanae non immemor sic imis summa coniungit, ut ipse in aeternitate permanens ita temporalia occulto instinctu pia consulens moderatione disponat, quatenus de eius manu antiquus hostis nullatenus rapiat, quos ante saecula intra sinum matris ecclesiae coadunandos esse praescivit. Nam etsi quisquam eorum inter quos corporaliter deget flatibus motus ad tempus ut palmis titubat, radix tamen rectae fidei, quae ex occulto prodit, divino iudicio virens manet, quae accepto tempore fructum de se ostentare valeat qui latebat. Quod in vobis nunc ex desiderio vestro gestum esse superni respectus illustratione cognoscimus, qui scismaticorum, inter quos habitatis, pertinaciam refutantes coadunari ovili dominico mente promptissima ipsa rei operatione monstratis. Quibus enim scissura displicet, sanos velle se esse testantur, et reprobantes errorem ostenditis vos amare quod rectum est, vitare quod devium. Hinc est quod nos et vestra dudum directa petitio et latorum praesentium responsalium vestrorum salubria postulantium laetificavit adventus, per quos significastis vos et devios reprobare gressus errantium et rectum salutis iter quaerere, per quod unitati vos sanctae ecclesiae reformantes ad retributionem bene operantium, quae intra eius sinum constitutis est debita, tenderetis. Unde sic laudabilem vestrae que in aeternum animae profuturam voluntatem vestram cum omni gaudio sumus libenter amplexi, hoc cum Domini auxilio disponentes ut, siquidem episcopus, quem vobis in vestra reformari petiveratis ecclesia, ab scismaticorum lapsu se segregans ecclesiae voluerit unitati coniungi, fratri et coepiscopo nostro Mariniano evidenter scripsimus, qualiter petitionem vestram ex nostra auctoritate debeat confirmare; sin vero, quod optandum a nobis non est, ab illorum se noluerit scismate separare, idem quomodo vestra ecclesia proprium habere valeat sacerdotem, praedicto fratri et coepiscopo nostro scripsimus, quatenus in utroque et pia mentis vestrae devotio sortiatur effectu et grex dominicus contra insidiantis inimici iacula sit securus.
TraduzioneGregorio agli abitanti dell’isola di Caorle della provincia d’Istria.
Il Redentore nostro, mediatore tra Dio e gli uomini, non dimentico della condizione umana, congiunge ciò che è più basso e ciò che è più alto in modo tale che egli, rimanendo immobile nella sua eternità, dispone, per ispirazione occulta e provvedendo con benevola moderazione, le cose temporali in maniera che l'antico avversario non gli strappi di mano coloro che ha stabilito prima dei secoli doversi radunare nel seno della madre Chiesa. Infatti, sebbene qualcuno di coloro in mezzo ai quali il Redentore vive corporalmente, mosso dal soffio dei venti, vacilla come palma per qualche tempo, tuttavia la radice della vera fede, che avanza di nascosto, si conserva per giudizio divino rigogliosa e nel tempo opportuno è capace di mostrare il suo frutto che rimaneva celato. Questo riconosciamo, per divina illuminazione, che si è compiuto in voi con il desiderio da voi espresso in quanto, rifiutando l'ostinazione degli scismatici in mezzo ai quali abitate, mostrate con i fatti di unirvi con cuore quanto mai disponibile all'ovile del Signore. Coloro invero ai quali dispiace la divisione, dimostrano di voler essere sani e incorrotti, così voi, riprovando l'errore, manifestate di amare ciò che è retto, di evitare ciò che devia. Da ciò deriva che noi siamo stati allietati e dalla vostra recente richiesta a noi diretta, e dall'arrivo dei vostri rappresentanti, i quali domandano ciò che conduce alla salvezza. Per mezzo loro avete mostrato di voler disapprovare i passi devianti di quelli che camminano fuori strada e di ricercare la retta via della salvezza, per la quale, ritornando all'unità della santa Chiesa, tendete a raggiungere la retribuzione ottenuta da coloro che operano il bene e che è dovuta a quelli che si trovano nel seno, appunto, della Chiesa. Perciò abbiamo recepito volentieri e con grande gaudio il vostro desiderio tanto lodevole e che gioverà in eterno alla vostra anima, disponendo con l'aiuto di Dio che se mai il vescovo, che voi avevate chiesto che fosse restituito alla vostra Chiesa, vorrà, prendendo le distanze dalla caduta degli scismatici, essere congiunto con l'unità della Chiesa, faccia quanto abbiamo scritto chiaramente al fratello e coepiscopo nostro Mariniano, il quale deve dar corso, per la nostra autorità, alla vostra richiesta; se poi — ciò che non ci auguriamo — il vostro vescovo non vorrà separarsi dagli scismatici, abbiamo scritto ugualmente al predetto fratello e coepiscopo nostro, come la vostra Chiesa possa avere un proprio vescovo. Così nell'uno e nell'altro caso la pia disposizione della vostra mente si realizzerà e il gregge del Signore sarà al sicuro contro i dardi del nemico che insidia.
Note599 d.C., maggio. Lo scisma citato è quello dei Tre Capitoli, molto vivo nel nord Italia e sulla costa adriatica orientale tra VI e VII sec. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C.
Testo originaleGregorius Callinico exarcho Italiae.
Inter hoc, quod mihi de Sclavis victorias nuntiastis, magna me laetitia relevatum esse cognoscite, quod latores praesentium de Capritana insula unitati sanctae ecclesiae coniungi festinantes ad beatum Petrum apostolorum principem ab excellentia vestra transmissi sunt. In hoc enim contra hostes vestros amplius praevaletis, si eos quos dei hostes agnoscitis sub iugo veri domini revocatis tanto que vestras causas apud homines fortiter agitis, quanto dei causas in hominibus sincera ac devota mente feceritis.
Quod autem exemplar iussionis quae ad vos pro scismaticorum defensione transmissa est mihi ostendi voluistis, pensare sollicite dulcissima mihi vestra excellentia debuit quia, quamvis iussio ipsa subrepta est, non tamen in ea vobis praeceptum est ut venientes ad unitatem ecclesiae repellatis, sed ut venire nolentes hoc incerto tempore minime compellatis. Unde necesse est ut haec ipsa piissimis imperatoribus nostris suggerere festine debeatis, quatenus cognoscant quod eorum temporibus scismatici cum omnipotentis Dei solacio et labore vestro sua sponte reverti festinant.
Quae autem de insulae Capritanae ordinatione decreverim, per reverentissimum fratrem et coepiscopum meum Marinianum vestra excellentia agnoscit. Illud vero cognoscite quia me non modice contristavit, quod maior domi, qui petitionem episcopi volentis reverti suscepit, eam se perdidisse professus est, et postmodum ab adversariis ecclesiae tenebatur. Quod ego non neglegentia sed venalitate eius factum arbitror. Unde miror quia in eos culpam hanc minime vestra excellentia vindicavit. Sed tamen quia hoc miratus sum, memetipsum citius reprehendi. Nam ubi domnus Iustinus consilium praebet, qui pacem cum catholica ecclesia non habet, ibi non possunt haeretici addici.
Praeterea sancti Petri apostolorum principis natalicium diem in Romana civitate vos facere velle perhibetis. Et oramus omnipotentem Dominum ut sua vos misericordia protegat et vota vestra vos implere concedat. Sed praedictus vir eloquentissimus peto ut simul veniat. Qui si non venerit, a vestris obsequiis recedat. Vel certe, si vestra excellentia fortasse emergentibus causis venire nequiverit, ipse aut sanctae ecclesiae unitati communicet, aut peto ut vestrorum consiliorum particeps non sit. Bonum enim virum audio, si pessimi non esset erroris.
De causa vero Maximi, quia importunitatem dulcedinis vestrae iam ferre non possumus, quid decrevimus Castorio notario suggerente cognoscitis.
TraduzioneGregorio a Callinico esarca d’Italia.
Sappiate che quanto mi avete annunziato delle vittorie sugli Slavi mi ha fatto trasalire per la grande gioia. A questo si aggiunge che i latori della presente lettera provenienti dall'isola di Caorle e che si affrettano a congiungersi nell'unità della santa Chiesa, sono stati inviati a san Pietro principe degli apostoli dalla eccellenza vostra. Voi infatti prevalete contro i vostri nemici nella misura in cui richiamate sotto il giogo del vero Signore coloro che riconoscete essere nemici di Dio e trattate con vigore tanto maggiore le vostre imprese presso gli uomini, quanto più con cuore sincero e devoto operate nelle cause di Dio fra gli uomini.
Quanto poi al fatto che mi avete voluto mostrare copia dell'ordine imperiale che vi è stato inviato in difesa degli scismatici, la vostra dolcissima eccellenza doveva con cura pensare che, quantunque quest'ordine è stato estorto, in esso tuttavia non vi è prescritto che respingiate quelli che vengono spontaneamente all'unità, ma che non costringiate assolutamente in questo periodo incerto quelli che non vogliono venire. Perciò è necessario che queste cose le diciate subito al nostro piissimo imperatore [Maurizio], in quanto sappia che ai suoi tempi gli scismatici, con l'aiuto di Dio onnipotente e per la vostra fatica, si affrettano a tornare spontaneamente alla Chiesa.
Quello poi che ho disposto circa la sistemazione dell'isola di Caorle, la vostra eccellenza lo può conoscere per mezzo del reverendissimo fratello e coepiscopo mio Mariniano. Sappiate inoltre che sono rimasto contristato non poco per il fatto che il vostro maggiordomo, il quale aveva ricevuto la petizione del vescovo che voleva tornare all'unità della Chiesa, avesse confessato di averla perduta, mentre dopo si è trovata in mano agli avversari. Ciò io penso che sia avvenuto non per negligenza, ma per venalità. Perciò mi meraviglio che la vostra eccellenza non ha minimamente punito questa colpa in essi. Tuttavia mi sono subito ripreso di essermi meravigliato. Infatti, dove a consigliare è Giustino, che non è in pace con la Chiesa cattolica, gli eretici non possono essere accusati.
Inoltre ci mostrate il desiderio di passare in Roma il giorno natalizio di san Pietro, principe degli apostoli. E noi preghiamo Dio onnipotente che vi protegga con la sua misericordia e vi conceda di realizzare i vostri desideri. Ma chiedo che venga assieme il predetto eloquentissimo uomo, Giustino. Che se questi non viene, si allontani dal vostro servizio. Anzi, se la vostra eccellenza, per l'incalzare delle faccende, non potrà venire, egli o si metta da sé in comunione con la santa Chiesa, o chiedo che non sia a parte dei vostri progetti. Sento dire che sarebbe un buon uomo, se non fosse pessimo il suo errore.
Quanto alla causa di Massimo [di Salona], poiché non possiamo ancora sostenere la pressante sollecitazione della vostra dolcezza, potete conoscere dalla relazione del notaio Castorio ciò che abbiamo stabilito.
Note599 d.C., maggio. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Regno di Maurizio: 582-602 d.C. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco. Gli Slavi erano stati sconfitti nei Balcani dall’imperatore Maurizio e, essendo autori di razzie nelle Venezie, Istria e Dalmazia, affrontati e sconfitti anche dall’esarco Callinico. Lo scisma citato è quello dei Tre Capitoli, molto vivo nel nord Italia e sulla costa adriatica orientale tra VI e VII sec. Festa di S. Pietro apostolo: 29 giugno. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai citati vescovi di Ravenna e Milano. Il notaio Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Latores ad nos praesentium ille vir clarissimus atque ille defensor venerunt, asserentes quia in castello quod Novas dicitur episcopus quidam Iohannes nomine de Pannoniis veniens fuerit constitutus, cui castello eorum insula quae Capritana dicitur erat quasi per diocesim coniuncta. Adiungunt autem quod, eodem episcopo violenter ab Histrico episcopo expulso, alius illic fuerit ordinatus. De quo tamen hoc placuisse referunt ut non in praedicto castro sed in sua insula habitare debuisset. Qui dum illic cum eis degeret, in errore se scismatis detinere noluit atque cum omni plebe sua excellentissimo filio nostro Callinico exarcho petitionem dedit, ut catholicae ecclesiae cum omnibus qui cum ipso erant, sicut praediximus, uniri debuisset. Qui, ut aiunt, a scismaticis persuasus post semetipsum rediit, et nunc omnis ille populus qui in praedicta insula consistit sacerdotis protectione privatus est, quia, dum sanctae ecclesiae uniri desiderat, illum iam recipere non potest, qui in scismaticorum errore reversus est, et petunt sibi ordinari alium debere. Sed nos, quia cuncta necesse est districte ac subtiliter perscrutare, hoc ordinandum esse praevidimus, ut fraternitas tua ad eundem episcopum mittat eumque reverti ad ecclesiae catholicae unitatem et ad propriam plebem admoneat. Qui si admonitus redire contempserit, grex Dei decipi non debet in errore pastoris. Et idcirco sanctitas tua illic episcopum ordinet eandemque insulam in sua diocesi habeat, quousque ad fidem catholicam Histrici episcopi revertantur, ut et unicuique ecclesiae sua dioceseos iura servemus et destituto a pastore populo non desit protectio et cura regiminis. In his tamen omnibus fraternitatem tuam decet sollicite vigilare, ut plebs eadem quae ad ecclesiam venit studiosius admoneatur quatenus constanter in sua reversione fixa sit, ne vagis cogitationibus in erroris iterum fovea relabatur. Excellentissimum vero exarchum petere studeat ut haec ipsa suis suggestionibus piissimis imperatorum auribus innotescat, quia, quamvis iussio, quae ad eum delata est, subrepta esse videatur, non tamen in ea iussione ei praeceptum est ut volentes ad ecclesiam non permittat redire, sed ut invitos hoc incerto tempore minime compellat. Huius ergo causae ordinationem in sua cura praedictus filius noster suscipiat, quatenus suis responsis agat, ut, quicquid ordinaverit, dubium non fiat. Quod tamen et nos communi filio Anatolio scripsimus, ut haec piissimis principibus subtiliter innotescat.
Excellentissimi filii mei domni callinici exarchi assidue et importune pro persona Maximi scripta suscepi. Cuius importunitate victus nihil habui quod amplius facere debuissem, nisi ut eiusdem Maximi causam tuae fraternitati committerem. Si igitur ad fraternitatem vestram venerit isdem Maximus, deducatur et Honoratus ecclesiae eius archidiaconus, et cognoscat sanctitas tua, si recte ordinatus est, si in simoniaca haeresi lapsus non est, si ei de criminibus corporalibus nihil obviat, si se non cognovit excommunicatum, quando missas facere praesumpsit. Et quicquid sub timore Dei tibi visum fuerit, decerne, ut nos dispositioni tuae consensum deo auctore praebeamus. Si autem tuam fraternitatem suspectam praedictus filius noster habuerit, etiam reverentissimus vir frater noster Constantius Mediolanensis episcopus Ravenna veniat, te cum resideat, et de eadem causa pariter decernite et, quod utrisque vobis placuerit, mihi placiturum esse certum tenete. Sicut enim obstinati esse humilibus non debemus, ita districti exsistere superbis debemus. Vestra ergo fraternitas, sicut scripturae sacrae paginis didicit, quicquid iustum perpenderit, in eius negotio decernat.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Sono venuti qui da noi il chiarissimo [...] e il difensore [...], notificandoci che nel castro chiamato Città Nuova è stato insediato un vescovo di nome Giovanni proveniente dalla Pannonia e che a questo castro era unita, quasi in un'unica circoscrizione ecclesiastica, la loro isola detta Caorle. Aggiungono poi che, essendo stato questo vescovo espulso da un vescovo dell'Istria, ne fu ordinato un altro. A riguardo di questi dicono che avrebbe voluto abitare non nel predetto castro, ma nella loro isola. Inoltre egli, stando ivi a contatto con loro, non volle perseverare nell'errore dello scisma ma, con tutto il suo popolo presentò all'eccellentissimo nostro figlio, l'esarca Callinico, una petizione, per unirsi, come abbiamo detto, con tutti i suoi fedeli, alla Chiesa cattolica. Ma poi egli, come riferiscono i due, persuaso dagli scismatici, ritornò su se stesso. Ora, tutto quel popolo che abita nella predetta isola è privo della protezione di un vescovo cattolico, perché, desiderando unirsi alla santa Chiesa, non può accettare più lui che è ritornato nell'errore degli scismatici e chiede che gli debba essere ordinato un altro vescovo. Ma noi, poiché è necessario che tutto sia esaminato con rigore e minuzia, abbiamo pensato di dover ordinare che la fraternità tua mandi qualcuno a questo vescovo che lo esorti a ritornare alla Chiesa cattolica e al proprio popolo. Se egli, dopo l'esortazione, ricusa di ritornare, il gregge di Dio non deve essere irretito nell'errore del pastore. Perciò la santità tua ordini ivi un vescovo e tenga quell'isola nella sua circoscrizione ecclesiastica, fino a quando i vescovi dell'Istria non ritornino alla fede cattolica, affinché attribuiamo a ciascuna chiesa i propri diritti diocesani e al popolo privo del pastore non manchi la protezione e la cura della guida. Tuttavia, in tutta questa vicenda bisogna che la fraternità tua vigili con sollecitudine perché questo popolo che è tornato alla Chiesa sia esortato con cura a rimanere fermo nella sua conversione e a non ricadere, per la labilità dei pensieri, nella fossa dell'errore. La tua santità poi si dia cura di sollecitare l'eccellentissimo esarca [Callinico] a comunicare con un suo rapporto al piissimo imperatore [Maurizio] questi fatti, dal momento che, quantunque l'ingiunzione imperiale che gli è stata comunicata sembri essere stata estorta all'imperatore, in essa tuttavia non è comandato che non si permetta di ritornare alla Chiesa a quelli che lo vogliano, ma che non si costringa in nessun modo, in un tempo incerto come il nostro, quelli che rifiutano di tornare. Il predetto nostro figlio, l'esarca, prenda sotto la sua cura la conduzione di questa vicenda, in modo che nella sua relazione faccia sì che non ci sia dubbio su quello che ha fatto. Tuttavia anche noi abbiamo scritto al comune figlio Anatolio perché notifichi minutamente al piissimo principe queste cose.
