Titolo operaDe bellis
Anno560/565 d.C.
Periodoetà giustinianea
EpocaTarda Antichità
Noteed.: G. Wirth, J. Haury (edd.), Procopii Caesariensis opera omnia, 2 voll., Leipzig 1962-1963 (trad.: M. Craveri, F. Pontani (a cura di), Le guerre: persiana, vandalica, gotica, Torino 1977).
Traduzione[22] Ma, venuto il giorno stabilito, Alarico, fatte prendere le armi a tutti i soldati come se dovessero partire, li tenne schierati nei pressi della Porta Salaria, dove fin da principio dell'assedio aveva posto le tende. [23] Tutti i giovani, nell'ora precedentemente stabilita, accorsero a quella porta, aggredirono di sorpresa e uccisero le sentinelle, poi aprirono i battenti e fecero tranquillamente entrare in città Alarico e l'esercito. [24] I barbari misero a ferro e fuoco le case situate nelle vicinanze della porta, tra le quali anche l'abitazione di Sallustio, colui che in tempi antichi aveva scritto la storia di Roma, e l'edificio è rimasto in gran parte semidistrutto dalle fiamme ancora fino ai nostri giorni. Dopo aver saccheggiato l'intera città e trucidato la maggior parte dei cittadini, i barbari se ne andarono. [25] Si racconta che, a Ravenna, fu un eunuco (a quanto pare un guardiano del pollaio) ad annunciare all'imperatore Onorio che Roma era perita, e che egli esclamò, mettendosi a gridare: «Ma se soltanto adesso ha mangiato dalle mie mani!». [26] Possedeva infatti un gallo gigantesco, che aveva nome Roma. L'eunuco, capito l'equivoco, precisò che era stata la città di Roma a cadere per opera di Alarico, e allora l'imperatore, con sollievo, rispose tranquillamente: «Oh, mio caro! E io temevo che fosse morto il mio gallo!». Tanta, si dice, era la stoltezza che offuscava la mente di questo imperatore. [27] Alcuni storici raccontano che non in questo modo Roma fu catturata da Alarico, ma che fu una donna, di nome Proba, molto eminente per rango e per ricchezza nella classe senatoriale, la quale, avendo compassione dei Romani che stavano morendo di fame e di stenti, tanto che già erano giunti al punto di mangiarsi fra loro, e vedendo che ogni buona speranza li aveva abbandonati, perché dalle rive del fiume fino al porto tutto era pieno di nemici, comandò ai suoi servi di aprire le porte nottetempo. [28] Sul punto di partire da Roma, Alarico nominò imperatore dei Romani uno dei suoi nobili, di nome Attalo, incoronandolo col diadema e rivestendolo col manto di porpora e tutte le altre insegne della dignità imperiale. Egli fece questo con l'intenzione di detronizzare Onorio, affidando tutto l'impero d'Occidente ad Attalo. [29] A tale proposito, Attalo e Alarico marciarono insieme verso Ravenna, con un grande esercito. Ma Attalo non era uomo capace di prendere da solo qualche saggia iniziativa, né si lasciava consigliare da chi avrebbe potuto dargli dei buoni suggerimenti. [30] Così, pur senza l'approvazione di Alarico, egli volle mandare dei generali in Libia, privi di un esercito. Questo, dunque, stava allora avvenendo. [31] Intanto si era ribellata contro i Romani l'isola della Britannia e i soldati là di stanza avevano acclamato come imperatore un certo Costantino, uomo di non poco valore. Egli infatti raccolse subito una flotta di navi e un considerevole esercito e approdò in Spagna e nella Gallia con un'armata potente, per assoggettarle. [32] Onorio nel frattempo teneva alcune navi pronte a salpare, e stava in attesa degli avvenimenti della Libia, avendo intenzione di recarvisi personalmente, se gli inviati di Attalo fossero stati cacciati via, per assicurarsi quella parte dell'impero, o di rifugiarsi presso Teodosio e rimanere con lui, se le cose invece gli fossero andate male. [33] Infatti Arcadio era già morto in quei giorni e l'impero d'Oriente era passato al figlio Teodosio, ch'era ancora un bambino. [34] Ora, mentre Onorio stava in attesa degli eventi, sballottato dalle onde dell'incerta fortuna, questa, all'improvviso, si mutò per lui in modo straordinariamente favorevole. [35] Evidentemente Dio ama soccorrere coloro che sono poco perspicaci e incapaci di trovare da soli una soluzione, a patto che non siano cattivi, e porge loro aiuto quando siano giunti all'estremo della disperazione. Qualcosa del genere accadde a questo imperatore. [36] Egli infatti fu tosto informato che in Libia i generali di Attalo erano stati uccisi e che una grande quantità di navi cariche di soldati era giunta da Bisanzio in suo soccorso, sebbene non se l'aspettasse, e che Alarico, venuto in disaccordo con Attalo, lo aveva privato delle prerogative imperiali e lo teneva in prigione, ridotto al rango di semplice cittadino.
NoteUsurpazione di Costantino III in Britannia e sbarco in Gallia: 407-409 d.C. Morte dell'imperatore Arcadio ed elevazione di Teodosio II: 408 d.C. Elevazione imperiale di Attalo: 409-410 d.C., fu deposto prima del sacco di Roma. Spedizione fallita in Africa di Attalo: 409-410 d.C. Assedio e sacco di Roma: 410 d.C.
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Traduzione[8] Ora, l'imperatore Onorio, che si era appena insediato in Roma, non aveva affatto in mente alcun proposito di guerreggiare, e sarebbe stato invece ben lieto, penso, se lo avessero lasciato in pace nella propria reggia. [9] Ma quando gli fu annunziato che i barbari [Visigoti] non erano distanti, ma si trovavano con un grande esercito nel paese dei Taulanti [nell'Illirico], egli abbandonò il palazzo reale e fuggì frettolosamente a Ravenna, una città molto forte, che giace quasi in fondo al Golfo Ionico. [10] C'è anche chi dice che egli stesso si sia mosso contro i barbari di sua iniziativa, perché era scoppiata una rivolta tra i suoi sudditi; ma secondo me non si può prestar fede a questa notizia, a giudicare, almeno, dal carattere di quell'uomo. [11] Intanto i barbari, non essendoci nessuno che contrastasse loro il passo, si comportarono come i più terribili degli esseri umani. Distrussero così radicalmente le città espugnate, che nulla è rimasto ai nostri giorni in ricordo di esse, specialmente delle città a sud del Golfo Ionico, eccetto qualche torrione o l'arco di una porta o qualcosa del genere, restato in piedi per caso. [12] Uccisero tutte le persone che incontrarono sul loro cammino, sia i vecchi che i giovani, senza risparmiare né le donne né i bambini. Di conseguenza, anche oggi l'Italia si trova ad essere scarsamente popolata. [13] Saccheggiarono tutte le cose preziose, in tutta l'Europa, e – ciò che è più grave – a Roma non lasciarono nulla né di beni pubblici né di beni privati, quando di là se ne andarono per invadere la Gallia.
Note404 d.C. Regno di Onorio: 395-423 d.C.
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Traduzione[14] Qui [a Verona] le forze di Odoacre tentarono di fermarli, ma furono sconfitte in parecchi scontri e dovettero rinchiudersi in Ravenna col loro re e in altre città che presentassero particolari garanzie di sicurezza. [15] I Goti le strinsero d'assedio e in un modo o nell'altro riuscirono a conquistarle tutte, eccetto la fortezza di Cesena che dista trecento stadi [ca. 54 km.] da Ravenna, e Ravenna stessa, in cui s trovava Odoacre, e che non riuscirono a catturare né per capitolazione né d'assalto.
[16] Ravenna infatti giace in un'ampia pianura, all'estremità del Golfo Ionico, e le mancano soltanto due stadi [ca. 350 m.] di distanza per essere sul mare; tuttavia sembra non troppo facilmente accessibile né per nave né con un esercito terrestre. [17] Infatti lì le navi non possono in alcun modo attraccare alla riva, perché il mare stesso lo impedisce, formando delle secche per una lunghezza di non meno di trenta stadi [ca. 5,5 km.], cosicché la spiaggia di Ravenna, sebbene agli occhi dei naviganti sembri molto vicina, in realtà si trova assai distante a causa della grande estensione delle secche. [18] Quanto all'esercito terrestre, non si potrebbe assolutamente avvicinare perché il fiume Po, che si chiama anche Eridano, proveniente dai monti della regione Celtica, e altri fiumi navigabili, formano tutt'intorno ad essa delle paludi, rendendo la città praticamente circondata di acque. [19] In quella zona ogni giorno si può osservare un fenomeno veramente straordinario. Al mattino presto, il mare forma una specie di fiumana, che allaga la campagna per una lunghezza pari ad un giorno di cammino spedito [ca. 30 km.] e diventa navigabile nel bel mezzo della terraferma; poi, a tarda sera, defluisce di nuovo, volgendo all'indietro la corrente, e ritira dalla terra la massa d'acqua. [20] Pertanto, tutti coloro che devono portare merci nella città o devono uscirne per fare acquisti o per altri motivi, mettono i loro carichi su imbarcazioni, che portano nel luogo in cui suole formarsi il flusso d'acqua, e lì attendono l'alta marea. [21] Quando questa si presenta, le imbarcazioni vengono sollevate a poco a poco da terra e cominciano a galleggiare: allora i marinai a bordo si mettono all'opera e le fanno navigare. [22] Tale fenomeno non avviene soltanto qui, ma si osserva regolarmente lungo tutta la costa di quel tratto di mare, fino alla città di Aquileia. [23] Però non si verifica sempre nello stesso modo in qualunque momento dell'anno: quando la luce della luna appare scarsa, l'elevazione del mare non è molto forte, mentre dal primo quarto fino all'ultimo quarto la marea suole formarsi assai più grande. Ma tanto basti su tale argomento.
[24] Quando già Teoderico e i Goti avevano speso tre anni nell'assediare Ravenna, i Goti, stanchi dell'assedio, e gli uomini di Odoacre, ormai messi in difficoltà dallo scarseggiare delle provviste, tramite la mediazione del vescovo di Ravenna vennero ad un accordo, in base al quale sia Teoderico che Odoacre avrebbero posto la loro residenza in Ravenna in condizioni di assoluta parità. [25] Per qualche tempo i patti furono rispettati, ma poi – a quanto si dice – Teoderico scoprì che Odoacre meditava un complotto contro di lui e, invitatolo a convito con malevole intenzioni, lo fece uccidere. Così, guadagnatosi l'appoggio di quelli tra i barbari nemici che riconobbe più autorevoli, si assicurò il potere tanto sui Goti che sugli Italiani. [26] Tuttavia non pretese né di assumere il grado né il titolo d'imperatore dei Romani, ma finché visse si fece chiamare “rex” (così i barbari usano chiamare i loro capi), sebbene nel governare i suoi sudditi egli dimostrasse tutte le qualità che appartengono a uno che sia imperatore di nascita. [27] Si preoccupò moltissimo della giustizia e fece rispettare scrupolosamente le leggi; difese e protesse il suo stato dai barbari confinanti; si segnalò per la saggezza e la grande umanità. [28] Egli stesso non commise forse alcuna ingiustizia a danno dei sudditi, né permise ad alcun altro di commetterne, salvo il fatto che, a dir il vero, i Goti distribuirono fra sé la parte di terre che Odoacre aveva assegnato ai suoi partigiani.
[29] Se pure Teoderico, in apparenza, fu un usurpatore, in realtà fu un vero sovrano, non inferiore a chiunque altro si sia più nobilmente distinto in tale carica fin da principio; perciò crebbe sempre di più tra i Goti e gli Italiani l'affetto per lui, cosa assai rara tra le abitudini umane. [30] Perché, in qualsiasi stato, sempre i cittadini vogliono gli uni una cosa gli altri un'altra, e succede che il governo in carica soddisfi, momentaneamente, soltanto quelli presso cui i suoi provvedimenti incontrano favore, mentre è malvisto da coloro che la pensano al contrario. [31] Invece Teoderico, che regnò trentasette anni, quando morì, era non solo divenuto temibile per tutti i nemici, ma lasciò grande rimpianto di sé fra i sudditi. La sua morte avvenne nel modo seguente.
[32] C'erano due nobili di antico lignaggio, Simmaco e suo genero Boezio, ch'erano tra i più ragguardevoli membri del senato romano, e ambedue consoli. [33] Siccome si occupavano di filosofia e conoscevano la giurisprudenza come nessun altro e soccorrevano con generosi donativi molti bisognosi, sia tra i concittadini che tra i forestieri, si erano acquistata una grande rinomanza, e questo fatto mosse all'invidia alcune persone meschine. [34] Costoro li calunniarono presso Teoderico, il quale si lasciò convincere, mandò a morte i due personaggi con l'accusa che stavano preparando una rivoluzione e fece confiscare le loro sostanze, incamerandole nel pubblico tesoro. [35] Alcuni giorni dopo, mentre stava cenando, i servi gli posero davanti la testa di un grosso pesce. A Teoderico sembrò di vedere la testa di Simmaco, di recente decapitato. [36] E veramente, coi denti confitti nel labbro inferiore, gli occhi spiritati che lo fissavano con sguardo truce, pareva proprio una persona che lo volesse spaventare. [37] Egli infatti, straordinariamente impressionato da quello spettacolo mostruoso, si senti rabbrividire e dovette ritirarsi di corsa nella propria camera da letto, dove ordinò che gli mettessero addosso molte coperte e lo lasciassero riposare. [38] Ma in seguito raccontò al medico Elpidio tutto ciò che aveva provato e pianse per il male che aveva fatto a Simmaco e a Boezio. Poi continuò a dolersi e a rammaricarsi di quell'infelice incidente, finché, non molto dopo, venne a morte. [39] Ma quello fu il primo e ultimo atto di ingiustizia da lui commesso contro i suoi sudditi, dovuto al fatto di aver preso precipitosamente una decisione contro quei due personaggi, senza investigare bene prima, com'era sua abitudine.
NoteBattaglia di Verona: 490 d.C. Assedio di Ravenna: 490-493 d.C., il vescovo di Ravenna era Giovanni I Angelopte. Assassinio di re Odoacre: 493 d.C. Regno di Teoderico: 490-526 d.C. Processi e morte di S. Boezio e Simmaco: 525-526 d.C.
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Traduzione[1] Alla sua morte, il regno fu assunto da Atalarico, nipote di Teodorico, che aveva allora otto anni ed era sotto le cure della madre Amalasunta. [2] Suo padre, invece, aveva già lasciato questo mondo. Non molto tempo più tardi, nell'impero bizantino successe Giustiniano. [3] Amalasunta, come tutrice del figlio, resse anche lo Stato, mostrandosi dotata di grande saggezza e di alto senso della giustizia, e diede notevoli prove di energia virile. [4] Per tutto il tempo che rimase a capo dello Stato, non inflisse pene corporali ad alcuno dei cittadini romani né li colpì nei loro averi, [5] senza cedere alla volontà dei Goti, bramosi di tenerli oppressi; anzi restituì ai figli di Simmaco e di Boezio il loro patrimonio. [6] Desiderosa che suo figlio diventasse del tutto simile nell'educazione e nel comportamento ai nobili romani, Amalasunta lo avviò ben presto a frequentare la scuola di un maestro di lettere. [7] Inoltre scelse tre anziani goti, che sapeva più di tutti gli altri saggi e ben costumati, e volle che vivessero sempre insieme ad Atalarico.
[8] Ma tutto questo non piacque ai Goti. Per la loro attitudine a trattare con disprezzo gli Italiani assoggettati, essi avrebbero preferito essere governati dal re piuttosto alla maniera barbarica. [9] Un giorno la madre, avendo sorpreso il figlio che in camera sua commetteva qualche monelleria, lo sgridò severamente; egli allora fuggì di là e corse in lacrime negli appartamenti riservati agli uomini. [10] Alcuni dei Goti, che s'imbatterono in lui, ne fecero un grande scandalo, biasimando Amalasunta e insinuando che essa voleva togliere di vita al più presto il figlio, per potersi unire in matrimonio con un altro uomo e con lui regnare sui Goti e sugli Italiani. [11] Radunatisi dunque i più autorevoli fra loro, si presentarono ad Amalasunta e l'accusarono di non saper educare correttamente il re, né nel loro né nel suo stesso interesse: [12] lo studio delle lettere, dicevano, è sconveniente ad un'educazione virile, e gli insegnamenti di uomini anziani per lo più portano alla timidezza e alla remissività. [13] Bisognava invece che un re, il quale avrebbe dovuto dar prova di ardimento in qualche impresa e acquistarsi fama, fosse tolto dalla soggezione dei maestri e si esercitasse invece nell'uso delle armi. [14] Aggiunsero che anche Teodorico non aveva mai permesso che alcuno dei Goti mandasse i figli a scuola dai grammatici, [15] e diceva sempre a tutti che se i bambini si abituavano ad aver paura della sferza non sarebbero mai più stati capaci di affrontare senza timore le spade e le lance. [16] Le chiesero pertanto di riflettere sul fatto che suo padre Teodorico era morto dopo essersi impadronito di tutto quel territorio ed essere divenuto sovrano di un regno che non gli spettava certo per eredità, sebbene non fosse stato erudito nelle lettere. [17] «Perciò», essi dissero, «o regina, metti ora da parte codesti pedagoghi e dà ad Atalarico come compagni dei fanciulli della sua età, i quali, trascorrendo con lui il periodo più bello della vita, lo possano stimolare all'amore delle armi secondo il costume dei barbari».
Note526-527 d.C.
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Traduzione[18] Quando udì tali discorsi, Amalasunta, quantunque non li approvasse, per timore di una congiura da parte di quegli uomini, diede l'impressione che le loro parole fossero da lei ben accolte e dichiarò di essere d'accordo su tutte le richieste dei barbari. [19] Così, congedati i vecchi maestri, ad Atalarico furono dati come compagni in ogni momento della giornata alcuni fanciulli che non avevano ancora nemmeno raggiunto il limite della giovinezza, ma erano soltanto un po' più avanti di lui negli anni; spingendolo al bere e al commercio con le donne essi lo fecero diventare appena divenne giovinetto un essere straordinariamente depravato e così arrogante, da non seguire più i consigli della madre. [20] Perciò non fu assolutamente capace di prenderne le difese allorché i barbari, ormai apertamente, si schierarono contro di lei, tanto da imporle sfacciatamente di andarsene dalla reggia. [21] Amalasunta non si lasciò intimorire dalle minacce dei Goti, né si piegò come debole donna ai loro voleri, ma, mantenendo sempre la sua dignità di regina, scelse tre dei più in vista tra i notabili barbari, e nello stesso tempo dei più accaniti nella cospirazione contro di lei, e ordinò loro di partire per i confini d'Italia, ma non insieme, anzi il più distante possibile l'uno dall'altro; ufficialmente però la loro missione era di difendere il paese da invasioni nemiche. [24] Nondimeno questi uomini, per mezzo di amici e parenti (riuscivano infatti a tenersi in contatto con tutti costoro, pur dopo aver compiuto un così lungo viaggio) continuavano ad essere legati alla congiura contro Amalasunta. Allora la donna, non potendo più tollerare un simile stato di cose, ricorse a questa soluzione. [23] Mandò a chiedere all'imperatore Giustiniano a Bisanzio il consenso perché Amalasunta, la figlia di Teoderico, si recasse a vivere presso di lui, essendo desiderosa di lasciare l'Italia il più presto possibile. [24] L'imperatore fu molto lieto della proposta e fece rispondere alla donna che venisse pure, dando ordine nello stesso tempo di mettere in perfetto assetto la più bella casa di Epidamno [Durazzo], in modo che, se Amalasunta vi fosse sbarcata, potesse trovare alloggio e, dopo essersi trattenuta tutto il tempo che le avrebbe fatto comodo, di là potesse poi raggiungere Bisanzio. [25] Appena Amalasunta ricevette la risposta, scelse alcuni Goti molto coraggiosi e a lei particolarmente devoti, e li spedì ad uccidere i tre poco sopra menzionati, perché si erano dimostrati i maggiori responsabili della congiura contro di lei. [26] Essa intanto caricò tutte le sue ricchezze, oltre a quattrocento centenari d'oro, su di una nave, nella quale fece imbarcare alcuni dei suoi più fedeli, ordinando loro di navigare fino ad Epidamno e colà giunti di gettare le ancore nel porto, ma senza scaricare nulla di ciò che era sopra la nave, finché essa non avesse mandato disposizioni. [27] Agì in questo modo perché, se fosse stata informata che i tre erano stati uccisi, sarebbe rimasta in Italia e avrebbe fatto tornare indietro la nave, non avendo più nulla da temere dai suoi nemici; se invece fosse avvenuto che qualcuno di coloro fosse sopravvissuto, non restandole più nessuna speranza, si sarebbe essa pure imbarcata immediatamente e si sarebbe messa in salvo con le proprie ricchezze nel territorio dell'imperatore. [28] Con tali intenzioni, dunque, Amalasunta spedì la nave ad Epidamno, e quando questa giunse al porto della città, coloro che avevano in custodia il tesoro seguirono le sue direttive. [29] Poco più tardi, siccome le uccisioni vennero eseguite come essa desiderava, Amalasunta mandò a chiamare indietro la nave ed essa stessa, rimanendo a Ravenna, prese di nuovo saldamente in mano il potere.
Note527 d.C. Reggenza di Amalasunta: 526-535 d.C. Regno di Giustiniano: 527-565 d.C.