Ho ricevuto gli scritti inviatimi ripetutamente e in modo inopportuno dall'eccellentissimo figlio mio, il signor Callinico, esarca, a difesa della persona di Massimo. Vinto dalla sua inopportunità, non ho potuto fare altro che affidare alla tua fraternità la causa di questo Massimo. Se, quindi, si presenta alla tua fraternità Massimo, sia condotto anche Onorato, arcidiacono della sua Chiesa, e la santità tua cerchi di conoscere se è stato ordinato secondo i canoni, se non è caduto nell'eresia di simonia, se non gli sia di impedimento nessun peccato carnale, se non sapeva di essere scomunicato, quando ha osato celebrare la Messa. E decidi tutto quello che ti sembrerà opportuno sotto l'azione del timore di Dio, affinché noi, con l'aiuto di Dio, possiamo prestare il consenso a quanto disporrai. Se poi il predetto figlio nostro, l'esarca, riterrà sospetta la vostra fraternità, venga a Ravenna anche il reverendissimo nostro fratello Costanzo, vescovo di Milano, sieda in giudizio con te e tutti e due giudicate ugualmente della stessa causa e ritenete per certo che a me piacerà ciò che sarà piaciuto a voi due. Come, infatti, non dobbiamo essere ostinati con gli umili, così dobbiamo essere severi con i superbi. La tua fraternità, quindi, come ha appreso a fare dalle sacre Scritture, stabilisca quello che crederà giusto nella vicenda di quest'uomo.
Note599 d.C., maggio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Regno di Maurizio: 582-602 d.C. Lo scisma citato è quello dei Tre Capitoli, molto vivo nel nord Italia e sulla costa adriatica orientale tra VI e VII sec.: per l’adesione del patriarca Severo di Aquileia (in esilio a Grado) allo scisma, papa Gregorio distacca temporaneamente Caorle dall’arcidiocesi aquileiese per affidarla a quella ravennate. Anatolio era il rappresentante ufficiale di Gregorio Magno a Costantinopoli. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai citati vescovi di Ravenna e Milano.
Testo originaleGregorius Castorio notario nostro Ravenna.
Dum Florentinus Ravennatis ecclesiae diaconus apud nos pro reverentissimo fratre et coepiscopo nostro Mariniano de usu pallii ageret, requisitus a nobis, quae esset antiqua consuetudo, respondit quod in omnibus letaniis pallio Ravennas episcopus uteretur. Quod ita non esse et ab aliis didicimus et ex epistulis Iohannis quondam episcopi, quas ei ostendi fecimus, evidenter apparuit. Sed hoc asservit, quod dicere iussus est. Nam tempore quo a te isdem Iohannes quondam episcopus est inhibitus, ne pallio inordinate ac temere uti praesumeret, scripsit nobis hanc fuisse priscam consuetudinem, ut civitatis ipsius episcopus pallio in letaniis sollemnibus uteretur. Quarum tibi litterarum exemplaria pro tua informatione transmisimus. Adeodatus vero praedictae ecclesiae diaconus dum apud nos tempore quo hic fuit similiter de eiusdem usu pallii agere enixius studeret, volentes cognoscere veritatem, eum similiter quae esset consuetudo curavimus requirendum. Qui ut credi sibimet suaderet atque a nobis valeret quod petebat exigere, sub iureiurando testatus est antiquam consuetudinem fuisse, ut in quattuor aut quinque sollemnibus letaniis pallio civitatis suae episcopus uteretur. Experientia ergo tua diligenter invigilet et cum omni sollicitudine quot letaniae sollemnes ab antiquitate fuerint requirat. Nec eas sollemnes nominando requirere studeat sed maiores, ut per hoc quod nobis praefatus Adeodatus diaconus testatus est et praedicti Iohannis episcopi fatetur epistula, dum constiterit quantae letaniae sollemnes fuerint, quotiens indui solebat in letaniis pallium cognoscentes, libentissime concedamus. Sed hoc non ab illis perquirat, qui ab ecclesiasticis exhibentur, sed ab aliis, quos sine favore partis esse cognoscit, et quaeque sollicita indagatione reppererit, nobis subtiliter indicet, ut veritate, sicut diximus, cognita fratris et coepiscopi nostri reverentissimi Mariniani animos relevemus.
TraduzioneGregorio al nostro notaio Castorio a Ravenna.
Mentre Fiorentino, diacono della Chiesa di Ravenna, trattava con noi dell'uso del pallio in favore del reverendissimo fratello e coepiscopo nostro Mariniano, richiesto da noi quale fosse l'antica consuetudine al riguardo, rispose che il vescovo di Ravenna usava il pallio in tutte le litanie. Ma che ciò non fosse apparve evidente e da quanto ci dissero gli altri e dalle lettere del defunto vescovo Giovanni che gli facemmo vedere. Ma poi confessò che gli era stato comandato di dire così. Infatti, nel tempo in cui al medesimo defunto Giovanni fu da te impedito che osasse indossare irregolarmente e alla leggera il pallio, egli ci scrisse che questa era l'antica consuetudine, che cioè il vescovo di quella città usasse il pallio nelle litanie solenni. E noi ti inviammo per tua informazione copia di questa lettera. Quanto poi ad Adeodato, diacono della suddetta Chiesa che, nel tempo in cui fu qui, si diede da fare con grande premura ugualmente sull'uso del pallio, cercammo di chiedergli allo stesso modo, per conoscere la verità, quale fosse l'uso di Ravenna. Ed egli, per convincerci a credergli e per ottenere da noi ciò che chiedeva, con giuramento attestò che l'antica consuetudine fosse stata quella per cui il vescovo della sua città indossasse il pallio nelle quattro o cinque litanie solenni. La tua esperienza quindi stia diligentemente attenta e ricerchi con tutta sollecitudine quante litanie solenni vi furono nei tempi passati. Nell'indagine non parli però di litanie solenni, ma maggiori, affinché conoscendo, per mezzo di quello che ci ha attestato il predetto diacono Adeodato e ci dice la lettera del vescovo Giovanni, che le litanie solenni corrispondono in numero alle volte in cui in esse si soleva indossare il pallio, noi accediamo molto volentieri alla richiesta dei ravennati. Ma questo non lo chieda a coloro che vengono indicati dagli ecclesiastici, ma ad altri, che conosce non essere di parte e ci indichi minutamente quanto avrà appurato con premurosa indagine perché, saputa, come abbiamo detto, la verità, solleviamo l'animo del reverendissimo coepiscopo nostro Mariniano.
Note599 d.C., giugno. Il notaio Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Episcopato di Giovanni II di Ravenna, predecessore di Mariniano: 578-595 d.C. La lettera riguarda il corretto uso del pallio, un mantello sacerdotale, concesso nel 569 all’arcivescovo di Ravenna da papa Giovanni III (pontificato: 561-574 d.C.). Il diacono di Ravenna Fiorentino nel 604 d.C. sarà eletto vescovo di Ancona.
Testo originaleGregorius Castorio notario nostro.
Experientiae tuae in praesenti nos recolis praecepisse ut de possessione, quae monasterio sanctorum Marci, Marcellini et Feliculae, quod Ravennae situm est, largitatis titulo dicitur esse concessa, quia causam bene nosti, debuisses quod iustum est facere. Pro qua re hac te iterum praeceptione duximus commonendum ut in re ipsa vigilans esse debeas atque sollicitus. Et si manifeste donatum esse cognoveris et nihil est, quod a partibus nostrae obici possit ecclesiae, impedimentum aliquod monasterio ad tenendam ipsam possessionem non facias. Si vero, quia, sicut diximus, causa tibi bene est cognita, habes quod iuste pro ecclesiae nostrae possit partibus allegari, electorum te cum parte altera necesse est subire iudicium, ut et veritas cognosci et, quod aequitatis ordo suaserit, valeat definiri.
TraduzioneGregorio al nostro notaio Castorio.
Tu ricordi che di persona ti abbiamo ordinato che quanto alla proprietà che si dice essere stata concessa a titolo di liberalità al monastero dei Santi Marco, Marcellino e Felicula che sorge a Ravenna, tu dovessi fare, dal momento che ne conosci bene la causa, ciò che è giusto. Su questa faccenda abbiamo pensato, con la presente disposizione, di raccomandarti di nuovo di essere vigile e sollecito. Se appurerai chiaramente che il bene è stato donato e che non c'è nulla che da parte della nostra Chiesa possa essere obbiettato, non frapporre impedimenti a che il monastero detenga tale proprietà. Se poi, dal momento che tu conosci bene, come abbiamo detto, la causa, hai qualcosa che può essere addotto da parte della nostra chiesa, bisogna che tu e l'altro litigante affrontiate la sentenza dei giudici elettivi, affinché possa essere conosciuta la verità e si possa stabilire ciò che detta l'ordine della giustizia.
Note599 d.C., giugno/luglio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza del notaio Castorio, “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Il monastero di SS. Marco, Marcello e Felicula, titolari di una cappella esterna alla basilica di S. Apollinare in Classe, risulta fondato da Giovanni II (episcopato: 578-595 d.C.), ma non più nominato dopo gli inizi del VII sec. e forse assorbito dal cenobio di S. Apollinare, attestato a partire dal 731 d.C.
Testo originaleGregorius Domnello erogatori.
In nostra mente vestra magnitudo quantae sit dulcedinis vestra, ut suspicor, mente pensatis, quia, ut sicut scriptum est; amat anima amentem se. Ideo quod me diligitis, vos quoque a me diligi scitis. Et quod prius illuc Castorio cartulario nostro veniente vobis minime scripsi, non torporis fuisse credite sed aegritudinis et occupationis. Nam nos et praesentes vos videre cupimus et absentibus colloqui saltem per epistulam desideramus. Unde et optamus ut vos beatus Petrus apostolorum princeps ad sua limina io feliciter perducat, quatenus in omnipotentis Dei gratia perfrui praesentia vestra mereamur.
TraduzioneGregorio all’erogatore Donnello.
Quanto sia dolce al nostro cuore la vostra grandezza lo potete misurare, penso, dal vostro animo, perché, come è stato scritto, l'anima ama chi l'ama. Proprio perché mi amate, voi sapete di essere amato anche da me. Il fatto che non vi abbia scritto prima, quando è venuto costi il nostro cartulario Castorio, è motivato, credetemi, non da svogliatezza, ma da malattia e dal gran da fare. Noi, infatti, vogliamo ardentemente vedervi presente, e, quando siete assente, desideriamo intrattenerci con voi almeno per lettera. Per questo ci auguriamo che San Pietro, principe degli apostoli, vi conduca felicemente al suo sepolcro e alla sua basilica, perché possiamo godere per la grazia di Dio onnipotente della vostra presenza.
Note599 d.C., luglio. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche l’”erogator”, il responsabile delle paghe dei soldati, Donnello. Il notaio, qui “cartularius”, responsabile della redazione dei documenti, Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Maximo episcopo Salonitano.
Quamvis culpabilibus ordinationis tuae primordiis gravem aliam per inoboedientiam culpam addideris, nos tamen sedis apostolicae auctoritatem eo quo decuit moderamine temperantes numquam contra te usque ad hoc quod causa poscebat exarsimus. Sed ut longius se ingratitudo nostra, quam tu tibi excitasti, produceret, credita nos sollicitudo vehementer angebat, ne quaedam illicita, quae de te audieramus, neglegenter omittere videremur. Quae si bene consideres, ipse paene, satisfacere differendo, firmabas atque ex hoc adversum te zelum nostrum acrius incitabas. At ubi salubri tandem consilio usus iugo te oboedientiae humiliter summisisti et dilectio tua paenitentiam agens digna se, ut deputavimus, satisfactione purgavit, redditam tibi gratiam fraternae caritatis intellege atque in nostro te receptum consortio gratulare, quia, sicut perseverantibus in culpa districtos, ita resipiscentibus nos benignos esse decet ad veniam. Postquam ergo fraternitas tua apostolicae sedis communionem se reparasse cognoscit, personam ad nos transmittat, quae pallium tibi deferendum ex more percipiat. Nam quemadmodum illicita perpetrari non patimur, sic quae sunt consuetudinis non negamus. Licet autem ad haec concedenda dispensatio nos loci nostri vocaverit, multum tamen a nobis petitio dulcissimi atque excellentissimi filii nostri domni Callinici exarchi, ut temperantius erga te ageremus, exegit. Cuius carissimam voluntatem nec pertulimus nec potuimus contristare.
TraduzioneGregorio a Massimo vescovo di Salona.
Per quanto tu avessi aggiunto alle colpe commesse alle origini della tua ordinazione un'altra grave colpa con la disobbedienza, noi tuttavia, moderando nel modo in cui era conveniente l'autorità della Sede apostolica, non ci siamo lasciati mai trasportare dall'ira contro di te fino al punto richiesto dalla situazione. Ma la sollecitudine per il compito a noi affidato ci spingeva in modo molto vivo a protrarre più a lungo il nostro disappunto che tu suscitasti contro di te, perché non sembrassimo trascurare per negligenza alcune illiceità di cui avevamo sentito parlare nei tuoi riguardi. Se consideri bene queste cose, tu stesso, differendo l'espiazione, in certo modo le confermavi e accendevi più ardentemente la nostra collera contro di te. Ma dal momento che con salutare determinazione ti sei sottomesso umilmente al giogo dell'obbedienza e la tua carità, facendo penitenza, ha purificato se stessa, come avevamo stabilito, con un'adeguata riparazione, sappi che ti è stato restituito il favore della fraterna benevolenza e godi di essere stato ammesso nella comunione con noi, perché, come siamo severi verso quelli che perseverano nella colpa, così bisogna che siamo inclini al perdono verso quelli che si pentono. Quindi, dopo che la fraternità tua è venuta a conoscere di essere stata riammessa alla comunione con la Sede apostolica, mandi a noi una persona che riceva e ti porti, come di solito, il pallio. Infatti, come non sopportiamo che si compiano azioni illecite, così non rifiutiamo di fare ciò che è consuetudine compiere. Per quanto a concedervi questo ci ha indotto l'esercizio del nostro ufficio, tuttavia molto ci ha spinto ad agire in modo più moderato verso di te la richiesta del dolcissimo ed eccellentissimo figlio nostro, il signor esarca Callinico, la cui carissima volontà non abbiamo sopportato né voluto che fosse contristata.