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Traduzione[10] Proprio in quei giorni Atalarico, abbandonatosi ad un'orgia che passava tutti i limiti, fu colto da una malattia molto grave. Perciò Amalasunta era assai preoccupata: [11] ormai non poteva più avere alcuna fiducia nelle facoltà mentali del figlio, giunto a tali estremi di depravazione; nello stesso tempo era convinta che, se Atalarico fosse morto, anche la sua vita non sarebbe più stata al sicuro, perché si era messa in contrasto con tutti i più potenti tra i Goti. [12] Allora prese la decisione di cedere all'imperatore Giustiniano il governo dei Goti e degli Italiani, per mettere in salvo la propria vita. [13] Si dava l'occasione che fosse presente a Ravenna il senatore Alessandro, venutovi insieme a Demetrio e a Ipazio [da Costantinopoli]. [14] Infatti, quando l'imperatore aveva saputo che la nave di Amalasunta era ancorata nel porto di Epidamno [Durazzo], ma che essa tardava a venire, sebbene fosse già trascorso parecchio tempo, aveva mandato Alessandro ad informarsi di ciò che succedeva ad Amalasunta, per poi riferirglielo. [15] Ma ufficialmente l'imperatore aveva inviato Alessandro come ambasciatore per protestare circa i fatti di Lilibeo [Marsala], da me raccontati in un precedente capitolo; e perché dieci Unni, fuggiti dall'esercito della Libia, erano sbarcati in Campania e Uliaris, governatore di Napoli, aveva dato loro ricetto non senza il consenso di Amalasunta; e perché i Goti, facendo guerra contro i Gepidi che vivevano nei dintorni di Sirmio [Sremska Mitrovica], avevano trattato come nemici gli abitanti della città di Graziana [Gračanica] ai confini con l'Illirico. Così, col pretesto di chiedere spiegazione di questi fatti ad Amalasunta, le aveva scritto una lettera e aveva mandato da lei Alessandro. [16] Costui, appena giunto a Roma, lasciò lì i due sacerdoti impegnati nelle questioni per cui erano venuti, e messosi in viaggio per Ravenna, si fece ricevere da Amalasunta, le riferì il messaggio segreto dell'imperatore e apertamente le consegnò una lettera. (...) [28] In segreto essa trattò per consegnare nelle sue mani [di Giustiniano] l'Italia intera.
Note534 d.C. Regno di Atalarico: 526-534 d.C.
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Traduzione[2] Subito la donna [Amalasunta] fece venire Teodato al suo cospetto, perché si giustificasse; ma essendo egli risultato, nel confronto con i suoi accusatori, senza alcun dubbio colpevole, lo costrinse a risarcire i danni per tutto ciò di cui si era illegalmente appropriato, e poi lo congedò. [3] Da quel momento, avendo essa offeso mortalmente quell'uomo e soprattutto avendolo colpito nella sua avidità di ricchezze, si trovò con lui in aperta ostilità, perché egli non aveva piú modo di continuare le sue illegalità e i suoi soprusi. [4] Circa in quello stesso periodo di tempo, Atalarico, consumato dalla malattia, venne a morte, dopo essere stato re per otto anni. Allora Amalasunta (poiché era decretato dal destino che facesse una brutta fine) senza tenere in alcun conto il pessimo carattere di Teodato e l'umiliazione che di recente gli aveva inflitta, pensò che non avrebbe più avuto motivo di temere quell'uomo, se gli avesse concesso un eccezionale favore. [5] Lo invitò, dunque, e quand'egli venne, si diede a blandirlo, raccontandogli come da tempo essa sapeva che c'era da aspettarsi che suo figlio morisse presto, perché se l'era sentito ripetere da tutti i medici, i quali concordavano nelle loro diagnosi, e anche perché essa stessa si era accorta che il fisico di Atalarico andava sempre piú consumandosi. [6] E siccome vedeva che tanto i Goti quanto gli Italiani avevano tutti un'opinione non molto buona di Teodato, sul quale ora cadeva l'eredità della dinastia di Teoderico, si era proposta di riscattarlo da quella cattiva rinomanza, affinché non gli fosse di ostacolo nel caso che venisse chiamato a regnare. [7] Ma nello stesso tempo si disse anche preoccupata per una questione di giustizia: cioè per il timore di sentirsi rimproverare da coloro che ora si lagnavano di aver ricevuto da lui qualche torto, di non aver piú a chi far ricorso per l'ingiustizia subita, avendo come sovrano proprio il loro persecutore. [8] Per queste ragioni gli offriva la corona reale, riscattandolo dalla cattiva fama; ma occorreva egli si impegnasse coi più solenni giuramenti ad accettare che, sebbene il titolo di re venisse conferito a lui, fosse lei, in realtà, a continuare ad esercitare di fatto il potere non meno di prima. [9] Teodato, udite quelle proposte, giurò di accettare tutte le condizioni desiderate da Amalasunta; ma accettò già con malvagie intenzioni, avendo bene nella memoria tutto quanto gli era prima toccato subire da lei. [10] Così Amalasunta, ingannata dalle proprie supposizioni e dai giuramenti di Teodato, lo elesse al trono [11] e mandò alcuni Goti come ambasciatori a Bisanzio ad informare di questo fatto l'imperatore Giustiniano. [12] Ma Teodato, appena ottenuto il sommo potere, cominciò a comportarsi esattamente al contrario di quanto Amalasunta aveva sperato ed egli aveva promesso.
Note534-535 d.C. Regno di Teodato: 534-536 d.C. Morte di Atalarico: 10 ottobre 534 d.C. Morte di Amalasunta a Bolsena: 30 aprile 535 d.C.
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Traduzione[35] Il giorno dopo Costanziano poté entrare in Salona con tutta la fanteria e far ancorare nel porto anche le navi. [36] Subito Costanziano si occupò delle fortificazioni di Salona, facendo ricostruire in fretta tutte le parti delle mura che erano state danneggiate. Allora Gripa, visto che i Romani avevano occupato Salona, sette giorni dopo partì di là con il suo esercito di Goti e ritornò a Ravenna. Così Costanziano ebbe in suo possesso tutta la Dalmazia e la Liburnia, cacciandovi tutti i Goti che vi abitavano. [37] Questi furono gli avvenimenti in Dalmazia. Intanto terminò l'inverno, e così trascorse il primo anno di questa guerra di cui Procopio ha scritto la storia.
NoteFine 535 - inizi 536 d.C.
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Traduzione[5] Riunitisi dunque a Rieti, i Goti elessero come loro re e re degli Italiani un certo Vitige, uomo non di famiglia illustre, ma che si era acquistata una grande notorietà nelle precedenti battaglie intorno a Sirmio, quando Teoderico aveva portato guerra ai Gepidi. [6] Appena informato di questo fatto, Teodato si diede alla fuga, tentando di raggiungere Ravenna. Ma Vitige gli spedì subito dietro il goto Optari, con l'ordine di prendere Teodato o vivo o morto. [7] Si dava il caso che questo Optari odiasse vivamente Teodato per il seguente motivo. Optari amava una fanciulla, che era una ricca ereditiera, ed anche assai bella di aspetto. [8] Ma Teodato, invaghitosi di lei, se la prese, costringendola, sebbene promessa sposa di Optari, a unirsi in matrimonio con un altro uomo, che egli comprò col denaro. Così, non solo per ubbidire a Vitige, ma anche per vendicare il proprio odio, Optari si diede all'inseguimento di Teodato con molta solerzia e molto entusiasmo, senza fermarsi né giorno né notte. [9] E lo sorprese mentre era già in viaggio, lo gettò riverso a terra e lo sgozzò come una vittima per un sacrificio. Questa fu la conclusione della vita di Teodato e del suo regno, che era durato tre anni. [10] Intanto Vitige, insieme ai Goti che erano con lui, si era messo in marcia verso Roma. Quando seppe della fine toccata a Teodato, fu molto lieto e ne fece porre in prigione il figlio Teodegisclo. [11] Ma poi, giudicando che le forze militari dei Goti non fossero sufficientemente organizzate, ritenne più opportuno andare prima a Ravenna e, fatti là tutti i preparativi nel modo migliore possibile, solo allora avventurarsi in una guerra.
[12] Chiamati perciò tutti i suoi a raccolta, tenne loro questo discorso: «Il successo delle imprese più importanti non dipende di solito dall'improvvisazione del momento, ma dall'accurata preparazione. [13] Più di una volta l'aver temporeggiato in attesa dell'occasione favorevole ha dato ottimi risultati, mentre la fretta con cui si è voluto agire quando non era il caso ha fatto crollare per molte persone le speranze di una buona riuscita. [14] Nella maggior parte dei casi, infatti, è più facile venir sconfitti pur combattendo con nemici a pari forze, se si è impreparati, che non quando, pur combattendo con forze minori, si è però scesi in battaglia dopo un'accurata preparazione. [15] Evitiamo pertanto il rischio d'incorrere in una catastrofe irreparabile, eccitati dal desiderio di farci subito onore. È meglio sopportare per un po' di tempo la vergogna, ma poi assicurarci una gloria imperitura, piuttosto che, per sfuggire le derisioni del momento, essere destinati, com'è probabile, a rimanere in eterno nell'oblio. [16] Certamente sapete bene anche voi che il grosso delle forze dei Goti e praticamente tutte le nostre riserve di armi si trovano nelle Gallie e nel Veneto e in terre assai lontane. [17] Inoltre noi stiamo già sostenendo, contro la popolazione dei Franchi, una guerra che non è meno dura di questa, e sarebbe una grande follia accingersi a una nuova guerra prima di aver concluso l'altra in maniera definitiva. È ovvio che, se si è esposti agli attacchi su due fronti e non si concentra ogni attenzione su di un solo conflitto, si finisce coll'essere sconfitti dai nemici. [18] Io dico dunque che adesso ci conviene andar subito di qui a Ravenna e, dopo aver posto termine alla guerra contro i Franchi e sistemati tutti gli altri affari come meglio possibile, andare ad affrontare Belisario con l'esercito dei Goti al completo [19] Per quanto mi riguarda, nessuno di voi abbia pure ritegno a considerare questa una ritirata né esiti a chiamarla una fuga. [20] La taccia di codardi che è stata data a molti, nel momento in cui dovevano veramente comportarsi come se fossero tali, è risultata la loro salvezza, mentre la reputazione di audacia che alcuni si sono guadagnata in un momento in cui non serviva, li ha poi condotti all'insuccesso. [21] Non è il nome dato alle nostre azioni che dobbiamo cercare, ma il risultato delle azioni stesse. Il valore di un uomo non è dimostrato dal modo in cui egli inizia le sue imprese, ma dal modo in cui le conclude. [22] E, invero, non fuggono davanti ai nemici coloro che, dopo aver perfezionato la propria preparazione, subito si gettano su di essi, ma coloro che, soltanto preoccupati di mettere in salvo la propria vita, se ne stanno sempre in disparte. Quanto alla capitolazione della città di Roma, nessuno di voi si lasci prendere da preoccupazioni. [23] Se i Romani saranno leali con noi, difenderanno la città strenuamente a vantaggio dei Goti e non dovranno andare incontro a gravi pericoli, perché entro breve tempo noi torneremo da loro. [24] Se invece essi hanno qualche diffidenza nei nostri riguardi, non ci faranno un grande danno accogliendo in città i nemici: coi propri avversari è meglio incontrarsi faccia a faccia. [25] Ma io provvederò a che non avvenga nulla di simile: lasceremo qui un buon nerbo di uomini con un bravissimo comandante, ed essi saranno sufficienti a proteggere Roma, tanto che non solo otterremo qui un ottimo successo, ma eviteremo di essere ostacolati durante la nostra ritirata».