Note599 d.C., luglio. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai vescovi di Ravenna e Milano: questa lettera riguarda l’espiazione della colpa e la riammissione nella comunione ecclesiastica mantenendo carica e dignità episcopale. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Quae de causa Maximi sint agenda, ex epistulis quas ad vos ante transmisimus agnovistis. Sed quia qualis hac de re fraternitatis vestrae voluntas sit ac magis petitio, praesentium latore Castorio cartulario nostro renuntiante, cognovimus, ideoque, si isdem Maximus coram vobis et praedicto cartulario nostro de simoniaca haeresi praestito se sacramento purgaverit atque de aliis ante corpus sancti Apollinaris, sicut scripsimus, tantummodo requisitus liberum se esse responderit, causam ipsius fraternitatis vestrae, de eo quod excommunicatus missarum sollemnia agere praesumpsit, iudicio committimus, qua debeat paenitentia talis culpa purgari. Et ideo quicquid vobis secundum Deum placet, securi disponite nec aliquid de nobis dubium habeatis. Nam quicquid a vobis hac de causa fuerit ordinatum, nos et grate suscipimus et libenter admittimus. Hortamur tamen ut debeatis esse solliciti et ita quae fienda prospicitis temperetis, quatenus et illi, si ita videbitur, benigne praestetis et vigoris ecclesiastici genium congrua, ut oportet, dispensatione servetis. Suprascriptum vero portitorem in praesenti quid vobis cum ei sit agendum instruximus. A quo cuncta subtiliter addiscentes sic vos in omnibus exhibete, ut in vestra sollicitudine nostram fuisse praesentiam sentiamus.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Avete saputo da una lettera a voi già trasmessa che cosa occorre compiere riguardo alla questione di Massimo [di Salona]. Ma poiché abbiamo appreso dalla relazione del nostro cartulario Castorio, latore della presente, quale sia la vostra volontà o piuttosto la vostra richiesta al riguardo, se il medesimo Massimo, con giuramento prestato alla presenza vostra e del predetto nostro cartulario, dice di non essere soggetto all'eresia di simonia e se quanto agli altri peccati, interrogato soltanto, come abbiamo scritto, sul corpo di Sant'Apollinare, si sarà dichiarato libero, rimettiamo al giudizio della vostra fraternità il processo sul fatto che ha osato celebrare la Messa da scomunicato perché sia stabilito da quale penitenza debba essere purificata tale colpa. Quindi disponete con sicurezza, secondo Dio, quello che vi piace e non abbiate nessun dubbio riguardo a noi. Noi, infatti, accettiamo volentieri e accogliamo senza opposizione ciò che da voi sarà stabilito su questa faccenda. Vi esortiamo tuttavia ad essere sollecito e ad essere temperato in ciò che pensate vada fatto in modo tale che con lui vi comportiate, se così vi sembrerà, con bontà e conserviate, come si conviene, con adeguato comportamento, le caratteristiche del rigore ecclesiastico. Abbiamo istruito a voce il latore della presente su quello che deve fare assieme a voi. Da lui potete sapere minutamente ogni cosa: comportatevi in tutto in maniera tale che noi avvertiamo nella vostra sollecitudine la nostra presenza.
Note599 d.C., luglio. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai vescovi di Ravenna e Milano: questa lettera riguarda l’espiazione della colpa e la riammissione nella comunione ecclesiastica mantenendo carica e dignità episcopale. Il notaio, qui “cartularius”, responsabile della redazione dei documenti, Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Castorio notario Ravennae.
Quanto credi tibi a nobis et necessarias vides causas iniungi, tanto te strenuum debes et sollicitum exhibere. Proinde si Maximus Salonitanus praestito sacramento firmaverit simoniaca se haeresi non teneri atque de aliis ante corpus sancti Apollinaris tantummodo requisitus innoxium se esse responderit et de inoboedientia sua paenitentiam, sicut deputavimus, egerit, volumus ut ad consolandum illum epistulam quam ad eum scripsimus, ubi ei et gratiam nostram et communionem nos reddidisse signavimus, experientia tua dare debeat; quia, sicut in contumacia persistentibus severos esse nos convenit, sic iterum humiliatis et paenitentibus negare locum veniae non debemus.
Praeterea de fratre nostro Sabiniano episcopo Iadertino atque Honorato archidiacone Salonitano vel aliis, qui se ad sedem apostolicam contulerunt, cum eodem Maximo omnino studiose agendum est, ut illos in ea qua decet caritate recipiat et dolorem contra eos nullomodo in corde retineat, sed pura cum eis gratia et sincera dilectione vivat.
TraduzioneGregorio al notaio Castorio a Ravenna.
Quanto più vedi che abbiamo fiducia in te e ti affidiamo incarichi che ci stanno a cuore, tanto più devi comportarti in modo risoluto e pronto. Perciò, se Massimo di Salona assicura con giuramento di non essere soggetto all'eresia di simonia e, soltanto interrogato presso il corpo di Sant'Apollinare, risponde di non aver commesso gli altri reati e se ha fatto penitenza, come gli abbiamo ordinato, per la sua insubordinazione, vogliamo che la tua esperienza gli debba consegnare la lettera che per consolarlo gli abbiamo scritta, nella quale gli notifichiamo di avergli restituito il nostro favore e la comunione con noi; perché, come conviene che siamo severi con quelli che persistono nella colpa, così non dobbiamo negare la possibilità del perdono a coloro che si umiliano e fanno penitenza.
Inoltre, quanto al fratello nostro Sabiniano, vescovo di Zara, a Onorato, arcidiacono di Salona e gli altri che si rivolsero alla Sede apostolica, bisogna agire con molto tatto con lo stesso Massimo, perché li riceva nella carità che gli si addice e non trattenga in nessun modo nel suo cuore rancore contro di essi, ma viva con loro in pura benevolenza e sincero amore.
Note599 d.C., luglio. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai vescovi di Ravenna e Milano: questa lettera riguarda l’espiazione della colpa e la riammissione nella comunione ecclesiastica mantenendo carica e dignità episcopale. Il notaio Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Claudio abbati.
Veniente viro reverentissimo Severo episcopo tuam quoque dilectionem credidi ad beati Petri apostoli limina pariter venire, quia et ita mihi fuerat nuntiatum et valde ex eodem nuntio laetabar. Sed credo te occupationibus monasterii praepeditum et idcirco ad me minime venisse. Epistulas vero quas dilectio tua ante hoc tempus transmiserat accipiens, sicut voluistis, secreto legi. Sed de tribus personis, de quibus scripseras, nihil vidi esse possibile. De ea maxime persona quae hic apud me fuit non suspicor posse aliquid tale utiliter fieri, quia aut naturae simplicitate aut neglegentia torpere mihi visa est. Et ideo dilectio tua, si quid valet, illic requirat et sollicite disponat atque ad me veniat. Si autem invenire non valet, vel aliquantum temporis venire debet, ut usque ad quinque aut sex mensium spatium, si vita comis fuerit, me cum faciat et postea ad propria revertatur. Omnipotentis Dei gratia ab omni te adversitate custodiat.
TraduzioneGregorio all’abate Claudio.
Venendo qui il reverendissimo vescovo Severo [di Cervia], pensavo che sarebbe venuta insieme al sepolcro e alla basilica di San Pietro apostolo anche la tua carità, perché così mi era stato annunziato: una notizia di cui mi ero allietato molto. Ma credo che tu sia stato impedito dalle occupazioni del monastero e che per questo non sei venuto da me. Ricevendo poi la lettera che la tua carità mi aveva mandato prima, l'ho letta segretamente, come hai voluto. Ma delle tre persone, delle quali mi hai scritto, ho visto che non è possibile farne niente. Soprattutto da quella che stette presso di me non penso si possa cavare qualcosa di utile, perché, non so se per ingenuità di natura o per negligenza, mi è sembrata una persona addormentata. Perciò la tua carità, se può, cerchi da voi, disponga con sollecitudine le cose e venga da me. Se poi non riesce a trovare nessuno, almeno per un po' di tempo deve venire, per passare con me, se la vita ci è indulgente, cinque o sei mesi e quindi ritornare alle proprie occupazioni. La grazia di Dio onnipotente ti tenga al sicuro da ogni avversità.
Note599 d.C., luglio. La lettera era indirizzata a Classe, dove Claudio, romano e collaboratore di papa Gregorio, era abate di SS. Giovanni e Stefano. Severo fu vescovo di Ficulis/Ficuclae (Cervia) almeno tra 591 e 599 d.C.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravenna.
Fraternitatis vestrae scripta suscepimus, in quibus indicastis Florentinum diaconum vestrum pro quibusdam utilitatibus ecclesiae vestrae ad urbem vos regiam velle transmittere. Et quia voluistis ut eum dilectissimo filio nostro Anatolio diacono nostris debuissemus apicibus commendare, scribere ei curavimus ut illi, in quibus valuerit et necesse fuerit, adesse non differat, ipsa que scripta ad vos transmisimus, ut se cum ea quem direxeritis debeat deportare.
De persona vero quam in sacro vos dicitis velle ordine promovere, videtur nobis ut, si nihil est, quod vitae eius obsistet, et ei a nullo res quam indicastis obicitur, quod vobis visum fuerit, faciatis. De aliis vero causis volumus vobis ut sollicitudinem gereretis scribere. Sed postquam unam vobis commisimus, quae per neglectum vestrum deperiit, de aliis tacere elegimus, ne et ipsas similiter perderemus.
TraduzioneGregorio a Mariniano vescovo di Ravenna.
Abbiamo ricevuto la lettera della vostra fraternità, nella quale ci avete notificato di voler inviare, per alcuni affari della vostra Chiesa, nella città imperiale il vostro diacono Fiorentino. E poiché avete voluto che lo dovessimo raccomandare con una nostra lettera al nostro dilettissimo figlio, il diacono Anatolio, ci siamo dati cura di scrivere a questi, perché non ricusi di star vicino al vostro diacono in ciò di cui è capace e in ciò che è necessario e abbiamo trasmesso la lettera a voi, perché la debba portare con sé colui che è inviato a Costantinopoli.
Quanto alla persona che dite voler promuovere all'Ordine sacro, a noi sembra che, se non vi è nulla nella sua vita che lo impedisca, e la questione che mi avete indicato non gli è rimproverata da nessuno, dobbiate fare quello che vi sembra opportuno. Quanto alle altre commissioni, vogliamo scrivervi che stiate attento. Ma dopo che ve ne abbiamo affidata una, che è andata male per vostra negligenza, abbiamo scelto di tacere delle altre perché non perdessimo ugualmente anche queste.
Note599 d.C., luglio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il diacono di Ravenna Fiorentino nel 604 d.C. sarà eletto vescovo di Ancona. Anatolio era il rappresentante ufficiale di Gregorio Magno a Costantinopoli.
Testo originaleGregorius Anatolio diacono et apocrisiario Constantinopolitano.
Frater et coepiscopus noster Marinianus ad urbem regiam pro ecclesiae suae utilitatibus diaconem suum se scripsit velle dirigere. Et quia eum dilectioni tuae magnopere voluit commendari, scriptis praesentibus adhortamur ut, ubicumque necesse fuerit, salva ei ratione concurras et ita in iniunctis illi opitulari festines, ut caritatem tuam, de qua praedictus frater noster valde confidit, cognoscat in opere.
TraduzioneGregorio ad Anatolio diacono e apocrisario a Costantinopoli.
Il fratello e coepiscopo nostro Mariniano [di Ravenna] ci ha scritto di voler mandare un suo diacono per affari della sua Chiesa nella città imperiale. E, siccome ha voluto che lo raccomandassimo caldamente alla tua carità, con la presente lettera ti esortiamo che gli stia vicino, salva la ragionevolezza, ovunque sia necessario e che ti affretti ad aiutarlo nelle commissioni affidategli, perché conosca nei fatti la tua carità nella quale il nostro fratello ha molta fiducia.
Note599 d.C., luglio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Anatolio era il rappresentante ufficiale di Gregorio Magno a Costantinopoli.
Testo originaleGregorius Occilani tribuno Ydrontino.
Cognoscentes magnitudinem vestram de Ravennatibus partibus cum ordinatione excellentissimi filii nostri domni exarchi ad Ydrontinam civitatem feliciter remeasse grate suscepimus et Dominum exoramus, qui actus vestros suae propitiationis opitulatione disponat. Savinus quidem frater et coepiscopus noster ad nos veniens graves nobis civium suorum querellas innotuit, asserens a Viatore ex tribuno ydrontinae civitatis multa se hactenus illicita pertulisse. Magnitudinem ergo vestram paterno salutantes affectu, hortamur ut, quicquid pridem male gestum esse cognoscitis, iudiciaria debeatis emendatione corrigere. Scitis etenim quod locus ipse ecclesiae nostrae sit proprius et ipsi pauci qui illic rustici remanserunt, si in aliquibus incompetentibus angariis vel oppressionibus affliguntur, locum ipsum deserunt et, quod non optamus, hostibus datur illum occasio pervadendi. Praedictum ergo episcopum omnes que habitatores loci ipsius vobis peculiariter commendamus, ut non solum nullis illicitis iniunctionibus onerentur, sed magis ex commendatione nostra vestra sibi in omnibus sentiant adesse solacia, ut et beatus Petrus apostolorum princeps, cuius res ipsa est, vobis retributor exsistat et nos in vestris promptius utilitatibus commodemus.
TraduzioneGregorio a Occilane tribuno di Otranto.
Conoscendo la vostra grandezza, abbiamo appreso con piacere che siete felicemente tornato, per ordine dell'eccellentissimo figlio nostro l'esarca [Callinico], dalle zone di Ravenna alla città di Otranto e preghiamo il Signore che regoli la vostra condotta con l'aiuto della sua clemenza. Veramente Savino [di Gallipoli], fratello e coepiscopo nostro, venendo da noi, ci ha messo al corrente delle gravi lamentele dei suoi cittadini, asserendo che essi hanno subito finora molti soprusi da parte di Viatore, ex tribuno della città di Otranto. Salutando perciò con paterno affetto la vostra grandezza, vi esortiamo a sistemare giuridicamente, correggendolo, quanto di male venite a sapere essere stato prima compiuto. Sapete, infatti, che quel luogo è un possesso della nostra Chiesa e che i pochi contadini che ivi sono rimasti, se vengono afflitti da servitù non dovute e da oppressioni, abbandonano il posto e — ciò che vogliamo evitare — si offre al nemico il motivo per invaderlo. Vi raccomandiamo, quindi, in modo speciale il predetto vescovo e gli abitanti di quel luogo, che non solo siano esenti da illecite imposizioni, ma piuttosto avvertano in tutto, per la nostra raccomandazione, il vostro aiuto, affinché San Pietro, principe degli apostoli, al quale appartiene questo bene, vi remuneri e noi vi raccomandiamo piú prontamente nei vostri affari.
Note599 d.C., luglio. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. I tribuni erano i responsabili militari e civili delle città in cui non v’erano né alti ufficiali, come l’esarco, né una nobiltà civile in grado di esprimere un curatore.
Testo originaleGregorius Maximo episcopo Salonitano.
Quamvis culpabilibus ordinationis tuae primordiis gravem aliam per inoboedientiam culpam addideris, nos tamen sedis apostolicae auctoritatem eo quo decuit moderamine temperantes numquam contra te usque ad hoc quod causa poscebat exarsimus. Sed ut longius se ingratitudo nostra, quam tu tibi excitasti, produceret, credita nos sollicitudo vehementer angebat, ne quaedam, quae de te audieramus, neglegenter omittere videremur. Quae si bene consideres, ipse paene, satisfacere differendo, firmabas atque ex hoc adversum te zelum nostrum acrius incitabas. At ubi salubri tandem consilio usus iugo te oboedientiae humiliter summisisti et dilectio tua paenitentiam agens digna se, ut deputavimus, satisfactione purgavit, redditam tibi gratiam fraternae caritatis intellege atque in nostro te receptum consortio gratulare, quia, sicut perseverantibus in culpa districtos, ita resipiscentibus nos benignos esse decet ad veniam. Postquam ergo fraternitas tua apostolicae sedis communionem se reparasse cognoscit, personam ad nos transmittat, quae pallium tibi deferendum ex more percipiat. Nam quemadmodum illicita perpetrari non patimur, sic quae sunt consuetudinis non negamus. Licet autem ad haec concedenda dispensatio nos loci nostri vocaverit, multum tamen a nobis petitio dulcissimi atque excellentissimi filii nostri domni Callinici exarchi, ut temperantius erga te ageremus, exegit. Cuius carissimam voluntatem nec pertulimus nec potuimus contristare.
TraduzioneGregorio a Massimo vescovo di Salona.
Per quanto tu avessi aggiunto alle colpe commesse all’origine della tua ordinazione un'altra grave colpa di disobbedienza, noi tuttavia, moderando nel modo in cui era conveniente l'autorità della Sede apostolica, non ci siamo lasciati mai trasportare contro di te fino al punto richiesto dalla situazione. Ma la sollecitudine per il compito a noi affidato ci spingeva in modo molto vivo a protrarre più a lungo il nostro disappunto che tu suscitasti contro di te, perché non sembrassimo trascurare per negligenza alcune illiceità di cui avevamo sentito parlare nei tuoi riguardi. Se consideri bene queste cose, tu stesso, differendo l'espiazione, in certo modo le confermavi e accendevi più ardentemente la nostra collera contro di te. Ma dal momento che con salutare determinazione ti sei sottomesso umilmente al giogo dell'obbedienza e la tua carità, facendo penitenza, ha purificato se stessa, come avevamo stabilito, con un'adeguata riparazione, sappi che ti è stato restituito il favore della fraterna benevolenza e godi di essere stato ammesso nella comunione con noi, perché, come siamo severi verso quelli che perseverano nella colpa, così bisogna che siamo inclini al perdono verso quelli che si pentono. Quindi, dopo che la fraternità tua è venuta a conoscere di essere stata riammessa alla comunione con la Sede apostolica, mandi a noi una persona che riceva e ti porti, come di solito, il pallio. Infatti, come non sopportiamo che si compiano azioni illecite, così non rifiutiamo di fare ciò che è consuetudine compiere. Per quanto a concedervi questo ci ha indotto l'esercizio del nostro ufficio, tuttavia molto ci ha spinto ad agire in modo più moderato verso di te la richiesta del dolcissimo ed eccellentissimo figlio nostro, il signor esarca Callinico, la cui carissima volontà non abbiamo sopportato né voluto che fosse contristata.
Note599 d.C., agosto. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai vescovi di Ravenna e Milano: questa lettera riguarda l’espiazione della colpa e la riammissione nella comunione ecclesiastica mantenendo carica e dignità episcopale. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C.
Testo originaleGregorius Maximo episcopo Salonitano.
Susceptis fratris et coepiscopi nostri Mariniani epistulis sed et Castorio cartulario nostro remeante, fraternitatem vestram plenissime de his quibus dubietas fuerat satisfecisse cognovimus magnas que omnipotenti Deo gratias solvimus, quia de meo corde medullitus omnis rancor sinistrae suspicionis evulsus est. Pro qua re communem filium Stephanum diaconem vestrum cum summa volui celeritate laxare. Sed hunc apud me vel paucis diebus immorari dolores crebri mearum aegritudinum compulerunt. At postquam meliorari vel modicum coepi, eum protinus cum gaudio retransmittere curavi.
Itaque pallium ad sacra missarum sollemnia utendum ex more transmisimus, cuius vos volumus per omnia genium vindicare. Huius enim indumenti honor humilitas atque iustitia est. Tota ergo mente fraternitas vestra se exhibere festinet in prosperis humilem et in adversis, si quando eveniunt, cum iustitia erectam, amicam bonis, perversis contrariam. Nullius umquam faciem contra veritatem recipiens, nullius umquam faciem pro veritate loquentem premens, misericordiae operibus iuxta virtutem substantiae insistens et tamen insistere etiam contra virtutem cupiens, infirmis compatiens, benevolentibus congaudens, aliena damna propria deputans, de alienis gaudiis tamquam de propriis exsultans, in corrigendis vitiis saeviens, in fovendis virtutibus auditorum animum demulcens, in ira iudicium sine ira tenens, in tranquillitate autem severitatis suae censuram non deserens: haec est, frater carissime, pallii accepti ratio. Quam si sollicite servaveris, quod foris accepisse ostenderis, intus habes.
Praeterea fratrem et coepiscopum nostrum Savinianum fraternitati vestrae in omnibus commendo et, si quae causae sunt, interim postponantur. Caritas inter vos fixa permaneat, ut sic de exterioribus, si quando contentio vertitur, examen veniat, quatenus mentem caritas non relinquat. Communem quoque filium Honoratum archidiaconem commendamus. De quo si ita est, sicut per Castorium cartularium nostrum didicimus, quia per eum iam tres antea archidiaconi servare consuetudinem ecclesiasticam quinquennio expleto exeundo compulsi sunt, tuae quidem volumus ut caritatem sanctitatis inveniat. Nam flagitari iudicium non debet de causa, quam ipse iudicavit. Sin vero ita non est, omni mentis tumore depresso omni que odio postposito debet in caritate recipi et nullatenus a loco in quo inventus est amoveri. Messianum quoque clericum, qui ad nos confugerat, communi filio Stephano diaconi fiducialiter dedimus, certi quia, quem nos vestrae fraternitati transmittimus, vos in eo non odium sed gratiam potestis ostendere. Omnipotens deus sua vos protectione custodiat det que nobis ita agere, ut post huius temporalitatis fluctus ad aeterna valeamus simul gaudia pervenire.
TraduzioneGregorio a Massimo vescovo di Salona.
Ricevuta la lettera del fratello e coepiscopo nostro Mariniano, ma anche ritornando qui il nostro cartulario Castorio, abbiamo saputo che la fraternità tua ha reso piena soddisfazione per quegli addebiti sui quali era sorto del dubbio e abbiamo reso ampie grazie a Dio onnipotente, perché dal fondo del mio cuore è stato estirpato ogni rancore per un cattivo sospetto. Per questo motivo ho voluto rilasciare con la massima urgenza il comune figlio, il tuo diacono Stefano. Veramente i frequenti dolori per le mie infermità mi costrinsero a trattenerlo almeno per pochi giorni presso di me. Ma appena mi sono sentito un po' meglio, ho cercato subito, con gioia, di rimandarlo.
E così, secondo l'uso, ti abbiamo inviato il pallio da usare nelle sante messe, la cui caratteristica vogliamo che tu difenda. Ornato di questo indumento sono l'umiltà e la giustizia. La fraternità tua, quindi, si affretti a mostrarsi con tutto il cuore umile nelle circostanze liete, sostenuta, con giustizia, in quelle avverse, quando capitano, amica dei buoni, contrarla ai cattivi. Non mostrare mai parzialità verso nessuno contro la verità, non chiudere la bocca a chi parla a favore della verità, insistere sulle opere di misericordia secondo le proprie forze economiche e tuttavia voler insistere anche contro le proprie possibilità, soffrire con gli infermi, godere con chi vuol bene, considerare proprio il danno altrui, esultare delle gioie degli altri come delle proprie, accendersi di furore nel correggere i vizi, accarezzare gli animi di chi ascolta nel favorire le virtù, nell'ira mantenere la facoltà di giudicare senz'ira, ma non tralasciare nei momenti tranquilli l'intervento della propria severità: questo, fratello carissimo, è il significato del pallio ricevuto. Se conserverai con cura questo significato avrai dentro il cuore ciò che mostrerai di aver ricevuto da portare esternamente.
Raccomando alla tua fraternità in ogni circostanza il fratello e coepiscopo nostro Sabiniano [di Zara]: se ci sono cause tra voi, siano per il momento messe da parte. Rimanga salda tra voi la carità, in modo che, nel caso in cui ci sia una controversia, il dibattito su questioni esterne avvenga in modo che la carità non abbandoni la vostra mente. Raccomandiamo anche il comune figlio, l'arcidiacono Onorato [di Salona]. A suo riguardo, se è vero, come abbiamo saputo dal nostro cartulario Castorio, che a causa sua già tre arcidiaconi sono stati costretti ad osservare la consuetudine ecclesiastica di andarsene dopo aver compiuto il quinquennio, vogliamo veramente che gli venga incontro la tua carità. Non deve essere istituito un processo per la causa che egli ha difeso. Se poi le cose stanno diversamente, placata ogni interiore indignazione e messo da parte ogni odio, deve essere accolto nella carità e non essere assolutamente rimosso dal suo posto. Anche il chierico Messiano, che si era rifugiato da noi, l'abbiamo affidato con fiducia al nostro comune figlio, il diacono Stefano, sicuri che a un individuo che noi abbiamo consegnato alla vostra fraternità voi mostrerete non odio ma favore. Dio onnipotente vi custodisca con la sua protezione e ci conceda di agire in modo che, dopo le tempeste di questa vita mortale, possiamo raggiungere assieme le gioie eterne.
Note599 d.C., (25) agosto. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona, e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai vescovi di Ravenna e Milano: questa lettera riguarda l’espiazione della colpa e la riammissione nella comunione ecclesiastica mantenendo carica e dignità episcopale. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Il notaio, qui “cartularius”, responsabile della redazione dei documenti, Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleGregorius Domnello erogatori.
Epistulam gloriae vestrae plenam boni filii caritatis suscepimus, ex qua quidem de molestia corporis vestri noster est animus contristatus. De divina tamen miseratione confidimus, quod, qui vos miseram et deiectam diligere fecit Italiam, ipse vobis et corporis salutem restituat et in aeterna retributione compenset. De militari enim roga, quam vos contra voluntatem vestram principali significastis iussione iterum suscepisse, omnino sumus libenter amplexi, scientes quod magnitudo vestra cautiori salubriori que provisione militari necessitati concurrat.
De sex vero centenariis, qui in cimiliarchio Ravennatis ecclesiae fuerant commendati, sicut vestra testatur epistula, ab excellentissimo exarcho in cotidiana militum praefecturae sunt mutuati. Qui ut hactenus minime restaurentur, cuius sit causa cognoscitis. Quod enim scripsistis hoc praedicto filio nostro exarcho visum esse ut, quia pax ad conclusionem tenuit, de pecuniis hic competentibus primum rogam illarum partium faciatis, gloria vestra caute prospiciat, si vel debet fieri vel sit quomodo praesumendum, ut, si praefectura partium illarum acceptas pecunias recuperare neglegit, hae partes ob hoc periculum de militis nuditate sustineant. Sed hi quibus mutuatae dicuntur ipsae pecuniae debent a mutuante constringi, quatenus, si quae novae erunt expensae, centenaria ipsi restituant et sic pecuniae quae sine erogantis non possunt tangi periculo subtractae quibus debentur, ammisso quod nobis imminet periculo, minime aliis dispergantur indebite. Et haec quidem nos nec cum novo in causa viro nec Romanorum partium ignaro agimus, cui quippe constat quod, si pax minime fuerit reparata, belli tempore in his locis nisi solius divinae potentia maiestatis […]; nam humanum non praevalet subvenire remedium. Sciens ergo magnitudo vestra voluntatem dominorum principum, quanta cura de Romanae civitatis praecipue subventione sit provida, quod ex donis eorum evidenter agnoscitur, sed et partium istarum imminens periculum sub omni curet velocitate cum pecuniis hic venire, ne, si omissum fuerit et adversi aliquid, quod non optamus, evenerit, neque apud Dominum neque apud rerum dominos cuiuslibet obtentu personae vos excusare quoquomodo valeatis. Romana enim civitas peccatis nostris facientibus diversis est attrita languoribus, ut neque in murorum custodia idonei persistant.
TraduzioneGregorio all’erogatore Donnello.
Abbiamo ricevuto la lettera della vostra gloria piena di espressioni d'amore come di un figlio buono. Ma a dire il vero, il nostro animo è rimasto rattristato per il disturbo fisico che vi affligge. Confidiamo tuttavia nella misericordia divina, perché colui che vi ha fatto amare l'Italia, misera e reietta, vi restituisca la salute del corpo e vi ricompensi nella retribuzione eterna. Abbiamo poi appreso con grandissima gioia della paga per i militari che, come ci comunicate, avete ricevuto di nuovo, sebbene contro la vostra volontà, per superiore comando, perché sappiamo che la vostra grandezza concorrerà con più cauta e salutare previdenza ai bisogni dell'esercito.
Le seicento libbre d'oro che erano custodite nel tesoro della chiesa di Ravenna, come attesta la vostra lettera, furono prelevate dall'eccellentissimo esarca [Callinico] per le spese quotidiane dei soldati della prefettura. E voi conoscete per quale motivo queste libbre a tutt'oggi non siano state in nessun modo rimesse assieme. Circa il fatto che mi avete scritto, che cioè al predetto figlio nostro l'esarca è sembrato opportuno che, siccome la tregua ha alla fine tenuto, con il danaro spettante a noi qui si pagassero prima gli stipendi ai militari di quelle zone di Ravenna, la vostra gloria consideri attentamente se è giusto che ciò debba avvenire e se bisogna in ogni caso fare in modo che, mentre la prefettura di quelle zone trascura di recuperare il danaro ricevuto, questa nostra zona debba soggiacere al pericolo di veder nudi i propri soldati. Ma coloro ai quali è stato dato in prestito quel danaro, debbono essere costretti dal mutuante a far sì che, se ci saranno nuove assegnazioni per spese, restituiscano le seicento libbre d'oro; e così il danaro, che non può essere toccato senza incorrere nella pena dell'erogante, sottratto a coloro ai quali è dovuto, senza tener conto del pericolo che ci incombe, non sarà in alcun modo disperso, dato indebitamente ad altri. Ma queste cose, a dire il vero, non le trattiamo né con un ultimo arrivato, né con un ignaro delle regioni romane. A lui, senza dubbio, consta che, se la tregua non sarà rinnovata, nel periodo di guerra, in questi posti (non ci salveremo) se non per la potenza della maestà divina: non è infatti possibile che ci venga incontro un soccorso umano. Essendo la grandezza vostra al corrente della volontà del principe, sapendo con quanta cura egli sia previdente nel soccorrere soprattutto la città di Roma — il che si deduce chiaramente dai suoi doni — e conoscendo il pericolo che sovrasta queste regioni, cerchi con ogni urgenza di venire qui con il danaro, affinché, nel caso che fosse ciò omesso e avvenisse — ciò che non ci auguriamo — qualcosa di sfavorevole, non capiti che non possiate in alcun modo scusarvi per l'interposizione di qualsiasi persona presso Dio e presso il signore dei beni del mondo. La città di Roma, infatti, per i nostri peccati è afflitta da varie condizioni di debolezza al punto che i suoi abitanti non sono in condizione di custodire neppure le mura.
Note599 d.C., agosto. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco e del suo ufficio di cui doveva far parte anche l’”erogator”, il responsabile delle paghe dei soldati, Donnello. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. A sottolineare il ruolo della chiesa di Ravenna è da notare essa custodiva il denaro delle paghe dei soldati bizantini.
Testo originaleGregorius Iohanni praefecto praetorio Italiae.
Quicquid tribuitur pauperi, si subtili consideratione pensetur, non est donum sed mutuum, quia quod datur multiplicato sine dubio fructu recipitur. Scripsistis autem nobis ut Dulcitio viro magnifico agenti vices vestras dicere deberemus ne quid super diatiposin auderet expendere. Et quamquam sit laudabile futura prospicere, quia tamen infirma omnino cautela est, quae pietatis adiutorio non munitur, in hac sollicitudine vestra, quod non pro vobis constaret, invenimus. Fertur itaque quod annonas atque consuetudines diaconiae, quae Neapolim exhibetur, eminentia vestra subtraxerit. Quod minus fortasse fuerat obstupendum, si Iohannis decessoris vestri non fuissent tempore ministratae. Si igitur haec ille, cuius cunctis notum est quam fuerit gravis actio, non negavit, quale sit sapientia vestra consideret, si vel in aliquo bono opere malus homo vos superet. Nulla enim occasione hoc subtrahere vos decuit. Quod si forte nullus vestris voluisset rationibus imputare, hoc de proprio vos impendere non debuit gravare precario, ut huiusmodi pietas in vestro patrona esset iuvamine, quae ministra fuisset in opere. Haec itaque eminentia vestra potentia qua pollet inspicere atque hoc quod sub decessoribus eius non est ademptum, ut solite valeat ministrari, bonitatis suae largitatem debeat magis ostendere, quatenus nec in his quae secundum iussionem agitis adversitatem aliquam incurratis et huius vobis officii administratio et coram hominibus laudem parare et coram omnipotente Deo possit providere mercedem.
TraduzioneGregorio a Giovanni prefetto del pretorio d’Italia.