[26] Così disse Vitige, e tutti i Goti approvarono le sue parole e si prepararono per la marcia. Ma prima Vitige rivolse vive raccomandazioni a Silverio, il vescovo della città, nonché al senato e al popolo romano, richiamando alla loro memoria il governo di Teoderico, e li esortò a rimanere fedeli al popolo dei Goti, chiedendo loro la conferma con solenni giuramenti. Poi, scelti non meno di quattromila uomini, mise loro a capo Leuderi, un uomo già maturo di anni che godeva molta reputazione per la sua capacità, e li lasciò alla difesa di Roma. Così poté partire col resto dell'esercito alla volta di Ravenna, portando con sé come ostaggi molti membri del senato. [27] Giunto a Ravenna, prese come legittima consorte, sebbene contro la volontà di lei, Matasunta, la figlia di Amalasunta, che era una giovinetta appena in età da marito, per rendere più sicuro il proprio titolo di re imparentandosi con la famiglia di Teoderico. [28] Dopo di che cominciò ad arruolare i Goti da ogni luogo e ad inquadrarli nell'esercito e ad equipaggiarli, assegnando a ciascuno, secondo le necessità, armi e cavalli. Soltanto i Goti impegnati in guerra nelle Gallie non ebbe la possibilità di richiamarli, per timore dei Franchi.
NoteDicembre 536 d.C. Regno di Vitige: dicembre 536-maggio 540 d.C. Assassinio di Teodato: dicembre 536 d.C. Pontificato di S. Silverio: giugno 536-novembre 537 d.C.
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Traduzione[46] Frattanto, tolto di mezzo Giselico, conferì il regno dei Visigoti a suo nipote Amalarico, al quale fece egli stesso da reggente perché era ancora un bambino. [47] Poi, presi tutti i tesori che si trovavano nella città di Carcassone, ritornò rapidamente a Ravenna. Teoderico continuò però a mandare generali ed eserciti in Gallia e in Spagna, riservandosi egli stesso l'autorità dell'amministrazione governativa, anzi, preoccupato di renderla definitivamente sicura, impose ai vari generali che là si trovavano il versamento di un tributo annuo. [48] Ma poi, questo tributo, che riceveva regolarmente ogni anno, egli lo distribuiva, per non sembrare troppo avido di denaro, come donativo annuale all'esercito dei Goti e dei Visigoti. [49] Pertanto i Goti e i Visigoti, governati com'erano da un solo re e tutti residenti nello stesso paese, con l'andare del tempo, unendo scambievolmente in matrimonio i propri figli, finirono col mescolarsi in un unico popolo. [50] Più tardi avvenne però che Teudi, un generale goto che Teoderico aveva mandato a comandare l'esercito, prese in moglie una donna spagnola, non di origine visigota, ma appartenente alla famiglia di un benestante nativo del luogo, non solo fornita di abbondanti ricchezze, ma anche proprietaria di vasti terreni in Spagna. [51] Da quelle campagne egli raccolse circa duemila soldati e, circondatosi di una forte guardia del corpo, nominalmente continuava ad essere un generale dei Goti per incarico di Teoderico, ma di fatto era, in modo abbastanza chiaro, un signorotto indipendente. [52] Teoderico, che aveva molta saggezza e molta esperienza, non si fidava di mettersi in contrasto con questo suo generale [Teudi], temendo che i Franchi ne approfittassero per muovere guerra a loro volta contro di lui, e che i Visigoti tentassero una sollevazione. Perciò non rimosse Teudi dal suo incarico, ma gli permise di restare a capo dell'esercito ogni volta che questo uscisse per una spedizione militare. [53] Tuttavia pregò i più in vista tra i Goti di scrivergli che avrebbe compiuto un atto doveroso e degno della sua saggezza se fosse andato a Ravenna a riverire Teoderico. [54] Ma Teudi, pur continuando ad eseguire tutti gli, ordini di Teoderico, senza mancare mai d'inviargli il tributo annuale, non consentì ad andare a Ravenna, né volle mai prometterlo a coloro che gli avevano scritto.
NoteRegno di Giselico o Gesalico: 507-510 d.C. Regno di Amalarico: 510-531 d.C. Regno di Teudi: 531-548 d.C.
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Traduzione[26] Udito questo discorso, i notabili goti ritennero che le proposte [di Vitige] fossero opportune e ne approvarono l'esecuzione. [27] Di conseguenza furono spediti al popolo germanico degli incaricati a dar loro in consegna il territorio delle Gallie e il denaro, e a stringere con essi un patto di alleanza. A quell’epoca i capi dei Franchi erano Ildeberto, Teodeberto e Clotario. Essi si divisero la Gallia e la somma di denaro che ricevettero, in relazione ai possedimenti che già ciascuno di essi aveva, e promisero che sarebbero stati senz’altro ottimi amici dei Goti, anzi avrebbero loro mandato segretamente delle truppe ausiliarie, non però di Franchi, ma di uomini presi dalle popolazioni loro soggette: [28] essi infatti non potevano fare con loro apertamente un’alleanza militare contro i Romani, perché proprio poco tempo prima si erano impegnati con l’imperatore di aiutarlo in quella stessa guerra. [29] Gli ambasciatori, compiuta la missione di cui erano stati incaricati, fecero ritorno a Ravenna, e allora Vitige poté anche richiamare in patria Marcia e il suo seguito.
NoteAutunno 536 d.C. Regno di Clotario I: 511-561 d.C. (dal 558 su tutti i Franchi). Regno di Teodeberto I in Gallia centro-meridionale: 534-548 d.C.. Regno di Ilbederto o Childeberto I in Gallia settentrionale: 511-558 d.C.
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Traduzione[12] Solo quando furono informati che i nemici erano ormai a poca distanza, e compresero quali erano le intenzioni della cittadinanza romana, i Goti di presidio in Roma cominciarono a pensare alla difesa della città; ma sapendo che non sarebbero stati sufficienti ad affrontare in battaglia l'esercito attaccante, erano molto preoccupati. [13] Perciò, con la piena approvazione dei Romani, se ne andarono di là tutti quanti e si recarono a Ravenna, eccetto Leuderi, il loro comandante, il quale, forse per vergogna, data la sua carica, volle rimanere sul posto. [14] Così avvenne che nello stesso giorno in cui Belisario e l'esercito dell'imperatore facevano il loro ingresso in Roma attraverso la porta che si chiama Asinaria, in quel preciso momento i Goti ne uscivano per un'altra porta, che è detta Flaminia. Di conseguenza Roma tornò di nuovo sotto il governo dei Romani, dopo un periodo di sessant'anni, nel nono giorno dell'ultimo mese, che dai Romani è chiamato dicembre, dell'undicesimo anno da che l'imperatore Giustiniano era sul trono.
NoteIngresso di Belisario (ca. 500-565 d.C.) in Roma: 9 dicembre 536 d.C.
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Traduzione[19] Invece, dalla città di Ravenna, dove finisce il Golfo Ionico, al Mar Tirreno, c'è una distanza di non meno di otto giorni di viaggio [ca. 250 km.], per un buon camminatore. [20] E il motivo è questo: che il braccio di mare si allarga sempre più verso ovest. Dentro il Golfo Ionico, la prima città è Dryus, che adesso si chiama Hydrus [Otranto]. [21] Alla destra, partendo di qui, si trovano i Calabri, gli Apuli e i Sanniti, e dopo questi i Piceni, il cui territorio si estende fino alla città di Ravenna. [22] Dall'altra parte c'è il rimanente dei Calabri, poi ci sono i Bruzi, i Lucani e, al di là di questi, i Campani, i quali sono stanziati fino alla città di Terracina, e il cui territorio continua con quello di Roma. [23] Tutte queste popolazioni abitano non soltanto lungo il litorale dei due mari, ma anche nella regione all'interno di essi. È la terra che originariamente era chiamata Magna Grecia. Infatti nel Bruzio ci sono ancora le colonie di Locri Epizefiri, di Crotone e di Turi. [24] A est del Golfo i primi abitatori sono i Greci detti Epiroti fino alla città di Epidamno [Durazzo], che si trova sul mare. [25] Dopo questi c'è la terra dei Precali, e quindi la regione che si chiama Dalmazia, la quale fa parte dell'impero d'Occidente. Poi ci sono la Liburnia, l'Istria e il Veneto, il quale ultimo si estende fino alla città di Ravenna. [26] Tutti questi paesi sono situati lungo il mare. Ma esistono anche i Siscis e i Suebi (non quelli che sono sudditi dei Franchi, ma un altro gruppo), i quali abitano nell'interno; [27] al di là vi sono poi i Carni e i Norici, alla cui destra si trovano i Daci e i Pannoni, che, tra le altre città, hanno Singiduno [Belgrado] e Sirmio [Sremska Mitrovica], e si estendono fino al fiume Ister [Danubio]. [28] Tutti questi popoli, a nord del Golfo Ionico, all'inizio di questa guerra erano sotto il dominio dei Goti, eccetto quelli residenti alla sinistra del fiume Po, oltre la città di Ravenna, ossia i Liguri [29] e, a nord di questi, gli Alani, i quali vivono in una zona straordinariamente fertile, chiamata Langhe. Al di là di questi vi sono le popolazioni soggette ai Franchi, poi, procedendo verso Occidente, si trovano i Galli e ancora più oltre gli Ispanici. [30] Alla destra del Po c'è l'Emilia e la regione detta Tuscia [Toscana e Tuscia propriamente detta], che si estende fino ai confini con Roma. Ma ora basta su questo argomento.
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Traduzione[7] Allora Vitige, venuto a conoscenza di tale disfatta [a Perugia], non volle più rimanere in attesa a Ravenna, dove si sentiva molto insicuro, anche perché Marcia e i suoi uomini non erano ancora tornati dalle Gallie. [8] Vitige mandò in Dalmazia un grosso contingente di soldati al comando di Asinario e di Uligisalo, per ricondurre la Dalmazia sotto il controllo dei Goti, [9] e diede loro istruzione di prendere con sé, dalla regione dei Suebi, come alleato, un esercito composto di barbari colà residenti, e quindi, tutti insieme, entrare in Dalmazia e dirigersi sulla città di Salona [10] Contemporaneamente fece partire anche molte navi da guerra, in modo che fosse possibile assediare Salona sia per mare che per terra. [11] Egli stesso, invece, col resto delle forze, si mise in marcia verso Roma contro Belisario, a capo di non meno di centocinquantamila tra fanti e cavalieri, la maggior parte protetti da corazze, cosi come i cavalli.
NoteDicembre 536-marzo 537 d.C. Assedio ostrogoto di Roma: marzo 537-marzo 538 d.C.
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Traduzione[1] Vitige, pieno d'ira e molto agitato, mandò a Ravenna alcuni della sua guardia del corpo con l'ordine di uccidere tutti i senatori romani che aveva là portato come ostaggi all'inizio della guerra. [2] Alcuni di questi, avvertiti per tempo, riuscirono a fuggire, e tra gli altri Vergentino e Reparato, fratello del vescovo di Roma Vigilio, i quali si rifugiarono ambedue in Liguria e là rimasero. Ma i rimanenti furono tutti trucidati.
NoteMarzo 537 d.C. Pontificato di Vigilio: novembre (ma eletto a marzo) 537-giugno 555 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_V_26.pdf
TraduzioneViveva a Ravenna un cittadino romano di nome Presidio, un personaggio assai ragguardevole. Questo Presidio, essendo venuto in contrasto con i Goti, nei giorni in cui Vitige si stava preparando a marciare contro Roma, era uscito da Ravenna insieme ad alcuni pochi dei suoi famigliari, apparentemente col pretesto di una battuta di caccia, ma in realtà per fuggire. Egli non aveva informato nessuno delle sue intenzioni e non aveva preso nulla delle sue proprietà, eccetto due spade che portò con sé, le quali avevano le impugnature riccamente lavorate, con decorazioni in oro e pietre preziose. Giunto a Spoleto, Presidio andò a ritirarsi in un convento che si trova fuori delle mura.