Tutto quello che si dà ai poveri, se si considera attentamente, non è un dono ma un prestito, perché ciò che viene concesso lo si riceve senza dubbio moltiplicato. Ci avete scritto che dovessimo dire a Dolcizio, uomo magnifico, il quale fa le vostre veci, che non osi spendere nulla oltre quanto è disposto. Ma, quantunque sia cosa lodevole guardare al futuro, poiché è una precauzione del tutto debole quella che non è difesa dall'aiuto della bontà, abbiamo trovato in questa vostra sollecitudine ciò che non depone a vostro favore. Si dice che l'eminenza vostra ha tolto il vettovagliamento e le consuetudini di diaconia offerti a Napoli: un fatto che avrebbe forse stupito meno se queste provvidenze non fossero state offerte al tempo del vostro predecessore Giovanni. Se egli, la cui condotta è nota a tutti come sia stata pesante, non le rifiutò, consideri la vostra sapienza come la cosa si metta per voi, se almeno in qualche opera buona un uomo cattivo vi risulti superiore. Per nessun motivo vi conveniva sottrarre un tale aiuto. Mettiamo pure che nessuno volesse inscrivere questa spesa nei vostri rendiconti: non doveva esservi di peso pagare dal vostro stipendio, perché una generosità di tal genere parlasse a vostro favore, dopo avervi accompagnato nelle opere. Tali considerazioni l'eminenza vostra deve tener presenti con l'impegno di cui è capace e poi mostrare piuttosto la larghezza della sua bontà nel far distribuire, come di solito, quello che otto i suoi predecessori non è stato abolito, per non incorrere in na ostilità neppure in ciò che fate secondo gli ordini ricevuti e perché la conduzione del vostro ufficio vi procuri lode agli occhi degli uomini e ricompensa eterna al cospetto di Dio onnipotente.
Note600 d.C., marzo. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza del prefetto del pretorio d’Italia, Giovanni, del suo predecessore Giovanni e del suo vice Dolcizio: il prefetto del pretorio è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato.
Testo originaleGregorius Alexandro praetori Siciliae.
Qui de filii caritate non dubitat, commendare ei quos diligit non recusat. Et ideo quia patrimonium ecclesiae Ravennatis quod in Sicilia constitutum est ita dicitur deminutum, acsi nullus esset qui illic utilitates ipsius agere potuisset, necesse fuit reverentissimum fratrem et coepiscopum nostrum Marinianum de ordinando patrimonio ipso, ne amplius decresceret, cogitare. Ad cuius quia gubernationem Iohannem diaconem suum transmisit, paterno salutantes affectu, petimus ut ei tamquam a nobis misso, sicut de vobis confidimus, caritatem in omnibus impendatis.
TraduzioneGregorio ad Alessandro, pretore della Sicilia.
Chi non dubita dell'amore di un figlio non rifiuta di raccomandargli coloro che gli stanno a cuore. Per questo, siccome il patrimonio della Chiesa di Ravenna in Sicilia si dice diminuito, come se non ci fosse nessuno che avesse potuto fare ivi i suoi interessi, è stato necessario che il reverendissimo fratello e coepiscopo nostro Mariniano pensasse a sistemare lo stesso patrimonio, perché non diminuisse di più. E poiché ha mandato a reggerlo il suo diacono Giovanni, porgendovi con paterno affetto i nostri saluti, chiediamo che gli usiate, come confidiamo su di voi, amore in tutto, quasi fosse stato inviato da noi.
Note600 d.C., ottobre. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. La lettera raccomanda al responsabile civile bizantino della Sicilia i beni della chiesa di Ravenna, evidentemente ancora molto forti nell’isola.
Testo originaleGregorius Iohanni subdiacono Ravennati.
Qualiter Iohannes argentarius indigentibus fideiussore fuit saepe remedium, experientia tua bene novit. Unde contigit ut nunc Importuno quondam palatino fideiussor accedens necessitatem non modicam patiatur, adeo ut in ecclesia diu iam residens vehementius affligatur. Sed quia quibusdam erat suspicio, quod praedicto Importuno non simpliciter sed compendii causa fideiussor accesserit, ad sacratissimum corpus beati Petri apostolorum principis districta omnino sacramenta, quantum nobis renuntiatum, praebuit non solum nullum se ab eo ex toto commodum recepisse verum etiam nec aliquid habuisse promissum sed ei, ut ceteris, simpliciter accessisse. Et quia tam longo tempore innocentis hominis affligi simplicitas non debet, apud eminentissimum filium nostrum praefectum modis quibus valueris age, ut ipsa una statio, quae in Romana civitate remansit, eius temporibus claudi non debeat, sed ei pro mercede sua in hac afflictione subveniat atque eum directa iussione dignetur absolvere et amplius illum in hac esse necessitate minime patiatur, quia quemadmodum simplex benignus que sit vel diversis fuerit saepe in tribulatione remedium, nec ipsi habetur incognitum. Et ideo ita, sicut diximus, cum omni dulcedine apud eum stude agere, ut in huius absolutione multis possit ferre consultum et haec via remedii eius, sicut diximus, temporibus non claudatur.
TraduzioneGregorio al suddiacono Giovanni a Ravenna.
La tua esperienza conosce bene come Giovanni, il banchiere, sia stato spesso, come garante, di aiuto ai poveri. Per questo gli capita ora che, essendo venuto incontro come garante appunto a Importuno, il defunto palatino, si trovi in una situazione molto difficile, tanto che, già da tempo rifugiatosi in una chiesa, è in grandissima afflizione. Ma, siccome in alcuni era sorto il sospetto che fosse venuto incontro al predetto Importuno come garante non semplicemente ma per compenso, ha prestato, a quanto ci è stato detto, rigorosissimo giuramento sul corpo sacratissimo di san Pietro, principe degli apostoli, non solo di non aver ricevuto assolutamente nessun compenso, ma che non aveva avuto nessuna promessa e che era venuto incontro a lui, come agli altri, con semplicità. E poiché la purezza di un uomo innocente non deve essere angustiata per un tempo così lungo, agisci in tutti i modi che ti sono possibili presso l'eminentissimo figlio nostro, il prefetto [Giovanni], perché non debba chiudersi, nel periodo del suo mandato, quell'unica agenzia di cambio che è rimasta in Roma, ma che soccorra in questa afflizione, per la sua ricompensa eterna, un tale uomo: che si degni di rilasciarlo per suo comando diretto e non permetta minimamente che egli sia ancora in questa situazione di necessità, perché non è ignoto neppure a lui come Giovanni, da uomo semplice e benigno, sia e sia stato a molti causa di soluzione delle difficoltà. Perciò, come abbiamo detto, cerca di agire presso di lui con ogni dolcezza, perché nel proscioglimento di quest'uomo possa apportare conforto a molti e non sia chiusa, come abbiamo sottolineato, nel periodo della sua carica, questa via di scampo.
Note600 d.C., novembre. Il suddiacono Giovanni è “apocrisarius”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Il prefetto del pretorio Giovanni, responsabile amministrativo e giuridico d’Italia sotto l’autorità dell’Esarco, risiedeva a Ravenna: è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato. La lettera cita il forte problema del credito nell’Italia bizantina.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennati.
Venientes quidam Ravennates homines, gravissimo maerore percussus sum, quia fraternitatem tuam retulerunt de vomitu sanguinis aegrotare. Ex qua re sollicite et singillatim eos quos hic doctos lectione novimus medicos fecimus requiri, et quid singuli senserint quidve dictaverint sanctitati vestrae scriptum misimus. Qui tamen quietem et silentium prae omnibus dictant. Quam si tua fraternitas in sua ecclesia possit habere valde sum dubius. Et ideo videtur mihi ut, ordinata illic ecclesia vel qui missarum sollemnia explere valeant vel qui episcopii curam gerere, hospitalitatem et susceptiones possit exhibere quisve monasteriis custodiendis praeesse, tua fraternitas ad me ante aestiuum tempus debeat venire, ut aegritudinis tuae ego specialiter, in quantum valeo, curam geram, quietem tuam custodiam, quia huic aegritudini aestiuum tempus medici vehementer dicunt periculosum. Et valde pertimesco ne, si curas aliquas cum adversitate temporis habueris, amplius ex eadem molestia pericliteris. Ego enim ipse valde sum debilis, et omnino est utile ut cum Dei gratia sanus ad tuam ecclesiam redeas aut certe, si vocandus es, inter manus tuorum voceris et ego, qui me proximum morti video, si me omnipotens Deus ante vocare voluerit, inter tuas manus debeam transire. Si autem qualitas temporis ad veniendum praepedit, aliquo parvo exenio dato apud Agonem agi potest, ut ipse vobis cum usque Romam suum hominem transmittat. Si igitur eadem aegritudine gravari te sentis et venire disponis, cum paucis tibi veniendum est, quia me cum in episcopio manens cotidiana obsequia de hac ecclesia habebis.
Praeterea nec hortor nec admoneo sed stricte praecipio ut ieiunare minime praesumas, quia dicunt medici valde huic molestiae esse contrarium, nisi forte si grandis sollemnitas exigit; quinque in anno vicibus concedo. A vigiliis quoque temperandum est, sed et preces illae quae super cereum in Ravennati civitate dici solent vel expositiones evangelii, quae circa paschalem sollemnitatem a sacerdotibus fiunt, per alium dicantur, et tua dilectio contra virtutem sibi laborem minime imponat. Haec autem dixi, ut, si te melius senseris et venire distuleris, scias quid debeas ex meo mandato custodire.
TraduzioneGregorio a Mariniano, vescovo di Ravenna.
Venendo qui alcuni ravennati, sono stato colpito da una grande tristezza, perché mi hanno riferito che la fraternità tua soffre di sbocchi di sangue. Per questo abbiamo fatto ricercare subito e singolarmente i medici che qui abbiamo saputo essere dotti nello studio di questa materia e abbiamo mandato scritto alla tua santità quello che ciascuno di loro pensasse e avesse prescritto dettando. Essi tuttavia suggeriscono prima di tutto il silenzio e la quiete, che dubito molto che la tua fraternità possa avere nella sua chiesa. Perciò mi sembra opportuno che la tua fraternità, disposte costì le mansioni della tua chiesa (chi possa celebrare la messa, chi prendersi cura dell'episcopio, chi possa offrire l'ospitalità e l'accoglienza, chi presiedere alla custodia dei monasteri) debba venire da me prima del tempo estivo, perché io mi prenda cura in modo speciale, in quanto posso, della tua malattia, custodisca la tua quiete, perché i medici dicono che per questa malattia è molto pericoloso il tempo d'estate. Temo assai che, se prendi delle cure mentre il tempo ti è contrario, tu corra maggiore pericolo da un uguale disturbo. Io stesso sono molto malato e serve moltissimo che tu, con la grazia di Dio, ritorni sano alla tua chiesa o, in ogni modo, se devi essere chiamato, che sia chiamato tra le braccia dei tuoi; anch'io, che mi vedo vicino alla morte, se Dio onnipotente mi vuol chiamare prima, voglio che debba partirmene tra le tue braccia. Se poi ti fanno difficoltà a venire le condizioni del momento, offrendo un piccolo dono, si può trattare con Agone [Agilulfo], perché egli mandi un suo uomo con te fino a Roma. Se quindi ti senti aggravare per questa infermità e disponi di venire, bisogna che tu venga con poche persone perché, rimanendo con me nell'episcopio, avrai il servizio quotidiano da questa chiesa.
Inoltre non ti esorto e non ti avverto, ma tassativamente ti ordino di non osare assolutamente digiunare, perché i medici dicono che il digiuno è molto contrario a questa malattia. Niente digiuno, a meno che non lo esiga una grande solennità: te lo concedo cinque volte in un anno. Devi inoltre moderare le veglie, ma le preci che sogliono essere recitate sul cero pasquale a Ravenna e le prediche sul vangelo, che sono tenute dai vescovi intorno alla solennità di Pasqua, siano dette da altri e la tua carità non si accolli assolutamente una fatica contro le sue forze. Ti ho detto questo affinché, se ti senti meglio e rimandi la tua venuta, sappia quello che per mio comando devi osservare.
Note601 d.C., febbraio. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Nella lettera si accenna al rinnovato stato di tensione tra Longobardi e Bizantini a causa della scadenza della tregua del 598 d.C.: i corretti rapporti tra Papato e Longobardi consente a Gregorio Magno di suggerire a Mariniano di ottenere un accompagnatore per passare attraverso i domini Longobardi da Ravenna a Roma. Regno di Agilulfo: 591-616 d.C.
Testo originaleGregorius Iohanni subdiacono Ravennati.
Venientes monachi monasterii quondam abbatis Claudii petiverunt sibi Constantium monachum abbatem debere constitui. Quos valde ego in sua petitione detestatus sum, quia mihi terrenae mentis esse omnimodo apparverunt, qui terrenum nimis hominem abbatem habere quaesiverunt. Cognovi enim quod isdem Constantius peculiaritati studeat. Quae res maxime testatur eum cor monachi non habere. Ac deinde cognovi quia ad monasterium, quod in Piceni provincia situm est, solus pergere sine aliquo fratrum suorum praesumpsit. Ex qua eius actione cognoscimus quia qui sine teste ambulat recte non vivat. Aut quomodo aliis regulam teneat, quam sibimetipsi nescit tenere?
Ab hoc igitur recedentes cellararium quendam nomine Maurum petiverunt, cuius vitae atque industriae multa testificantur, quia et quondam abbas Claudius eum quibusdam laudabat. Tua itaque experientia sollicite requirat et, si eius vita ad locum regiminis digna est, a reverentissimo fratre et coepiscopo meo Mariniano hunc abbatem ordinari faciat. Si vero est quod ei omnino obviet, et ex sua congregatione invenire aptum minime possunt, ipsi sibi aliunde eligant, et is quem elegerint fiat. Hoc autem praedicto fratri et coepiscopo meo omnino dicere stude, ut peculiaritatem a quattuor aut quinque monachis, in quibus corrigi hactenus minime potuit, studiosissime compescat et hoc ipsum monasterium a tali peste mundare festinet, quia, si illic peculiaritas a monachis habetur, neque concordia neque caritas in congregatione eadem poterit permanere. Quid est autem habitus monachi, nisi despectus mundi? Quomodo ergo mundum despiciunt, qui in monasterio positi aurum quaerunt? Ita igitur tua experientia faciat, ut neque loci ordinatio differatur neque ad nos ulterius hac de re querella perveniat.
Praeterea quia isdem carissimus quondam filius meus Claudius aliqua me loquente de Proverbiis, de Canticis Canticorum, de Prophetis, de libris quoque Regum et de Eptatico audierat, quae ego scripto tradere prae infirmitate non potui, ipse ea suo sensu dictavit, ne oblivione deperirent, ut apto tempore haec eadem mihi inferret et emendatius dictarentur. Quae cum mihi legisset, inveni dictorum meorum sensum valde inutilius fuisse permutatum. Unde necesse est ut tua experientia, omni excusatione atque mora cessante, ad eius monasterium accedat, convenire fratres faciat et sub omni veritate, quantascumque de diversis Scripturae cartulas detulit, ad medium deducant, quas tu suscipe et mihi celerrime transmitte.
De tuo autem reditu, quia molestiam te valde incurrisse cognovimus, deo propitio in subsequenti cogitamus.
Illud autem quod ad me quorundam relatione perlatum est, quia reverentissimus frater et coepiscopus meus Marinianus legi commenta beati iob publice ad vigilias faciat, non grate suscepi, quia non est illud opus populare et rudibus auditoribus impedimentum magis quam provectum generat. Sed dic ei ut commenta psalmorum legi ad vigilias faciat, quae mentes saecularium ad bonos mores praecipue informent. Neque enim volo, dum in hac carne sumus, si qua dixisse me contigit, ea facile hominibus innotesci. Nam quia dilectissimae memoriae Anatolius diaconus quaerenti ac iubenti domno imperatori librum regulae pastoralis dedit, aegre suscepi. Quem sanctissimus frater et coepiscopus meus Anastasius Antiochenus in graeca lingua transtulit. Et, sicut mihi scriptum est, ei valde placuit, sed mihi valde displicuit, ut qui meliora habent in minimis occupentur.
In parte autem tertia beati iob in eo versu in quo scriptum est: “Scio quod redemptor meus vivat” [Giobbe, 19.25], suspicor quia praedictus frater et coepiscopus meus Marinianus mendosum codicem habeat. Nam in scrinio nostro isdem locus aliter habetur, quam hunc in aliorum codicibus esse cognovi. Atque ideo eundem locum relevari feci, ut, sicut in scrinio nostro est, ita quoque hunc et saepe fatus frater meus habeat. Quattuor enim verba sunt, quae, si eidem loco defuerint, non modicum possunt lectori scrupulum generare. Haec omnia subtiliter et celeriter exsequere. Et si apud excellentissimum exarchum nihil potes, vel haec non videaris neglexisse quae potes.
De loco autem Albini quid dicam, de quo nobis aperte contra iustitiam respondetur? De quo tamen debes districtius cogitare.