NoteMarzo 537 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_8.pdf
Traduzione[1] Quando Vitige non molto dopo arrivò a Rimini col suo esercito, subito lo fece accampare e diede inizio all'assedio. Per prima cosa essi costruirono una torre di legno più alta della cinta muraria della città, piazzata su quattro ruote, e la portarono verso la parte del muro che sembrò loro la più vulnerabile. [2] Ma per non dover subire lo stesso tiro toccato loro sotto le mura di Roma, non fecero più trascinare la torre da buoi, ma la spinsero essi stessi, riparandosi nel suo interno. [3] Dentro la torre c'era poi una scala abbastanza larga perché, per mezzo di essa, potesse agevolmente salire un buon numero di barbari, in quanto speravano che appena piazzata la torre di fronte alle mura avrebbero potuto di là balzare senza difficoltà sugli spalti. A questo scopo avevano costruito la torre più alta delle mura. [4] Quando giunsero presso la cinta con la macchina da guerra, rimasero però fermi per il momento, poiché erano già calate le tenebre. Collocate delle sentinelle attorno alla torre, scesero tutti a riposare, convinti che non sarebbe successo alcun inconveniente. [5] In effetti non c'era davanti a loro impedimento di sorta, nemmeno il fossato, ma solo un piccolo scavo lungo il muro, assolutamente trascurabile. I Romani invece trascorsero una notte piena di paure, al pensiero che il giorno dopo avrebbero subito una disfatta. [6] Ma Giovanni, senza perdere la calma di fronte al pericolo e senza lasciarsi turbare dalla paura, escogitò il seguente piano. Lasciati gli altri nei vari posti di guardia, egli prese con sé gli Isauri, forniti di zappe e di altri arnesi del genere, e nel cuore della notte, senza dire una parola a nessuno nella città, uscì fuori delle mura e ordinò di scavare più profonda la piccola fossa, in assoluto silenzio. [7] I soldati fecero come era stato loro ordinato, gettando la terra che toglievano dallo scavo sempre dal lato più vicino alle mura, e in questo modo elevarono una specie di fiancata. [8] Siccome per lungo tempo passarono inosservati ai nemici che stavano dormendo, riuscirono rapidamente a scavare un fossato assai profondo e abbastanza largo, proprio nel punto in cui le mura erano più vulnerabili e i barbari avevano intenzione di tentare un attacco con la loro macchina bellica. [9] Ma a notte inoltrata i nemici si accorsero di ciò che si stava facendo e allora si slanciarono di corsa contro gli scavatori, e Giovanni si ritirò immediatamente dentro le mura con gli Isauri, i quali ormai avevano perfettamente condotto a termine il loro lavoro. [10] Sul far del giorno Vitige vide ciò che era stato fatto e, vivamente adirato per l'accaduto, fece uccidere alcune delle sentinelle; ma, ostinandosi ugualmente a voler usare la torre, comandò ai Goti di gettar subito un gran numero di fascine nella fossa e poi di trascinarvi sopra la torre. [11] Essi eseguirono con sollecitudine gli ordini di Vitige, sebbene i nemici dall'alto delle mura continuassero senza posa a bersagliarli di dardi. Ma quando la torre fu spinta sopra le fascine, naturalmente queste, schiacciate dal peso, si abbassarono [12] e così i barbari non riuscivano più a procedere con la macchina, perché il terreno diventava sempre più impraticabile là dove i Romani, come ho detto sopra, avevano gettato la terra. [13] Temendo perciò che, quando si fosse fatta notte, i nemici uscissero fuori e dessero fuoco alla macchina da guerra, essi decisero di tirarla indietro.
Note538 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_12.1.pdf
Traduzione[14] Era proprio ciò che Giovanni voleva impedire ad ogni costo. Perciò egli fece prendere le armi ai soldati e, radunatili tutti, li arringò con queste parole: [15] «O uomini, in questo momento difficile, che stiamo passando tutti insieme, se qualcuno di voi ha desiderio di riuscire a sopravvivere e di rivedere i suoi cari lasciati a casa, si renda conto che la possibilità di realizzare questa aspirazione è riposta soltanto nelle sue mani. [16] Inizialmente, quando Belisario ci ha dato l'ordine di partire, la prospettiva e la speranza di ottenere molti vantaggi ci hanno animati tutti di entusiasmo. [17] Ma non potevamo immaginare che saremmo stati assediati in una località vicina alla costa in un momento in cui i Romani sono i padroni del mare, e nessuno poteva supporre che l'esercito dell'imperatore ci avrebbe così abbandonati a noi stessi. [18] Ma, a parte queste considerazioni, allora eravamo stimolati al valore dal desiderio di dimostrare la nostra fedeltà allo stato e di acquistarci gloria con la nostra lotta agli occhi di tutti gli uomini. [19] Ma adesso, come stanno le cose, non ci è nemmeno possibile sopravvivere se non impegniamo tutto il nostro coraggio, e dobbiamo affrontare il pericolo con nessun'altra finalità che quella di salvare la vita. [20] Tuttavia, a quanti fra voi che desiderano compiere qualche azione eroica, è possibile comportarsi da uomini di valore, se altri mai ne esistono di uguali al mondo, e coprirsi di gloria. [21] Perché non acquistano gloria coloro che vincono avversari più deboli, ma coloro che, sebbene inferiori di mezzi, vincono per la forza del loro ardimento. [22] Se qualcuno, poi, sente più vivo il desiderio di salvare la propria vita, proprio a lui conviene particolarmente essere coraggioso: tutti gli uomini in genere sanno che quando la loro situazione si trova sul filo di un rasoio, come adesso accade a noi, possono risolverla soltanto affrontando decisamente il momento difficile».
[23] Fatto questo discorso, Giovanni si mosse con tutto l'esercito contro i nemici, lasciando solo pochi uomini sugli spalti. [24] I nemici sostennero l'urto valorosamente, e perciò s'ingaggiò una battaglia molto accanita. Sebbene dopo notevoli sforzi, al termine della giornata i barbari riuscirono a riportare la torre nel proprio accampamento, [25] ma persero un così gran numero di combattenti, che decisero di non tentare più un altro attacco alle mura. Scoraggiati, rimasero fermi, in attesa che i nemici si arrendessero costretti dalla fame. A questi, infatti, erano già venuti a mancare i mezzi di sostentamento, perché non erano riusciti a trovare dove farne sufficiente provvista.
Note538 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_12.14.pdf
Traduzione[1] Belisario e Narsete, con i loro rispettivi eserciti, s'incontrarono nei pressi della città di Fermo, posta lungo la costa del Golfo Ionico e distante un giorno di cammino [ca. 30 km.] dalla città di Osimo. [2] Lì riunirono a rapporto tutti gli ufficiali superiori delle loro forze armate per discutere da che parte fosse più conveniente aprire le ostilità coi nemici. [3] Se avessero prima di tutto attaccato i Goti che stavano assediando Rimini, c'era pericolo che quelli stanziati ad Osimo li prendessero alle spalle e non soltanto infliggessero loro gravi perdite, ma mettessero anche in atto rappresaglie ai danni dei Romani residenti sul posto. D'altra parte, erano invece preoccupati che a Rimini gli assediati dovessero soffrire troppo gravi patimenti per la mancanza di viveri. [4] I presenti, per la maggior parte, erano sdegnati con Giovanni e gli muovevano critiche, accusandolo di essersi voluto egli stesso cacciare in quella pericolosa situazione per una irragionevole temerarietà e per la cupidigia di guadagnare grandi ricchezze, e di non aver condotto le operazioni di guerra secondo le dovute regole e come Belisario gli aveva ordinato di fare.[5] Ma Narsete, al quale, Giovanni era particolarmente caro fra tutti gli amici, temendo che Belisario si lasciasse convincere dalle parole degli ufficiali e decidesse di considerare la questione di Rimini di secondaria importanza, tenne questo discorso: [6] «Voi, signori ufficiali, non siete qui per discutere uno dei soliti problemi di ordinaria amministrazione, né per decidere su di una situazione riguardo alla quale ci possano anche essere dei dubbi; ma il problema si pone in termini tali, che è facile, anche per chi non avesse mai avuto alcuna esperienza di guerra, fare una scelta seduta stante e indicare quale sia la via migliore da seguire. [7] Sebbene, infatti, le due alternative sembrino presentare un'uguale dose di rischio e identiche possibilità d'insuccesso, pur tuttavia vale almeno la pena di prenderle ambedue in esame e, dopo averlo fatto, decidere definitivamente per la situazione in cui ci troviamo. [8] Se saremo del parere di rimandare l'attacco contro Osimo a un altro momento, ciò non porterà assolutamente alcuna conseguenza dannosa ai nostri interessi: infatti, quale mutamento di situazione ci potrà essere nel frattempo? Ma se, invece, un nostro attacco a Rimini dovesse fallire, come è anche possibile – è terribile dover dire una cosa simile – provocheremmo la rovina della potenza romana. [9] Ora, se Giovanni ha trasgredito con insubordinazione i tuoi ordini, o eccellentissimo Belisario, tu hai ampia possibilità di fargli pagare caro il suo errore, poiché dipende da te o salvarlo dal pericolo in cui è caduto o abbandonarlo nelle mani dei nemici. [10] Ma bada che le conseguenze degli sbagli commessi per incoscienza da Giovanni non ricadano sull'imperatore e su di noi! Se ora, infatti, i Goti riusciranno ad espugnare Rimini, toccherà loro la grande fortuna di far prigioniero uno dei nostri più valenti generali, col suo esercito al completo, oltre a un'intera cittadinanza, suddita dell'imperatore. [11] E il disastro non si ridurrebbe soltanto a questo: perché potrebbe anche avere come conseguenza di rovesciare completamente le sorti della guerra. Devi infatti pensare questo, dei nemici: che ancora adesso per la massa di soldati essi sono di gran lunga superiori a noi, e se sembrano prostrati, è soltanto in conseguenza dei continui rovesci che hanno subito. Il che è naturale: l'avversità della fortuna ha tolto loro ogni fiducia. [12] Ma se ora essi dovessero ottenere un successo, non ci metterebbero molto a riacquistare baldanza, e per l'avvenire condurrebbero la guerra con un ardimento non solo pari al nostro, ma molto maggiore. [13] È cosa solita, infatti, che coloro che si liberano da una situazione difficile agiscano poi con maggior impegno di coloro che non hanno mai incontrato difficoltà». Così parlò Narsete.
Note538 d.C.
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Traduzione[14] Nel frattempo, un soldato uscito da Rimini, sfuggendo alla vigilanza dei barbari, giunse all'accampamento e presentò a Belisario una lettera che Giovanni gli aveva scritta. [15] Il messaggio così diceva: «T'informo che già da lungo tempo tutte le nostre provviste sono esaurite e noi non siamo più in grado né di tenere a freno la popolazione né di resistere agli assalitori, ma entro sette giorni al massimo saremo costretti, contro la nostra volontà, a consegnare noi stessi e questa città ai nemici. [16] Non abbiamo assolutamente speranza di poter ancora capovolgere il nostro terribile destino, e questo credo potrà essere sufficiente come giustificazione, a nostra discolpa, se saremo obbligati a compiere un gesto certamente inglorioso». Così aveva scritto Giovanni. [17] Belisario rimase alquanto colpito, e venne a trovarsi in grave incertezza: era nello stesso tempo preoccupato per la sorte degli assediati di Rimini, ma anche per la possibilità che ad Osimo i nemici avevano di saccheggiare senza timore ogni cosa, scorrazzando liberamente per tutta la regione, e magari di sorprendere con un'imboscata il suo stesso esercito, prendendolo alle spalle, specialmente se egli avesse attaccato battaglia con i Goti che si trovavano intorno a Rimini, provocando probabilmente gravi, irreparabili perdite.