Praeterea ante aliquantum temporis experientiae tuae praeceperamus ut apud eminentissimum filium nostrum praefectum ageret, quatenus cura formarum committi Augusto viro clarissimo debuisset, pro eo quod omnino sollicitus atque strenuus vir est. Et ita hactenus distulisti, ut nobis nec quid egeris indicaris. Et ideo apud eundem eminentissimum filium nostrum vel modo omni agere intentione festina, ut formae praedicto clarissimo viro per omnia committantur, quatenus sollicitudine sua aliquid in eas valeat reparare. Nam sic despiciuntur atque negleguntur formae ipsae, ut, nisi maior sollicitudo fuerit, intra paucum tempus omnino depereant. Sicut ergo nosti quam necessaria causa sit et generalitati utilis, sic studendum tibi est, ut praedicto, sicut diximus, viro pro sua sollicitudine modis omnibus committantur.
TraduzioneGregorio a Giovanni, suddiacono a Ravenna.
I monaci del monastero del defunto abate Claudio venendo qui hanno chiesto di eleggere abate il monaco Costanzo. Io ho respinto la loro richiesta, perché mi è parso che avessero una mentalità del tutto terrena chiedendo di avere come abate un uomo troppo mondano. Ho saputo infatti che questo Costanzo è teso verso interessi personali, ciò che attesta nel modo più assoluto che non ha un cuore da monaco. Inoltre ho saputo che ha osato recarsi da solo, senza la compagnia di alcuno dei suoi fratelli, nel monastero che sorge nella provincia del Piceno. Da questa sua azione deduciamo che chi cammina senza testimoni non vive rettamente. Come può avere per gli altri una regola che non ha per sé?
Rinunziando a questo, chiesero un certo cellerario di nome Mauro, della cui vita e abilità portano molte testimonianze e che il defunto abate Claudio lodava davanti ad alcuni. La tua esperienza, quindi, conduca sollecitamente le indagini e, se la sua vita è degna di ricoprire il posto di guida, faccia ordinare questo come abate dal reverendissimo fratello e coepiscopo mio Mariniano. Se poi c'è qualcosa che gli si opponga e i monaci non possono assolutamente trovare uno che sia adatto, prendendolo dalla loro comunità, se lo eleggano essi stessi da altrove e l'eletto diventi abate. Datti cura poi particolarmente di dire al predetto fratello e coepiscopo mio che reprima con ogni impegno il profitto personale in quattro o cinque monaci nei quali questo vizio a tutt'oggi non è stato possibile correggere e che liberi al più presto questo monastero da una tale peste, perché, se ivi si coltivano gli interessi personali, né la concordia, né la carità potranno durare in quella comunità. Qual è infatti il distintivo del monaco, se non il disprezzo del mondo? In che modo disprezzano il mondo coloro che nel monastero cercano danaro? La tua esperienza faccia quindi in modo che non sia differito il riordinamento di questo monastero e non pervengano a me ancora lamentele su questa faccenda.
Inoltre, il carissimo figlio mio defunto, Claudio, mentre io discorrevo sui Proverbi, il Cantico dei Cantici, i Profeti, i libri dei Re, l'Eptateuco, aveva colto alcune cose, che io per la malattia non potevo trasmettere per iscritto. Egli le dettò secondo il suo senso, perché non cadessero nell'oblio, con l'intento che al momento opportuno me le sottoponesse e fossero dettate in forma emendata. Ma, avendomele lette, riscontrai che il senso delle mie parole era stato in forma molto dannosa mutato. Perciò è necessario che la tua esperienza, messo da parte ogni pretesto e senza alcun indugio, vada nel suo monastero, faccia radunare i fratelli, i quali, con tutta coscienza, mettano fuori tutte le carte sui diversi passi della Scrittura che l'abate Claudio ha portato via con sé. Tu prendile e mandamele al più presto.
Sul tuo ritorno poi, poiché abbiamo saputo che hai avuto molti fastidi, pensiamo a Dio piacendo, più in là.
Ci è stato riferito da alcuni che il reverendissimo fratello e coepiscopo mio Mariniano nelle veglie fa leggere pubblicamente il commento al santo Giobbe. La notizia non mi ha fatto piacere, perché quella non è un'opera popolare e negli ascoltatori incolti produce più danno che vantaggio spirituale. Digli piuttosto che nelle veglie faccia leggere i commenti dei salmi, che in particolare forgiano i cuori dei secolari nei buoni costumi. Né voglio, finché sono in questa vita, se qualcosa mi tocca di aver detto, che sia facilmente resa nota agli uomini. Infatti ho appreso a malincuore che il diacono Anatolio di carissima memoria, diede al signor imperatore [Maurizio] che glielo chiedeva e glielo comandava, il libro della “Regola pastorale”, che il santissimo fratello e coepiscopo mio Anastasio di Antiochia ha tradotto in greco. Come mi è stato scritto, gli piacque molto, ma a me è dispiaciuto anche molto, perché chi ha di meglio da fare si occupi di cose insignificanti. Nella terza parte del commentario al santo Giobbe, nel versetto in cui è scritto: “So che il mio redentore vive” temo che il fratello e coepiscopo mio Mariniano abbia un codice errato. Infatti, nel nostro archivio il medesimo passo si presenta diverso da come ho saputo essere in altri codici. Per questo ho fatto dare risalto a questo passo, perché come esso è nel nostro archivio, così lo abbia anche questo mio fratello spesso ricordato. Si tratta di quattro parole che, se mancano a quel posto, possono ingenerare non piccolo inciampo nel lettore. Esegui celermente e minutamente questi incarichi. E se non riesci a far nulla presso l'eccellentissimo esarca [Callinico] cerca di non apparire negligente in quello che puoi.
Che dirò poi del posto di Albino, a riguardo del quale mi si risponde apertamente contro la giustizia? Quanto ad esso, tuttavia, devi darti pensiero con maggior rigore.
Inoltre, qualche tempo fa avevo comandato alla tua esperienza di adoperarsi presso l'eminentissimo figlio nostro il prefetto [Giovanni], che bisognava affidare la cura delle condutture idriche ad Augusto, uomo chiarissimo, per il fatto che è un individuo del tutto sollecito e dinamico. Ma tu a tutt'oggi hai procrastinato, tanto da non indicarci neppure ciò che hai fatto. Per questo, almeno adesso, affrettati ad agire con ogni impegno presso lo stesso eminentissimo figlio nostro, perché le condutture siano assolutamente affidate al predetto uomo chiarissimo, perché con la sollecitudine riesca a riparare qualcosa in esse. Infatti sono così trascurate e abbandonate che, se non ci sarà una cura maggiore, in poco tempo andranno del tutto in rovina. Pertanto, come sai quanto la faccenda sia necessaria e di generale utilità, così devi adoperarti, come ho detto, che tali condotte siano in tutti i modi affidate alla predetta persona per la sua sollecitudine.
Note602 d.C., gennaio. Il suddiacono Giovanni è “apocrisarius”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Nella lettera Gregorio Magno indica la circolazione delle sue opere: appunti dei suoi commenti esegesi erano nel monastero di Classe retto dall’amico Claudio; l’arcivescovo Mariniano usava il commento a Giobbe nelle omelie, secondo una versione però probabilmente contenente errori; l’imperatore Maurizio (regno: 582-602 d.C.) aveva ricevuto copia della Regola Pastorale, che il patriarca di Antiochia Anastasio aveva tradotto in greco. Claudio, romano e collaboratore di papa Gregorio, era stato abate di SS. Giovanni e Stefano in Classe: viene citata la sua attività di discepolo che scriveva appunti dei commenti alle sacre Scritture che faceva Gregorio Magno, senza però, evidentemente, capire bene ciò che ascoltava. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Anatolio era stato il rappresentante ufficiale di Gregorio Magno a Costantinopoli. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Il prefetto del pretorio Giovanni, responsabile amministrativo e giuridico d’Italia sotto l’autorità dell’Esarco, risiedeva a Ravenna: è membro della burocrazia civile che dovette ancora esistere nell’Italia imperiale anche dopo l’istituzione dell’Esarcato. Augusto, “vir clarissimus” di Ravenna, fu pure un curiale, cioè un membro della nobiltà cittadina coinvolto nella gestione della città, e in particolare sarà “curator formarum”, responsabile dell’approvvigionamento idrico. Il cellerario era il responsabile dell’approvvigionamento e conservazione del cibo in un monastero.
Testo originaleGregorius Firmino episcopo Istriae.
Quem redemptor noster de servorum suorum numero perire non patitur, ita misericordiae suae inspiratione cor eius illustrat, ut deserto erroris obscuro ad cognitionem lucis et viam redeat veritatis. Unde suscepta carissimae fraternitatis tuae epistula magna in Domino exsultatione gaudemus, quod divina te gratia ad unitatem ecclesiae, a qua pertinacium et imperitorum hominum instinctione disiunctus fueras revocavit. Sed quia quantum antiquus hostis superatum se conspicit, tanto insidiari acrius non quiescit, omnino sollicitum vigilantem que te esse convenit atque scutum constantiae contra iacula ipsius praeparare, ut illisa frangantur et vim interius penetrandi non habeant. Nulla ergo te, frater carissime, rerum desideria, nulli terrores, nulla blandimenta, nullae seductiones, quae venenatis verborum sagittis animas feriunt, a reversionis tuae fervore demolliant aut retro redire compellant, ne, qui fortiter superaveras, graviter supereris et captivus, quod absit, post victoriam tenearis. Sed magis ut mater ecclesia per totum Deo propitio orbem diffusa ad suum te redisse gremium non inertem agnoscat, studiosissime tibi vigilandum ac laborandum est, ut te cum possis et alios revocare, quatenus damna quae aversionis tuae exemplo commiseras non solum reversionis bono resarcias sed etiam lucrum exhibeas, ut et ad promerendam praeteritorum veniam et futurorum praemia capessenda plus domino tuo videaris revocasse quam tuleras.
Nobis igitur omnino curae erit de fraternitatis tuae quiete, ut dignum est, cogitare, quia, postquam nobis cum iam Deo protegente unus es, non aliter utilitates tuas quam nostras attendimus. Aliqua vero nobis de necessitatibus vestris Iohannes subdiaconus scripsit. Sed credimus de Dei nostri potentia quia sanctus Petrus, ad quem reversi estis, vos deserere non habet. Modo autem de benedictione eiusdem sancti Petri transmisimus fraternitati vestrae paraturam unam, quam vos necesse est cum ea caritate qua a nobis est transmissa suscipere.
TraduzioneGregorio a Firmino, vescovo dell’Istria.
Quello dei suoi servi che il nostro Redentore non vuole che si perda, lo illumina nel cuore con l'ispirazione della sua misericordia in modo che, abbandonata l'oscurità dell'errore, egli ritorni alla conoscenza della luce e alla via della verità. Perciò, avendo ricevuto la lettera della tua carissima fraternità, abbiamo goduto di grande esultanza, perché la grazia di Dio ti ha richiamato all'unità della Chiesa, dalla quale ti eri allontanato per istigazione di uomini caparbi e ignoranti. Ma poiché l'antico avversario quanto più si vede vinto, tanto più non cessa di insidiare con violenza, ti conviene essere sollecito e vigilante e preparare lo scudo della costanza contro le sue frecce, perché queste, sbattendoti contro, si rompano e non abbiano la forza di penetrare dentro. Nessun desiderio di beni, fratello carissimo, nessun terrore, nessuna lusinga, nessuna seduzione, che ferisce l'anima con i dardi avvelenati, ti raffreddino nel fervore del ritorno e ti costringano a tornare indietro, affinché tu che con energia hai vinto, non sia a tua volta gravemente superato e — ciò che sia lungi da noi — dopo la vittoria, sia tenuto prigioniero. Ma piuttosto devi con ogni cura vigilare e faticare perché la madre Chiesa diffusa, per il favore di Dio, in tutto il mondo, riconosca che non sei ritornato al suo grembo inerte, in modo che tu possa chiamare anche altri con te e il danno compiuto con l'esempio del tuo allontanamento non solo sia da te risarcito con il bene del tuo ritorno, ma tu vi aggiunga pure il guadagno. E così, sia per meritare il perdono dei peccati commessi in passato, sia per ottenere i premi futuri, tu sembri aver portato al tuo signore più di quanto avevi tolto.
Sarà somma nostra cura pensare alla quiete della tua fraternità, come è giusto, perché dopo che, con la protezione di Dio, sei divenuto una cosa sola con noi, non badiamo ai tuoi interessi meno che ai nostri. Il suddiacono Giovanni ci ha scritto qualcosa sulle tue necessità. Ma noi crediamo, per la potenza del nostro Dio, che san Pietro, al quale sei tornato, non ti abbandoni. Ora abbiamo inviato un parato ricavato dalle reliquie dello stesso san Pietro che devi accettare con quella carità con la quale ti è stato inviato.
Note602 d.C., marzo. Lo scisma citato è quello dei Tre Capitoli, molto vivo nel nord Italia e sulla costa adriatica orientale tra VI e VII sec. Il suddiacono Giovanni è “apocrisarius”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Firmino era vescovo di Trieste.
Testo originaleLator praesentium Iohannes frater et coepiscopus noster aliqua nobis de causis ecclesiae suae dato capitulari noscitur intimasse. Quibus cognitis culpanda a nobis experientia tua fuerat, si ad te perlata hactenus indefinita remanserint, sed inquirentes agnovimus quod ad notitiam tuam minime sint perducta. Ipsum ergo quod nobis capitulare porrectum est his fecimus subter adnecti. Agnitis itaque omnibus ac discussis si ita apud te esse, ut suggestum est, manifesta veritate patuerint, fratrem et coepiscopum nostrum Marinianum adire te volumus eum que modis omnibus adhortari ut his, quorum inter in peragendis negotiis ecclesiae ipsius esse dinoscitur, debeat deputare, quatenus perpensis omnibus cum praedicto viro de his quae mota fuerint ecclesiastica inter se debeant tranquillitate decidere. Sin vero elegerint renitendum, experientia tua immineat esse iudicium et, quicquid cognitorum inter eos fuerit sententia definitum, te debeat exsequente compleri, ne diutinis protractionibus dilato paupertas ecclesiae ipsius diversis, sicut iam factum asserit, dispendiis ingravetur.
Indicavit etiam nobis quod quidam Exuperantius episcopus ausu temerario in diocesi ipsius oratorium construxerit eum que sine praecepti auctoritate contra morem praesumpserit dedicare missas que illic publicas celebrare non metuit. Quam rem cum summa te celeritate ac districtione convenit emendare nec ulterius tale aliquid attemptari permittere. Oraculum vero quod incompetenti persona reppereris esse constructum huic proprio te volumus episcopo, si res, ut dictum est, ita se habere constiterit, sine mora aliqua reformare.
TraduzioneGregorio a Giovanni, suddiacono a Ravenna.
Il latore della presente, il fratello e coepiscopo nostro Giovanni, ci ha, segnalato, presentando una istruzione scritta, alcune cose relative agli interessi della sua chiesa. Conosciuta la situazione, avremmo dovuto incolpare la tua esperienza, se le cose ti fossero state riferite e fossero rimaste a tutt'oggi non sistemate. Ma esse, da quanto abbiamo riscontrato, non erano state portate a tua conoscenza. Perciò abbiamo fatto annettere in calce a questa lettera l'istruzione che è stata presentata. Conosciuti perciò e discussi tutti i particolari, se ti risulta chiaramente che le cose stanno davvero come ci è stato esposto, vogliamo che tu avvicini il fratello e coepiscopo nostro Mariniano e che lo esorti in tutti i modi a dare incarico a coloro, tra i quali si sa che egli si ritrova nel trattare gli affari della sua chiesa, perché, considerati tutti gli aspetti della situazione, risolvano, con la serenità propria di chi fa parte della chiesa, con il predetto vescovo ciò che si agita in questa controversia, Se poi decideranno di fare resistenza, la tua esperienza si occupi di far celebrare il giudizio e tutto ciò che sarà definito tra loro per la sentenza dei giudici vogliamo che debba essere compiuto sotto il tuo controllo, affinché, rimandata la cosa con lunghe proroghe, la povertà della chiesa del vescovo Giovanni, come egli asserisce che è già avvenuto, non sia gravata da spese d'ogni genere.
Ci ha anche detto che un certo vescovo Esuperanzio ha costruito temerariamente un oratorio nella sua diocesi, che ha osato consacrare senza l'autorità, come si fa di solito, di un decreto e non teme di celebrare ivi pubblicamente le Messe. Questo fatto conviene che tu lo elimini con la massima urgenza e severità: non permettere che la cosa si ripeta ancora. L'oratorio che riscontrerai essere stato costruito da una persona inadatta vogliamo che tu lo attribuisca immediatamente — se le cose risulteranno così come è stato detto — al proprio vescovo Giovanni.