[18] Alla fine, tuttavia, prese una decisione. Lasciò a Fermo un migliaio di soldati con Arazio, perché andassero ad accamparsi lungo il mare a una distanza di duecento stadi da Osimo [ca. 37 km.], [19] e ordinò loro di non muoversi assolutamente da quella posizione, né di accettare battaglia coi nemici, salvo per respingerli dall'accampamento, se li avessero assaliti. [20] In questo modo egli sperava ardentemente che i barbari, vedendo che i Romani erano accampati nelle vicinanze, sarebbero rimasti quieti in Osimo e non avrebbero seguito il resto dell'esercito per disturbarlo. [21] Intanto Belisario spedì per nave un forte contingente di armati, al comando di Erodiano, Uliaris e Narsete, il fratello di Arazio. [22] Ma come comandante di tutta la spedizione nominò Ildiger, al quale diede istruzione di far rotta direttamente su Rimini, coll'avvertenza di non avventurarsi a sbarcare su quella riva del mare, finché fosse ancora molto distante l'esercito di fanteria che sarebbe venuto per via di terra, lungo una strada non lontana dalla costa. [23] Difatti egli dispose che un altro esercito, con a capo Martino, si mettesse in marcia lungo la riva del mare, tenendo dietro passo passo alle navi, con l'ordine che, appena arrivati presso i nemici, accendessero dei fuochi in quantità molto maggiore dell'usuale in rapporto alla consistenza dei soldati accampati, in modo da dare l'impressione ai nemici di essere assai più numerosi del reale. [24] Egli stesso, infine, si avviò per un'altra strada che era alquanto distante dalla costa, insieme con Narsete e col resto dell'esercito, e passò per il centro di Urbisaglia, che anni prima Alarico aveva distrutto così completamente, da non lasciare più traccia del suo aspetto precedente, eccetto pochi ruderi di una porta e le fondamenta di un edificio.
Note538 d.C.
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Traduzione[37] Tale città [Milano], infatti, si trova nel paese dei Liguri, a metà strada circa tra la città di Ravenna e le Alpi che fanno da confine con le Gallie, [38] poiché sia dall'uno che dall'altro di questi due punti occorre, per andare a Milano, un viaggio di otto giorni [ca. 250 km.], camminando speditamente.
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Traduzione[3] Ma quando Giovanni giunse presso la città di Osimo, sebbene fosse informato che vi si trovava una guarnigione di Goti non molto numerosa, si rese conto che sotto altri rispetti la piazza era molto ben fortificata e impossibile da espugnare. [4] Perciò non volle trattenersi ad assediarla, ma, allontanatosi in fretta dalla città, procedette oltre. [5] Fece la stessa cosa anche per la città di Urbino, mentre a Rimini, che si trova ad un giorno di marcia [ca. 40 km.] da Ravenna, entrò dietro invito dei Romani che vi abitavano. [6] Infatti i barbari che avevano tenuto là un loro presidio, essendo sempre molto sospettosi dei cittadini romani, appena avevano saputo che si stava avvicinando il nostro esercito, si erano ritirati in gran fretta ed erano partiti per Ravenna. [7] Così Giovanni occupò Rimini, pur lasciando dietro di sé nuclei nemici sia ad Osimo che ad Urbino. Ma non agì in questo modo, contravvenendo agli ordini che gli aveva dato Belisario, per un eccesso di fiducia nel proprio ardimento: egli infatti aveva coraggio, ma anche buon senso. Fece invece il ragionamento che – come effettivamente doveva poi accadere – se i Goti avessero saputo che un esercito romano era nelle vicinanze di Ravenna, avrebbero all'istante levato l'assedio da Roma, temendo di perdere quella città. [8] Il suo ragionamento si dimostrò giusto. Difatti, appena Vitige e l'esercito dei Goti udirono che Rimini era stata da lui conquistata, furono presi da grande preoccupazione per le sorti di Ravenna, e senza fare alcuna discussione si prepararono sollecitamente a partire da Roma, come tosto dirò. [9] Per quel risultato, Giovanni acquistò una grande rinomanza, sebbene fosse già anche prima molto ben considerato. [10] Egli infatti era una persona piena di ardimento e d'iniziativa, coraggioso di fronte ai pericoli, che nella vita privata teneva sempre un comportamento austero e dimostrava forza di sopportazione di ogni genere di disagi, quale nessun altro né tra i barbari né tra i comuni soldati. Uomo di tale fatta era Giovanni. [11] Matasunta, la moglie di Vitige, poiché odiava profondamente il marito, che a suo tempo l'aveva costretta con la forza al matrimonio quando apprese che Giovanni era entrato a Rimini, si sentì grandemente rallegrata e gli mandò di nascosto qualcuno per offrirgli la propria mano e la resa della città. [12] Così essi cominciarono a scambiarsi messaggi, all'insaputa di tutti, e a trattare questi accordi. Intanto i Goti, venuti a conoscenza di ciò che era successo a Rimini, siccome contemporaneamente si trovavano privi di ogni vettovagliamento ed era ormai spirata la tregua di tre mesi, si diedero a fare i preparativi per la partenza, quantunque non avessero ancora ricevuto alcuna notizia degli ambasciatori che avevano mandato a Bisanzio. [13] Si era all'incirca all'equinozio di primavera, ed era trascorso un anno più nove giorni dall'inizio dell'assedio, quando i Goti, dato fuoco a tutti i loro accampamenti, all'alba si misero in marcia.
NoteFebbraio-marzo 538 d.C.
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Traduzione[1] Vitige, con ciò che gli rimaneva dell'esercito, marciò verso Ravenna e rafforzò via via le fortezze della zona con buoni contingenti di soldati. A Chiusi, città della Toscana, lasciò mille uomini con Gibimer come comandante, a Orvieto altrettanti, mettendo loro a capo il goto Albila, e a Todi fece fermare Uligisol con quattrocento soldati. [2] Poi nella regione dei Piceni mise a presidiare Petra [Furlo] quattrocento uomini che erano già stati prima sul posto, e ad Osimo, che è la più grande di tutte le città della regione, lasciò quattromila Goti scelti tra i migliori per valore, con un comandante particolarmente famoso per bravura, di nome Visandro, e nella città di Urbino mise duemila uomini con Mora. [3] C'erano poi ancora due località fortificate, Cesena e Montefeltro [San Leo] in ciascuna delle quali pose una guarnigione non inferiore ai cinquecento soldati. Fatto ciò, col resto dell'esercito si diresse alla volta di Rimini, per assediarla. [4] Ma nel frattempo era successo che Belisario, appena i Goti avevano levato l'assedio da Roma, aveva mandato Ildiger e Martino con un migliaio di cavalieri affinché, marciando più svelti per un'altra strada, giungessero a Rimini prima dei nemici; e aveva dato loro ordine che facessero subito uscire dalla città Giovanni e tutti i soldati che erano con lui e mettessero al loro posto soltanto un numero di uomini sufficienti alla difesa della città, prendendoli dalla piazzaforte che si trova sul Golfo Ionio, di nome Ancona, distante due giorni di marcia [ca. 80 km.] da Rimini. [5] Di quella piazzaforte egli aveva già preso possesso non molto tempo prima, mandandovi Conone con un piccolo esercito di Isauri e di Traci. [6] Belisario sperava che, se Rimini fosse stata presidiata soltanto da fanti, comandati da ufficiali di non grande rinomanza, le forze dei Goti non si sarebbero preoccupate di assediarla ma, trascurandola, sarebbero subito andati a Ravenna. Se invece avessero deciso di cingere Rimini d'assedio, le provviste sarebbero state sufficienti alla fanteria per un periodo di tempo abbastanza lungo, [7] e intanto i duemila cavalieri di Giovanni, attaccando i nemici dall'esterno, [8] col resto dell'esercito, avrebbero potuto facilmente infliggere loro molte perdite e costringerli di conseguenza ad abbandonare l'assedio. Fu con questo proposito che Belisario diede tali disposizioni a Martino, a Ildiger e ai loro uomini. Essi, incamminatisi per la via Flaminia, giunsero con molto anticipo sui barbari, [9] perché i Goti, essendo una grande massa di uomini, dovevano procedere più lentamente ed erano costretti a fare lunghe deviazioni, sia per provvedersi di viveri, sia perché preferivano non passare troppo vicino alle città poste lungo la via Flaminia, ossia Narni, Spoleto e Perugia, le quali, come ho già detto, erano nelle mani dei nemici. [10] Quando l'esercito dei Romani raggiunse Petra, facendo una tappa nella marcia, decisero di espugnarla. Ora, questa città è fortificata non per opera di uomini, ma dalla natura stessa del luogo.
(...)
[21] Di là [Petra Pertusa = Furlo] proseguirono fino ad Ancona e, presi molti dei fanti che si trovavano sul posto, al terzo giorno raggiunsero Rimini e riferirono le istruzioni date da Belisario. [22] Ma Giovanni rifiutò di unirsi a loro e anzi volle trattenere anche Damiano con i suoi quattrocento uomini. Allora Ildiger e Martino lasciarono lì la fanteria e subito ripartirono con i lancieri e le guardie del corpo di Belisario.
NoteMarzo-aprile 538 d.C.
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Traduzione[14] Quando infatti giunsero sulla sommità dei monti, di dove c'era ancora un giorno di marcia [ca. 30 km.] per Rimini, capitarono addosso a un piccolo gruppo di Goti che stava camminando lungo la stessa strada per qualche faccenda. [15] Costoro, colti di sorpresa dall'esercito nemico, non fecero in tempo ad allontanarsi dalla strada, ma furono presi di mira dai soldati che erano all'avanguardia; alcuni caddero uccisi, altri, malconci di ferite, scomparvero arrampicandosi su massi rocciosi che erano lì vicino. [16] Di lassù poterono scorgere l'esercito romano che affluiva da tutti i punti di quel terreno accidentato, ed ebbero l'impressione che fosse assai più numeroso di quanto era realmente. [17] Vedendo pure là le insegne di Belisario, capirono che egli stesso guidava quell'armata. Sopravvenne la notte e i Romani si fermarono sul posto a bivaccare; allora i Goti mal ridotti scesero furtivamente fino all'accampamento di Vitige. [18] Vi giunsero verso mezzogiorno e mostrando le ferite affermarono che Belisario sarebbe tosto sopravvenuto con tanti soldati che era impossibile contarli. [19] I Goti, a quella notizia, si prepararono allo scontro disponendosi a nord della città di Rimini, perché pensavano che i nemici arrivassero da quella parte, e sempre fissavano lo sguardo sulle alture dei monti. [20] Ma quando calarono su di essi le tenebre della notte e, deposte le armi, stavano riposando, scorsero a oriente della città, a circa sessanta miglia di distanza [ca. 90 km.], un gran numero di fuochi (erano quelli accesi dalle truppe di Martino) [21] e furono colti da un'indicibile paura, perché pensarono che all'apparire del giorno si sarebbero trovati circondati dai nemici. Tutta la notte, pertanto, vegliarono in quello stato di apprensione, e il giorno dopo, al levar del sole, videro giungere alla loro volta una flotta di navi in numero incredibile. Ammutoliti per lo spavento, si diedero a una fuga precipitosa.[22] Mentre [gli Ostrogoti che assediavano Rimini] raccoglievano frettolosamente i bagagli, facevano una tal confusione e un tale schiamazzo, da non udire nemmeno gli ordini che venivano loro gridati; ognuno non poneva mente a null'altro, se non a precipitarsi fuori dell'accampamento per primo, e correre via, per rifugiarsi entro le mura di Ravenna. [23] Se gli assediati [di Rimini] avessero saputo trovare un po' di coraggio e di audacia, avrebbero potuto fare una grande strage di nemici, balzando fuori all'improvviso, e così avrebbe avuto termine per sempre la guerra. [24] Ma sfortunatamente furono trattenuti dalla grande paura, nata in loro in seguito alle precedenti sventure, e dalla fiacchezza che già si era impossessata di molti per la mancanza di cibo. Così i barbari, con indicibile confusione, presero quanto potevano delle loro cose e si avviarono di gran corsa verso Ravenna.