Note603 d.C., gennaio. Il suddiacono Giovanni è “apocrisarius”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Non si conosce la sede dei citati vescovi Giovanni ed Esuperanzio, ma sembrano essere suffraganei della sede di Ravenna.
Testo originaleGregorius Bonifatio notario [Constantinopolim].
Ea quae nobis experientia tua de Iohanne Ravennati clerico indicavit facere idcirco distulimus, quia in absenti de qualitate personae iudicare non possumus. Sed hortare eum ut ad nos venire festinet, quatenus in praesenti mores et personam ipsius subtiliter addiscentes, quid de his quae petit fieri debeat sine dubietate aliqua disponamus.
TraduzioneGregorio a Bonifacio notaio [a Costantinopoli].
Abbiamo rimandato di fare quello che la tua esperienza ci indicava riguardo a Giovanni, chierico di Ravenna, perché, nell'assenza dell'interessato, non possiamo giudicare della qualità di una persona. Ma esortalo a venire subito da noi, perché informandoci con esattezza direttamente dei costumi e della sua persona, disponiamo senza alcuna titubanza che cosa bisogna fare di ciò che chiede.
Note603 d.C., febbraio. Non si conoscono altrimenti i protagonisti della lettera.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennati.
Multa nos, fratrum carissime, cogit infirmitas, ex quibus, si sani essemus, iure reprehensibiles videremur. Sed quia aliter subsistere in hoc fragili corpore positi non valemus, nisi eius languoribus serviamus, erubescere quod imponit necessitas non debemus. Et ideo quoniam eruptionem sanguinis patientibus ieiunia medici omnino dicunt esse contraria, his fraternitatem tuam hortamur affatibus ut, reducens ad animum ea quae de aegritudine ipsa est solita sustinere, ieiunandi sibi laborem minime imponat. Si autem Deo miserante adeo melioratam se esse ac virtutem suam sufficere posse cognoscit, semel aut bis in ebdomada ieiunare permittimus. Sed illud te prae omnibus studere convenit, ut exasperationem sentire nullomodo debeas, ne aegritudo, quae modo levior et quasi suspensa creditur, per exacerbationem postmodum gravius sentiatur.
TraduzioneGregorio a Mariniano, vescovo di Ravenna.
La malattia, fratello carissimo, ci costringe a fare molte cose, per le quali, se fossimo sani, saremmo giustamente riprovevoli. Ma poiché non si può, posti come siamo in questo fragile corpo, stare in piedi se non ci assoggettiamo alle sue debolezze, non dobbiamo arrossire di quello che ci impone la necessità. Perciò, siccome i medici dicono che i digiuni sono controindicati per coloro che soffrono di emorragia, con questa lettera esortiamo la fraternità tua che, pensando a quello che essa è solita sopportare per la malattia stessa, non si imponga assolutamente la fatica del digiuno. Se poi, per la misericordia di Dio, si vede tanto migliorata da avere forza sufficiente, le permettiamo di digiunare una o due volte la settimana. Ma a questo deve anzitutto badare: che non ne senta in alcun modo l'irritazione, perché la malattia che ora si è alleviata e sembra quasi sospesa non si faccia sentire poi in modo più grave per l'inasprimento.
Note603 d.C., marzo. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C.
Testo originaleGregorius Smaragdo patricio et exarcho.
Olim novimus, excellentissime fili, quo desiderio quave concursione animi pro adunanda Dei ecclesia in Histriae videlicet partibus zelo redemptoris nostri, amore mercedis studii vestri fervor exstiterit. Quod cum ita sit, ea quae nobis de illis nuper sunt partibus nuntiata ad vestram non destitimus perferre notitiam. Firminus siquidem frater et coepiscopus noster Tregestinae antistes ecclesiae ante adventum vestrae excellentiae salubri consilio ab scismate quo inhaeserat resipiscens atque ad unitatem matris ecclesiae rediens nostris est epistulis confirmatus, quatenus in verae quod agnoverat sinum matris ecclesiae fortitudine animi fixus ac stabilis permaneret. Quo audito Severus Gradensis episcopus eiusdem caput scismatis eum diversis primum coepit, si posset, suasionibus a bono revocare proposito. Quod dum perficere auctore Deo minime valuisset, seditionem illi suorum civium excitare non timuit. Quanta vero praedictus frater et coepiscopus noster Firminus ex eadem immissione pertulerit, plenius illic ac veracius e vicino poteritis agnoscere. Directis itaque excellentiae vestrae iussionibus his qui in Histriae partibus locum vestrum agere Deo auctore noscuntur districtius iubetote, quatenus et saepe dictum fratrem nostrum ab illatis debeant defensare molestiis et quietem illius multis ad imitandum profuturam modis omnibus procurare, ut haec vestra provisio et conversorum sit optata securitas et occasio apta sequentium. Excellentiam quapropter vestram paterno salutantes affectu, petimus ut zelus vestri in hac causa olim exhibiti nunc vehementius fervor incandeat tanto que vos contra se hostes Dei vindices defensores que repperiant, quanto apud Deum pretiosior est animae quam defensio corporalis. Armet vos contra devios ipsa quae in vobis viget fidei rectitudo, redintegretur vestris temporibus quod in illis est partibus scissum corpus ecclesiae. Habetis in hac causa retributorem vestri operis, rectitudinis ac integritatis auctorem. De divina namque miseratione confidimus quod tanto exteriores hostes nostri valentiores vos contra se repperient, quanto vos inimici rectae fidei divino in se senserint amore terribiles.
Praeterea duas ad Accillanem epistulas misimus, si pacem quae ab excellentia vestra in triginta diebus facta est custodiret. Et rescripsit eam se servaturum, si tamen ipsi a reipublicae partibus fuerit custodita. Homines autem illos quos tenuerat omnes cum rebus suis relaxavit. Sed de occisis hominibus suis valde dolebat atque nobis vehementer suspectus est, quia, si, quod Deus avertat, locum invenerit, etiam in pace eum non est dubium excessurum.
Ad Pisanos autem hominem nostrum dudum, qualem debuimus et quomodo debuimus, transmisimus. Sed obtinere nil potuit. Unde et drumones eorum iam parati ad egrediendum nuntiati sunt.
TraduzioneGregorio a Smaragdo, patrizio ed esarca.
Da molto tempo conosciamo, eccellentissimo figlio, con quanto desiderio e con quanta intima partecipazione, per l'amore verso il nostro Redentore e il desiderio del premio eterno, si è levato il fervore del vostro zelo nel ricomporre l'unità della Chiesa di Dio nelle regioni dell'Istria. Stando così le cose, non esitiamo a farvi conoscere ciò che or ora ci è stato detto riguardo a quella località. Firmino, fratello e coepiscopo nostro di Trieste, prima dell'arrivo della vostra eccellenza, pentendosi dell'adesione data allo scisma e ritornando all'unità della madre chiesa, è stato confermato da una nostra lettera, affinché rimanesse fisso e stabile con fortezza d'animo in quello che aveva riconosciuto come il seno della vera Chiesa. Saputo questo Severo, vescovo di Grado, capo di questo scisma, prima cominciò, con diverse forme di persuasione, nella speranza di farcela, a richiamando dal suo buon proposito. Non essendoci assolutamente riuscito per opera di Dio, non esitò a suscitargli contro una sedizione dei suoi cittadini.
Quanto questo nostro fratello e coepiscopo Firmino abbia sofferto da tale istigazione, lo potrete conoscere in modo più completo e più vero costì, stando vicino. Perciò con l'invio di disposizioni dell'eccellenza vostra a coloro che nelle regioni dell'Istria compiono, con l'aiuto di Dio, le vostre veci, comandate con tutta severità, che difendano questo nostro fratello dalle molestie e procurino in tutti i modi la sua quiete, che gioverà a molti perché lo imitino. Questo vostro intervento infatti sia motivo della sicurezza desiderata dai convertiti e stimolo adatto per coloro che ne seguono l'esempio. Perciò, porgendo con paterno affetto i nostri saluti all'eccellenza vostra, chiediamo che il fervore del vostro zelo una volta mostrato in questa causa si accenda maggiormente e che i nemici vi sentano contro di se tanto più vindice e difensore di Dio, quanto presso Dio è più preziosa la difesa dell'anima che la difesa del corpo. La rettitudine della fede che urge in voi vi armi contro quelli che deviano e si ricomponga sotto il vostro governo l'unità del corpo della chiesa che in quelle regioni è scisso. Avete dalla vostra parte in questa causa colui che retribuisce la vostra opera, l'autore della rettitudine e dell'integrità. Confidiamo infatti nella divina misericordia che i nostri nemici esterni vi troveranno contro di sé tanto più forte, quanto più i nemici della retta fede vi sentiranno contro di sé terribili per amore di Dio.
Abbiamo poi inviato due lettere ad Accilane, per sapere se avrebbe osservata la tregua di trenta giorni fatta dall'eccellenza vostra. E ha risposto che l'osserverà se tuttavia da parte dello Stato romano sarà mantenuta nei suoi riguardi. Ha rimandato con le loro cose tutti gli uomini che teneva con sé. È tuttavia molto addolorato per i suoi uomini uccisi e rimane terribilmente sospetto a noi, perché se — ciò che Dio tenga lontano — ne trova l'opportunità, anche durante la tregua, non c'è dubbio che attaccherà.
Ai Pisani abbiamo inviato recentemente un nostro uomo, quale dovevamo e come dovevamo. Ma egli non ha potuto ottenere nulla, per cui ci hanno detto che i loro dromoni sono pronti a partire.
Note603 d.C., giugno. La missiva era diretta a Ravenna in quanto residenza dell’esarco. Esarcato di Smaragdo: I mandato 585/586-588/589 d.C., II mandato 603-608 d.C. Lo scisma citato è quello dei Tre Capitoli, molto vivo nel nord Italia e sulla costa adriatica orientale tra VI e VII sec. Il patriarca Severo di Aquileia, residente a Grado, e i vescovi dell’Istria aderivano allo scisma dei Tre Capitoli ormai da oltre mezzo secolo, per il quale erano soprattutto in rottura con Costantinopoli che con Roma. Il duca longobardo Accilane aveva sottoscritto una tregua con l’Esarco: non si sa la sua sede, quindi non è chiaro se fosse in contatto con Pisa che, essendo in mano longobarda, era base per operazioni navali contro i Bizantini, forse anche contro Roma, come sembra paventare Gregorio Magno da parte di Accilane.
Testo originaleGregorius Mariniano episcopo Ravennae.
Quia incongruum valde est a suscepto officio sola quemquam voluntate suspendi, quem culpa non removet, sollicite disponendum est ut nec prior ordinatio irrationabiliter destruatur nec sine emendatione quae male secuta fuerint relinquantur. Fortunatus itaque lator praesentium in monasterio sanctorum Laurentii atque Zenonis, quod in Caesinati castro est constitutum, a Natale quondam episcopo officium sibi abbatis asserens esse commissum, nunc se a successore eius Concordio nulla exsistente culpa exinde remotum atque alium in loco suo queritur ordinatum. Quod etiam coram quibusdam diaconibus nostris, praesente praedicti Concordii diacone eiusdem episcopi sui causas allegante, ex parte ita esse perclaruit. Sed quoniam certior in partibus illis, ubi res acta est, potest esse probatio, fraternitas tua diligenter atque sollicite hoc studeat perscrutari. Et si nulla manifeste causa depositionis exstitit, quae praedictum Fortunatum ab abbatis officio removeret, eum in suo loco reformare festinet atque eius episcopum digna reprehensione increpare non desinat, cur decessoris sui nullis provocatus excessibus destruere ordinationem molitus est. Si vero aliter, quam edocti sumus, causam esse pars altera dixerit, subtili veritas investigatione quaerenda est et ita, quicquid canonicus ordo poposcerit, terminandum, ut nulla ea de re denuo querella remaneat.
TraduzioneGregorio a Mariniano, vescovo di Ravenna.
Poiché è molto incongruente che uno, il quale non è rimorso da colpa, sia sospeso dal proprio ufficio per solo arbitrio, bisogna provvedere con urgenza che né il precedente ordinamento sia irrazionalmente distrutto, né si lasci senza correzione ciò che malamente è seguito dopo. Fortunato, latore della presente lettera, il quale asserisce che gli fu affidato dal defunto vescovo Natale l'ufficio di abate nel monastero dei santi Lorenzo e Zenone, che sorge nel castro di Cesena, si lamenta ora che è stato rimosso, senza colpa alcuna, di lì dal successore di Natale, Concordio, e che un altro è stato ordinato al suo posto. Il fatto è risultato in parte vero, anche davanti ad alcuni nostri diaconi, essendo presente il diacono del predetto Concordio che allegava i motivi del suo vescovo. Ma poiché l'esame della situazione può risultare piú sicuro nei posti in cui la cosa è avvenuta, la fraternità tua si adoperi con diligenza e con sollecitudine ad indagare su questa faccenda. E se non vi è alcun motivo manifesto di deposizione, atto a rimuovere questo Fortunato dall'ufficio di abate, si affretti a reintegrarlo nel suo posto e non rinunci a rimproverare con adeguata riprensione il suo vescovo, chiedendogli perché, senza essere spinto da mancanza, abbia pensato di annullare l'ordinamento del suo predecessore. Se poi la parte avversa dirà che la causa sta in modo diverso da come abbiamo appreso, bisogna cercare con minuta indagine la verità e stabilire tutto quello che l'ordinamento canonico esige, di modo che non rimanga ancora su tale questione nessuna lagnanza.
Note603 d.C., ottobre. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. La lettera restituisce le più antiche notizie di membri e luoghi di culto della chiesa di Cesena.
Testo originaleGregorius Iohanni episcopo.
Ne incauta eorum ordinatio qui ad episcopatum eliguntur valeat provenire, vigilanti de eorum personis est sollicitudine requirendum. Indicatum siquidem nobis est Florentinum archidiaconem ecclesiae Anconitanae, qui ad episcopatum electus fuerat, scripturae quidem sacrae scientiam habere sed ita aetatis esse senio iam confractum, ut ad regiminis officium non possit assurgere. Addentes etiam ita illum tenacem exsistere, ut in domo eius amicus ad caritatem numquam introeat. Rusticus autem diaconus eiusdem ecclesiae, qui similiter electus fuerat, vigilans quidem homo dicitur sed, quantum asseritur, psalmos ignorat. Florentinum vero diaconem ecclesiae Ravennatis, qui electus ab omnibus memoratur, sollicitum esse novimus, sed qualis sit interius non scimus. Ideo que fraternitas tua una cum fratre et coepiscopo nostro Armenio suprascriptae ecclesiae Anconitanae visitatore illic festinet accedere et diligenter de vita ac moribus singulorum requirere vel si nullo sibi sunt crimine conscii, quod eos ad hoc officium vetet accedere. Pariter etiam requirendum est, si hoc quod de praefato archidiacono dictum est quia numquam amicus domum eius ingressus est, ita se veritas habeat et utrum ex necessitate an ex tenacia talis sit aut si ita senex est, ut ad regendum non possit assurgere, vel si tactis sacrosanctis evangeliis, sicut nobis nuntiatum est, iusiurandum praebuit numquam se ad episcopatum accedere. Sed et de Rustico diacono, quantos psalmos minus teneat perscrutandum est. Florentino autem diacono Ravennati si nullum, sicut diximus, crimen est quod obsistat, apud episcopum eius agi necesse est, ut ei debeat cessionem concedere, non tamen ex nostro mandato vel dicto, ne contra suam eum voluntatem cedere videatur. Sed hoc, ut norunt hi qui eum eligunt, ex se agant. Tu vero de singulis cum omni studio ac sollicitudine omnia quae scripsimus requirere atque nobis stude subtiliter indicare, ut renuntiatione tua redditi certiores, quid post hoc Deo auctore fieri debeat disponamus.
TraduzioneGregorio al vescovo Giovanni.