NoteAprile 538 d.C. Assedio ostrogoto di Rimini: marzo-aprile 538 d.C.
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Traduzione[1] I primi dei Romani che giunsero all'accampamento nemico furono gli uomini di Ildiger, e fecero prigionieri tutti i Goti che erano dovuti rimanere li perché ammalati, e presero tutte le cose di valore che gli altri Goti avevano dimenticato. [2] Belisario giunse con il grosso dell'esercito verso mezzogiorno. Quando vide Giovanni e i suoi uomini pallidi e terribilmente mal ridotti, alludendo alla sua folle temerarietà gli disse che poteva davvero ringraziare Ildiger. [3] Ma quegli rispose che non doveva riconoscenza a Ildiger, bensì a Narsete, il tesoriere dell'imperatore, volendo significare – suppongo – che Belisario era venuto in suo aiuto non di propria iniziativa, ma per suggerimento di Narsete. Da quel momento essi rimasero sempre in grande disaccordo l'uno con l'altro. [4] Anche per questo gli amici di Narsete non approvavano che egli conducesse la campagna di guerra assieme a Belisario e cercavano di convincerlo che era poco decoroso che un uomo messo a parte dei segreti dell'imperatore non avesse il comando supremo dell'esercito, ma dovesse prendere ordini da un semplice generale. (...) [10] Udendo questi discorsi, Narsete era molto lieto del suggerimento, e non riusciva più a soffocare la propria ambizione e a tollerare lo stato di cose com'era. [11] Più di una volta, pertanto, quando Belisario progettava di compiere qualcosa di nuovo, egli [Narsete], sollevando mille obiezioni, ora di un genere ora di un altro, ostacolava i suoi piani. [12] Accortosi dell'ostruzionismo, Belisario riunì un giorno tutti gli ufficiali e tenne questo discorso: «Mi sembra, signori ufficiali, che io e voi non abbiamo più, riguardo a questa guerra, opinioni concordanti. Vedo infatti che voi non vi state troppo preoccupando dei nemici, come se fossero già stati completamente debellati. [13] Ma ho paura che, in conseguenza di questo vostro eccessivo ottimismo, dobbiamo incorrere in un grave pericolo, che è facilmente prevedibile: [14] io so che i barbari non sono stati sconfitti da noi per viltà o per mancanza di mezzi, ma solo perché sono stati colti di sorpresa dalla nostra accorta strategia e dai nostri piani ben calcolati, e hanno dovuto ritirarsi di qui. [15] Ma temo che voi vi lasciate ingannare da una non ben chiara visione dei fatti e perciò finiate col procurare danni irreparabili non solo a voi stessi, ma alla causa dei Romani. [16] Coloro che, già considerandosi vincitori, si lasciano esaltare dai propri successi, sono più facilmente vulnerabili di coloro che, avendo subito un inatteso rovescio, continuano a vivere nel sospetto e nel timore dei nemici. [17] La leggerezza rovina spesso molti di coloro che si sentono al sicuro, mentre l'impegno e la ponderatezza molte volte salvano coloro che si trovano in difficoltà. [18] Quando ci abbandoniamo all'indolenza, le forze, per lo più, s'infiacchiscono, mentre l'attività ha il pregio di potenziare notevolmente il vigore. [19] Consideri ognuno di voi che Vitige è chiuso in Ravenna con molte migliaia di Goti; che Uraia sta assediando Milano e ha sotto suo controllo l'intera Liguria; che Osimo è stipata di un esercito assai numeroso e temibile, e molte altre località sono presidiate da barbari, in grado di opporci viva resistenza, fino ad Orvieto, che si trova nelle vicinanze di Roma. [20] Cosicché la situazione è adesso per noi molto più pericolosa di prima, perché siamo venuti a trovarci come in una specie di accerchiamento da parte dei nemici. [21] E tralascio di far menzione del fatto che, a quanto si dice, anche i Franchi si sono schierati con loro in Liguria, cosa che i Romani non possono certamente apprendere senza grande spavento. [22] Io ritengo dunque che bisogna mandare a Milano e in Liguria una parte dell'esercito e con tutti gli altri muovere subito contro Osimo e i nemici che in essa si trovano, per tentare ciò che Dio ci concederà. Dopo di che, potremo affrontare anche gli altri problemi della guerra come ci sembrerà meglio e più opportuno». Così parlò Belisario.
[23] Ma Narsete replicò come segue: «Tutto ciò che hai detto, o generale, nessuno può obiettare che non sia conforme a verità. [24] Ma che tutta l'armata dell'imperatore che si trova qui debba essere divisa soltanto fra Milano e Osimo, mi sembra assolutamente irragionevole. [25] Nulla vieta che tu conduca con te per tali imprese tutti i soldati romani che credi; noi altri, invece, cercheremo d'impossessarci, in nome dell'imperatore, del territorio dell'Emilia che, a quanto si dice, i Goti fanno ogni sforzo per conservare a se stessi, e metteremo in subbuglio Ravenna, in modo che voi possiate affrontare tutti i nemici che vi troverete davanti privati da ogni speranza di ricevere rinforzi. [26] Perché, se scegliessimo di unirci a voi per assediare Osimo, temo che i barbari ci piomberebbero addosso da Ravenna, e così noi, chiusi in mezzo ai nemici da una parte e dall'altra, e privi di rifornimenti, rimarremo distrutti sul posto». Questo disse Narsete.
[27] Ma Belisario temeva che se i Romani si fossero divisi per andare contemporaneamente in più direzioni diverse, ne sarebbe derivato un indebolimento delle forze dell'imperatore, e quindi la loro rovina in conseguenza di quella separazione. Ed egli mostrò una lettera che l'imperatore Giustiniano aveva scritto per gli ufficiali superiori dell'esercito, [28] la quale diceva quanto segue: «Non abbiamo mandato, in Italia il nostro tesoriere Narsete perché prendesse il comando della campagna militare, ma è nostra volontà che Belisario sia l'unico a comandare l'esercito nel modo che gli sembrerà più conveniente. Perciò, nell'interesse dello Stato, è dovere di tutti ubbidire soltanto a lui». Questo era il contenuto della lettera dell'imperatore. [29] Ma Narsete, riferendosi all'ultima frase di essa, sostenne che Belisario attualmente stava proprio prendendo decisioni in contrasto con gli interessi dello Stato, e che perciò essi non avevano alcun obbligo di ubbidirgli.
NoteMaggio 538 d.C. Assedio ostrogoto di Milano: aprile 538-marzo 539 d.C. Narsete (478-574 d.C.) era giunto in Italia nell'aprile 538 ad Ancona.
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Traduzione[1] Udita questa dichiarazione, Belisario mandò Peranio con un buon nerbo di soldati ad assediare Orvieto, mentre egli stesso guidava un altro contingente contro Urbino, una città ben fortificata, che aveva un solido presidio di Goti, distante da Rimini una giornata di cammino a passo spedito [ca. 30 km.]. Quando egli si mise in marcia con l'esercito, lo seguirono anche Narsete e Giovanni e tutti gli altri. (...) [8] Ma alcuni tra gli intimi di Narsete, recatisi tutti insieme da lui, lo avvertirono che Belisario stava facendo un lavoro interminabile e aveva in mente progetti impossibili da realizzare. Anche Giovanni aveva già tentato di espugnare quel luogo in un momento in cui sul posto c'era soltanto una guarnigione di pochissimi uomini; ma aveva dovuto constatare che era assolutamente inespugnabile, il che era vero. Perciò doveva incaricarsi egli stesso di assicurare all'imperatore la regione dell'Emilia. [9] Narsete si lasciò convincere da questi suggerimenti e, giunta la notte, abbandonò l'assedio, sebbene Belisario insistesse per convincerlo a rimanere e ad aiutarlo a prendere la città di Urbino. [10] Ma egli partì subito per Rimini con la sua parte di esercito. I barbari, col loro comandante Mora, quando l'indomani mattina videro che una metà dei nemici se ne erano andati, si diedero a sbeffeggiare dall'alto delle mura i rimasti, con parole di scherno.
[11] Belisario allora decise di prendere d'assalto la città con le forze che gli erano state lasciate. E mentre faceva piani a questo scopo, gli capitò uno straordinario colpo di fortuna. [12] C'era in Urbino un'unica fontana, da cui erano costretti ad attingere acqua tutti gli abitanti della città. Ma proprio allora, improvvisamente, la fontana incominciò ad esaurirsi e a disseccarsi. [13] In tre giorni si ebbe una tale penuria di acqua, che i barbari erano costretti a berla insieme col fango che ne tiravano. Di conseguenza decisero di capitolare ai Romani. [14] Ma Belisario, che ignorava completamente questo fatto, era sempre del parere di tentare un attacco alle mura. Perciò fece prendere le armi a tutto l'esercito e lo dispose in circolo attorno alla collina, mentre diede ordine a un piccolo reparto di portare la stoà (questo è il nome che usualmente viene dato a tale macchina da guerra) fin dove il terreno cominciava ad essere pianeggiante. Quelli, entrati dentro la macchina, si misero a camminare trasportando sopra di sé la stoà, nascosti alla vista dei nemici. [16] Allora i barbari dagli spalti, levando in alto la mano destra, chiedevano di ottenere la pace. I Romani, completamente ignari di ciò che era accaduto riguardo alla fontana, pensarono che essi avessero paura di uno scontro e della macchina da guerra. Ad ogni modo ambedue le parti furono liete di sospendere le ostilità. [17] I Goti consegnarono a Belisario se stessi e la città, a condizione di essere risparmiati da persecuzioni e di diventare sudditi dell'imperatore a completa parità con l'esercito dei Romani.