Perché non risulti imprudente l'ordinazione di coloro che sono eletti all'episcopato, bisogna con vigilante sollecitudine indagare sulle persone. Ci è stato indicato che Fiorentino, arcidiacono della chiesa di Ancona, il quale è stato eletto all'episcopato, possiede sì la scienza della sacra Scrittura, ma è talmente ormai debilitato dalla vecchiaia che non può assurgere all'ufficio della guida episcopale. Aggiungono poi che egli è talmente avaro che in casa sua non entra mai un amico per esservi ricevuto. Rustico poi, diacono della stessa chiesa, che è stato ugualmente eletto, si dice che sia certamente vigilante, ma, a quanto si asserisce, ignora il salterio. Fiorentino, diacono della chiesa di Ravenna, che si dice eletto da tutti, sappiamo che è sollecito, ma non conosciamo come sia interiormente. Perciò la fraternità tua, assieme al fratello e coepiscopo nostro Armenio, visitatore della Chiesa di Ancona, si affretti a recarsi ivi e a indagare diligentemente sulla vita e i costumi dei singoli e a vedere se non sono colpevoli di alcun delitto che vieti loro di accedere a questo ufficio. Bisogna ugualmente ricercare se è vero ciò che è stato detto di questo arcidiacono, che cioè mai un amico è entrato in casa sua e se sia così per necessità o per avarizia e se è talmente vecchio da non essere capace di assumere la guida di una chiesa e se, come ci è stato riferito, ha prestato giuramento sui sacrosanti vangeli, che non sarebbe mai acceduto all'episcopato. Ma anche del diacono Rustico bisogna scrutare quanti salmi gli manchino. Riguardo al diacono Fiorentino di Ravenna, qualora non c'è, come si è detto, nessun delitto che gli sia di impedimento, bisogna trattare con il suo vescovo, che gli dia il congedo dalla diocesi e questo tuttavia non per nostro mandato e per averlo detto noi, perché non sembri che lo ceda contro la propria volontà. Ma questo, come sanno quelli che lo eleggono, lo facciano da sé. Quanto a te, cerca con ogni zelo e sollecitudine di indagare, riguardo ai singoli, tutto quello che abbiamo scritto e di riferircelo minutamente, perché, resi più sicuri dalla tua relazione, disponiamo quello che, con l'aiuto di Dio, si debba fare.
Note603 d.C., dicembre. Giovanni era vescovo di Rimini. Non si conosce la sede del citato vescovo Armenio.
Testo originaleLevatus est Maximus praesumptor in Dalmatias contra votum domni papae Gregorii a militibus per indictionem undecimam et in contumacia vel praesumptione fuit annis VII. Post haec, post castigationem et flagella beatissimi atque apostolici papae Gregorii egressus de Dalmatias venit in civitate Ravennate ad beatissimum Marinianum archiepiscopum et iactavit se tensus intra civitatem in media silice clamans et dicens: "Peccavi Deo et beatissimo papae Gregorio". Et acta paenitentia per tribus horis, tunc cucurrit exarchus Callinicus, Castorius cartularius ecclesiae Romanae cum archiepiscopo Mariniano, et levatus coepit ampliorern paenitentiam coram eis agere. Tunc duxit eos ad sanctum corpus beati Apollinaris et iuravit se de omnia quae adversus eum dieta de mulieribus vel escismate simoniaco fuerant mixtum se non esse. Tunc revertens Castorius cartularius adduxit secum diaconem eiusdem Maximi, nomine Stephanum. Relato omnia, quae a Maximo satisfacta essent, tunc motus ad misericordiam beatissimus papa Gregorius direxit pallium ad confirmationem eiusdem episcopi, id est VIII Kalendas Septembris indictione secunda.
TraduzioneMassimo, l'usurpatore, fu elevato all'episcopato nella Dalmazia ad opera dei soldati, contro la volontà del papa Gregorio nella undecima indizione e rimase in contumacia nello stato di usurpatore sette anni. In seguito, dopo i castighi e i flagelli inflittigli dal beatissimo e apostolico papa Gregorio, mossosi dalla Dalmazia venne nella città di Ravenna dal beatissimo arcivescovo Mariniano e si gettò disteso nella città sul nudo selciato gridando e dicendo: “Ho peccato contro Dio e il beatissimo papa Gregorio”. Avendo così fatto penitenza per tre ore, corsero l'esarca Callinico, Castorio, cartulario della chiesa romana, con l'arcivescovo Mariniano ed egli, levatosi da terra, cominciò a fare più ampia penitenza alla loro presenza. Allora li condusse al corpo di sant'Apollinare e giurò di non essere mischiato in tutto ciò che era stato detto contro di lui riguardo alle donne e allo scisma simoniaco. A questo punto, ritornato il cartulario Castorio, portò con sé il diacono dello stesso Massimo, di nome Stefano. Avendo ricevuto relazione di tutto ciò che era stato compiuto a riparazione dei peccati da Massimo, mosso quindi a compassione, il papa Gregorio gli inviò il pallio a conferma della elezione episcopale e ciò il giorno 25 agosto della seconda indizione.
NotePost 599 d.C., agosto. Massimo aveva ottenuto in modo illegittimo il titolo episcopale di Salona nel 592 d.C., e dopo alcuni anni di lotta, si sottomette ad un tribunale ecclesiastico a Ravenna, formato dai citati vescovi di Ravenna e Milano. Episcopato di Mariniano di Ravenna: 595-606 d.C. Esarcato di Callinico: 596/597-602/603 d.C. Il notaio, qui “cartularius”, responsabile della redazione dei documenti, Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleEpistula Iohannis episcopi Ravennatis ad Gregorium apostolicum papam de usu pallii et de mappulis.
Reverentissimus conservus meus Castorius, apostolicae sedis vestrae notarius, reddidit mihi domni mei epistulam, consortem mellis et vulneris. Quae sic tamen infixit aculeos, ut locum non subtraheret medicinae. Nam qui superbiam divinum sequens iudicium reprehendit, merito se mitem ac placidum quodammodo profitetur.
Commemorastis igitur quod ego novitatis ambitione pallii usum supra quam antecessoribus meis indultum fuerat usurpassem. Quam rem proprii domni mei conscientia, quae divina dextera regitur, nullomodo credere patiatur nec opinionis incerto aures sacratissimas aperire. Primum licet peccator novi tamen quam grave sit terminos a patribus affixos transcendere, et quod omnis elatio nihil aliud habeat quam ruinam. Nam si maiores nostri in regibus superbiam non tulerunt, quanto magis non est in sacerdotibus sustentanda? Deinde recolo me in sinu atque gremio sacrosanctae ecclesiae vestrae Romanae et nutritum et Deo auxiliante provectum. Et quibus excessibus ego sanctissimae illi sedi, quae in universali ecclesia iura sua transmittit, praesump¬serim obviare, propter cuius conservandam auctoritatem, sicut Deo manifestum est, multorum contra me inimicorum invidiam graviter excitavi? Sed beatissimus domnus meus nihil me contra priscam consuetudinem estimet attemptasse, quod et a multis et prope ab omnibus civibus huius urbis, etiam inter gesta si acquievisset suprascriptus reverentissimus notarius, potuerat attestari, quoniam iam de secretario descendentibus filiis ecclesiae et ingredientibus diaconibus ut mox procedatur, tunc primus diaconus episcopo Ravennatis ecclesiae pallium consuevit induere; quod et in letaniis sollemnibus uti pariter consuevit.
Nullus ergo contra me domno meo conetur subripere, quia si vult Deo custode non potest, quod a me aliqua fuisset novitas introducta. Qualiter enim iussionibus vel utilitatibus vestris ubi causa exigit parverim, omnipotens Deus cordi vestro purissimo faciat manifestum. Et hoc peccatis meis imputo, ut post tot labores atque angustias, quas intus forisque sustineo, talem vicissitudinem merear invenire. Sed iterum illa res me inter alia consolatur, quod interdum sanctissimi patres ob hoc tantummodo castigant filios, ut eos faciant potiores, et post hanc devotionem ac satisfactionem sanctae Ravennati ecclesiae, quae peculiariter vestra est, non solum vetera privilegia conservetis sed et maiora vestris temporibus conferatis.
Nam quod de mappulis a presbiteris et diaconibus meis praesumptum apostolatus vester scripsit, vere fateor, taedet me exinde aliquid commemorare, cum per se veritas, quae apud domnum meum sola praevalet, ipsa sufficiat. Nam cum hoc minoribus circa urbem constitutis ecclesiis licitum sit, poterit etiam apostolatus domni mei, si venerabilem clerum primae apostolicae sedis suae requirere dignatur, modis omnibus invenire, quia quotiens ad ordinationem episcopatus seu responsi sacerdotes vel levitae Ravennatis ecclesiae Romani venerunt, quod omnes in oculis sanctissimorum decessorum vestrorum cum mappulis sine reprehensione aliqua procedebant. Quare etiam eo tempore, quo istic a prodecessore vestro peccator ordinatus sum, cuncti presbiteri et diaconi mei in obsequio domni papae mecum procedentes usi sunt. Et quia providens Deus noster omnia in manu vestra et in conscientia purissima collocavit, adiuro vos per ipsam sedem apostolicam, quam antea moribus nunc etiam honore debito gubernatis, ut in nullo Ravennati ecclesiae, quae familiariter vestra est, pro meo merito privilegia quibus hucusque usa est minuatis, sed ut, secundum vocem propheticam, in me et in domo patris mei secundum sui meritum transferantur. Quia ego universa privilegia, quae sanctae Ravennati ecdesiae a prodecessoribus vestris indulta sunt, pro maiori satisfactione subieci, eorum in scriniis venerabilibus secundum consecrationis decessorum meorum tempora fidem nihilominus repperiens. Nunc vero in Dei et in vestra est potestate quicquid veritate cognita fieri iusseritis, quoniam ego iussionibus apostolatus domni mei parere desiderans, quamvis antiqua consuetudo obtinuit, usque ad secundam iussionem abstinere curavi.
TraduzioneEpistola di Giovanni vescovo di Ravenna a Gregorio apostolico papa sull’uso del pallio e dei manipoli.
Il reverendissimo Castorio, mio conservo, notaio della vostra sede apostolica, mi ha recapitato una lettera del mio signore piena di miele e apportatrice di ferite. Essa mi ha inflitto tante spine da non sottrarre posto alla medicina. Infatti chi, seguendo il giudizio divino, taccia uno di superbia a buon diritto, in certo qual modo si professa mite e tranquillo.
Mi avete ricordato che io, per ambizione di novità, usurpo l'uso del pallio al di là di quanto era consentito ai miei predecessori. A questa diceria la coscienza del mio signore, che è retta dalla destra di Dio, non permetta in nessun modo di prestar fede e non apra le sacrosante orecchie ad incerte opinioni. Anzitutto, sebbene io sia peccatore, conosco quanto sia grave oltrepassare i confini stabiliti dai padri e che ogni forma di superbia non fa che portare rovina. Infatti, se i nostri predecessori non sopportarono la superbia nei re, non va questo vizio a maggior ragione riprovato nei sacerdoti? In secondo luogo vi ricordo che io sono stato nutrito e sono cresciuto, con l'aiuto di Dio, nel seno e nel grembo della sacrosanta vostra Chiesa di Roma. Per quale pazzia io mi metterei contro quella santissima sede, che trasmette i suoi diritti alla chiesa universale, io che per salvaguardare la sua autorità, come a Dio è manifesto, ho eccitato in modo grave contro di me l'ostilità di molti nemici? Ma il beatissimo mio signore non pensi che io abbia osato qualcosa contro la primitiva consuetudine, ciò che il predetto reverendissimo notaio avrebbe potuto attestare sulla parola di molti e di quasi tutti i cittadini di questa città e anche se si fosse contentato degli atti processuali: che cioè, uscendo già i figli della chiesa dalla sacrestia ed entrando i diaconi per avviare subito la processione, in quel momento il primo diacono era solito imporre il palio al vescovo della Chiesa di Ravenna: ciò che si fu soliti fare anche nelle litanie solenni.
Nessuno, quindi, osi trarre in inganno contro di me il mio signore — e non lo potrebbe anche se lo volesse, proteggendomi Dio — dicendo che io ho introdotto qualche novità. Dio onnipotente renda perciò manifesto al vostro purissimo cuore dicendogli come io mi sia sottomesso ai vostri comandi e, quando la causa lo ha richiesto, ai vostri interessi. Ma imputo ai miei peccati il fatto che, dopo tante fatiche e angustie che sopporto dentro e fuori, io abbia meritato di incorrere in questa avventura. Ma mi consola tra le altre cose questa constatazione che talvolta i santissimi padri consolano i figli solo per farli migliori e che, dopo aver manifestata questa mia devozione e avervi dato questa soddisfazione, voi non solo conserverete i vecchi privilegi ma ne concederete, durante il vostro pontificato, dei maggiori alla santa Chiesa di Ravenna che è particolarmente vostra.
Quanto poi al fatto che la vostra apostolica santità ha scritto che i miei presbiteri e diaconi hanno usurpato l'uso dei manipoli, dico la verità: mi dispiace richiamare alla memoria qualcosa da altra fonte, quando la verità, che sola ha peso sul mio signore, basta per se stessa. Infatti, essendo quest'uso permesso alle chiese minori che circondano la città di Roma, la santità vostra apostolica può, se si degna di interrogare il venerabile clero della sua prima sede apostolica, riscontrare in ogni modo come tutte le volte che per l'ordinazione del vescovo sia i sacerdoti apocrisari, sia i diaconi della Chiesa ravennate vennero a Roma, tutti, sotto gli occhi dei vostri predecessori, tutti i miei presbiteri e diaconi che avanzavano in processione con me in ossequio al papa, usavano il manipolo. E poiché il nostro Dio nella sua provvidenza ha posto tutto nella vostra mano e nella vostra purissima coscienza, vi prego vivamente, proprio per la sede apostolica che prima con i vostri costumi ed ora per debito onore governate, che non diminuiate in nulla, per causa mia, alla Chiesa di Ravenna, che è familiarmente vostra, i privilegi di cui finora essa ha goduto, ma che questi privilegi, secondo la voce del profeta, siano trasferiti in me e nella casa di mio padre in considerazione dei suoi meriti. Poiché io tutti i privilegi che sono stati concessi alla santa Chiesa di Ravenna dai vostri predecessori, per maggiore mia garanzia, procediamo, senza riprensione alcuna, con i manipoli. Perciò anche nel tempo in cui io peccatore fui ordinato costì dal vostro predecessore, li ho sottoposti a voi, pur avendo trovato giustificazione degna di fede nei venerabili archivi, secondo gli anni della consacrazione dei miei predecessori. Ora poi è in potere di Dio e vostro, qualunque cosa, conosciuta la verità, comandiate sia fatto, perché io, desiderando obbedire ai comandi dell'autorità apostolica del mio signore, ho avuto cura di rimanere in sospensiva fino ad una seconda disposizione.
NotePost 593 d.C., luglio. La lettera riguarda il corretto uso del pallio, un mantello sacerdotale, concesso nel 569 all’arcivescovo di Ravenna da papa Giovanni III (pontificato: 561-574 d.C.). Episcopato di Giovanni II di Ravenna: 578-595 d.C. Il notaio Castorio è “apocrisarius” e “responsalis”, cioè rappresentante di papa Gregorio in Ravenna.
Testo originaleExemplum praecepti.
Dilettissimo fratri Petro Iohannes. Convenire novimus rationi ut eos amictu pallii decoremus, quos in illis civitatibus divina inspirante misericordia sacerdotii honor illuminat, in quibus hoc etiam illis qui praeteritis temporibus fuere pontifices ab apostolica sede esse constat indultum. Ideoque cantati tuae usum pallii sicut decessores tui habuisse noscuntur praesenti auctoritate concedimus, atque ea omnia circa honoris tui privilegium volumus permanere, quae anterioribus temporibus ecclesiae tuae constat io esse servatum, ut nihil prorsus de privilegiis eius doleas deminuttun.
Et subscriptio domni papae. Deus te incolumem custodiat. Data X Kalendas Octobrias imperante domno Iustino Augusto.
TraduzioneCopia del decreto.
Giovanni al dilettissimo fratello Pietro. Sappiamo essere conforme alla ragione che onoriamo, concedendo l'uso del pallio, a coloro che sono illustrati dall'onore del sacerdozio nelle città in cui vi furono vescovi ai quali questo privilegio consta essere stato concesso dalla sede apostolica sotto ispirazione della divina misericordia, anche nei tempi passati. Perciò con l'autorità di questo decreto concediamo alla tua carità l'uso del pallio come risulta che l'ebbero i tuoi predecessori e vogliamo che rimangano intatti tutti quei privilegi riguardanti il tuo onore, che consta essere stati rispettati nei tempi passati nei riguardi della tua chiesa, in modo che non abbia a dolerti della minima sottrazione delle sue prerogative.
Sottoscrizione del signor papa. Il Signore ti conservi incolume. Data il 22 settembre, sotto l'impero di Giustino Augusto.
Note569, 22 settembre. La lettera attesta la concessione papale dell’uso del pallio nelle liturgie solenni. Pontificato di Giovanni III: 561-574 d.C. Episcopato di Pietro III di Ravenna: 569-578 d.C. Regno di Giustino II: 565-578 d.C.
NomeAssorati G.