[18] Narsete, quando fu informato di questo successo, accolse la notizia con stupore e con irritazione. [19] Comunque, egli rimase ancora fermo a Rimini, ordinando invece a Giovanni di muovere con tutto il suo esercito contro Cesena. Giovanni partì, portando con sé delle scale. Appena giunti sotto le mura, mossero all'attacco, tentando di scalarle. [20] Ma i barbari si difesero strenuamente e molti dei nostri caddero nel combattimento, tra cui Faniteo, comandante degli Eruli. [21] Giovanni allora ritenne inutile, dopo quell'insuccesso, tentare ancora di espugnare la fortezza di Cesena, giudicando che fosse imprendibile, e si spinse più oltre, insieme a Giustino e al resto dell'esercito. [22] Con un'azione di sorpresa riuscì a prendere possesso di un'antica città, di nome Forocornelio [Imola]. Poi, siccome i barbari continuavano a ritirarsi davanti a lui e non accettavano mai battaglia, egli assicurò all'imperatore tutta quanta l'Emilia. Questi furono gli avvenimenti su quel fronte.
NoteEstate 538 d.C.
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Traduzione[15] Passò il tempo e venne di nuovo l'estate. Nei campi il grano maturava, ma non più abbondante come negli anni precedenti. [16] Non era stato seminato in solchi ben tracciati dagli aratri e lavorati dalla mano dell'uomo, ma sparso solo sulla superficie, e perciò la terra aveva, potuto farne germogliare soltanto una piccola parte; [17] siccome poi nessuno lo aveva mietuto, giunto a maturazione era caduto a terra, e non era più nato niente. Questo era accaduto anche in Emilia; [18] perciò gli abitanti di quella regione avevano lasciate le loro case ed erano trasmigrati nel Piceno, pensando che, siccome, quella terra era vicina al mare, non dovesse soffrire una totale mancanza di viveri. [19] Anche i Toscani erano angustiati dalla fame per le medesime ragioni, e molti di essi, che vivevano sui monti, macinavano le ghiande delle querce come se fosse frumento, e mangiavano pagnotte fatte con quella farina. [20] Naturalmente moltissimi caddero vittime di ogni specie di malattie, e soltanto pochi riuscirono a superarle e a salvarsi. [21] Nel Piceno, si parla di non meno di cinquantamila persone, tra i contadini, che morirono di fame, e molti di più ancora furono nelle regioni a nord del Golfo Ionico. [22] Essendone stato io stesso testimone oculare, dirò quale aspetto prendevano queste persone e come morivano. [23] Prima di tutto diventavano magrissime e gialle in viso, perché la carne, privata di cibo, secondo un antico detto “si nutriva di se stessa” e la bile, avendo ormai il sopravvento in quegli organismi, perché in eccesso, stendeva su di essi un po' del suo colore. [24] Col progredire della malattia, scompariva tutta l'umidità della pelle, che diventata incredibilmente secca, simile a cuoio, e dava l'impressione di essere attaccata alle ossa. Poi il colore livido si mutava in nero, e allora assomigliavano a torce di legno completamente consumate dal fuoco. [25] Il loro volto era sempre attonito e avevano uno sguardo folle e spaventato. Morivano per lo più consunti dalla mancanza di nutrimento, ma alcuni invece perché divoravano cibo con troppa ingordigia. [26] Siccome, infatti, si erano spente tutte le calorie che la natura aveva fatto agire in essi, se non si dava loro da mangiare poco alla volta, come bambini appena nati, non avendo più la possibilità di digerire il cibo, morivano ancora più facilmente. [27] Taluni, forzati dalla fame, si cibarono di carne umana. Si dice che due donne, in una località di campagna sopra la città di Rimini, mangiarono diciassette uomini. [28] Erano le uniche sopravvissute fra gli abitanti del paese, e perciò i forestieri che transitavano di là sostavano nella piccola casa in cui esse vivevano, e le due donne, mentre dormivano, li uccidevano e li mangiavano. [29] Ma si racconta che il diciottesimo ospite, svegliatosi dal sonno proprio nel momento in cui le donne stavano per mettergli le mani addosso, balzò in piedi e, appresa da loro tutta la storia, le uccise ambedue. [30] Così almeno si dice che andarono le cose. Molte persone erano così indebolite dalla fame, che se per caso capitavano dove ci fosse dell'erba, si gettavano su di essa con bramosia, chinandosi per strapparla da terra; [31] ma siccome non riuscivano perché le forze le avevano completamente abbandonate, cadevano sull'erba con le mani tese, e lì morivano. [32] E nessuno mai le seppelliva sotto terra poiché non si parlava nemmeno di sepolture, ma non si accostava loro neppure uno di quei numerosi uccelli che hanno l'abitudine di divorare i cadaveri, perché non offrivano nulla di cui essi potessero cibarsi. [33] Infatti tutta la carne, come ho già detto prima, era stata ormai consumata dal digiuno. Così stavano le cose in conseguenza della carestia.
NoteCarestia ed epidemie: estate 538 e/o 539 d.C.
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Traduzione[1] Quando Belisario udì che Uraia e i barbari stavano assediando Milano, mandò subito contro di loro Martino e Uliaris con un grosso esercito. [2] Ma costoro, giunti alla rive del fiume Po, a un giorno di marcia [ca. 40 km.] da Milano, posero l'accampamento e si fermarono, perdendo poi lì moltissimo tempo a discutere sul modo di attraversare il fiume. [3] Saputo questo, Mundila mandò loro un messaggero, un Romano di nome Paolo, [4] il quale, passando tra le linee nemiche, giunse alle rive del Po e qui, non trovando subito un'imbarcazione pronta, si spogliò dei vestiti e con grande rischio fece la traversata a nuoto. [5] Raggiunto così l'accampamento romano e introdotto al cospetto dei due generali, tenne questo discorso: «Martino e Uliaris, voi non state agendo in maniera giusta e degna della vostra fama, perché, mentre nelle vostre intenzioni siete venuti qui per la tutela degli interessi dell'imperatore, in realtà siete venuti per accrescere la potenza dei Goti. [6] Milano infatti, che per importanza e per numero di abitanti e per ogni altro rispetto supera praticamente tutte le città d'Italia, e oltre a ciò è un avamposto contro i Germani e gli altri barbari, insomma, si può dire è la protezione di tutto l'impero romano, si trova ora in grave pericolo, unitamente a Mundila e all'esercito imperiale, vessata com'è dai nemici e trascurata da voi. [7] Quanto danno abbiate già arrecato all'imperatore con questo vostro indugio, non mi soffermo a ricordarlo. La gravità del momento non mi permette di spendere troppe parole, perché ora devo sollecitare il vostro urgente intervento in aiuto della città, se ancora rimane qualche speranza. [8] Dico solo che voi dovete accorrere immediatamente ad aiutare i Milanesi in pericolo. Perché; se in questa grave congiuntura indugiate ancora a venire da noi, il nostro destino sarà quello di soccombere, soffrendo le più terribili conseguenze, e il vostro marchio sarà quello di aver tradito l'imperatore, cedendo ai nemici la sua potenza. [9] Perché, io credo, non meritano di essere chiamati traditori soltanto coloro che aprono le porte agli avversari, ma, alla stessa stregua, se non anche di più, coloro che, avendo la possibilità di portare aiuto a fratelli stretti d'assedio, scelgono la via meno rischiosa di astenersi anziché intervenire nella lotta, e così naturalmente permettono ai nemici la vittoria su di loro».
[10] Queste parole disse Paolo, e Martino e Uliaris lo rispedirono indietro con la promessa che lo avrebbero subito seguito. [11] Egli riuscì a rientrare in Milano nottetempo, senza che i nemici lo notassero, e, portata un po' di speranza ai soldati e ai cittadini romani, ne rafforzò di nuovo il proposito di rimanere fedeli all'imperatore. [12] Tuttavia Martino e i suoi uomini continuavano a indugiare, stando fermi dov'erano, e in questa incertezza persero ancora molto tempo. [13] Finalmente Martino, per scagionarsi di ogni responsabilità, scrisse a Belisario la seguente lettera: «Tu ci hai mandato a portare aiuto a quelli che sono in pericolo a Milano, e noi con molta sollecitudine, come tu ci avevi raccomandato, siamo giunti fino al fiume Po. Ma adesso l'esercito ha paura di attraversarlo, perché si è saputo che in Liguria si trova una grande armata di Goti, e con loro un'enorme massa di Borgognoni [Burgundi], contro i quali non crediamo di essere in grado di combattere da soli. [14] Ordina dunque a Giovanni e a Giustino, che si trovano nella regione dell'Emilia, non distanti da noi, di venire subito qui con le loro truppe a sostenerci nell'affrontare il pericolo. [15] Se partiremo di qui tutti insieme, avremo la probabilità di salvarci e anche di sconfiggere i nemici».
[16] Questo era il contenuto della lettera di Martino. Belisario, quando l'ebbe letta, mandò a dire a Giovanni e a Giustino di marciare immediatamente su Milano, congiungendosi con le forze di Martino. Essi risposero che non avrebbero fatto nulla senza l'autorizzazione di Narsete. [17] Allora Belisario scrisse a Narsete in questi termini: «Tieni presente che tutto l'esercito dell'imperatore forma un corpo solo e che perciò, se non ubbidisce a un'unica mente direttrice come avviene per le membra di un corpo umano, ma una parte di esso decide di agire separatamente dalle altre, a noi non rimarrà che perire, senza aver compiuta nessuna delle cose che dobbiamo compiere. [18] Perciò lascia stare l'Emilia, che non possiede alcun luogo fortificato e che in questo momento non rappresenta nulla di veramente importante per i Romani, [19] e ordina invece a Giovanni e a Giustino di andare senza indugio a Milano, contro i nemici, insieme alle truppe di Martino, le quali sono poco distanti e hanno forze sufficienti per sconfiggere i barbari. [20] Adesso a me succede di non disporre d'un contingente di truppe sufficiente perché possa spedirlo laggiù; d'altra parte credo che non sarebbe conveniente che i miei andassero di qui fino a Milano, [21] in quanto impiegherebbero troppo tempo e vi giungerebbero dopo trascorso il momento opportuno, né potrebbero servirsi dei cavalli, stanchi per la lunghezza del viaggio, anche quando avessero raggiunti i nemici. [22] Se invece i tuoi uomini andranno a Milano insieme a Martino e a Uliaris, con ogni probabilità sconfiggeranno i barbari che sono là e poi potranno di nuovo prendere possesso dell'Emilia, senza più trovare resistenza».
[23] Appena questo scritto fu portato a Narsete, ed egli lo ebbe letto, subito diede ordine a Giovanni e a Giustino di partire per Milano con l'altro esercito. [24] Poco dopo Giovanni si recò sulla riviera del mare per cercarvi delle imbarcazioni con cui l'esercito potesse attraversare il fiume. Ma lo colse un'improvvisa malattia che interruppe la sua attività. [25] Di conseguenza, mentre le truppe di Martino continuavano a temporeggiare per il problema della traversata e quelle di Giovanni aspettavano nuove istruzioni da Narsete, in questo lungo trascorrere di tempo, l'assedio continuava a premere insopportabilmente. [26] Gli assediati erano già troppo tormentati dalla carestia, tanto che, forzati dalla fame, molti di essi cominciarono a mangiare cani e topi e altri animali che non vengono mai mangiati dagli uomini.
NoteGennaio-marzo 539 d.C. Capitolazione e saccheggio di Milano: fine marzo 539 d.C.
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Traduzione[7] Ma qui [gli Eruli] incontrarono Vitalio e, pentiti di aver tradito l'imperatore Giustiniano, per farsi perdonare tale colpa, [8] gli lasciarono uno dei loro generali, di nome Visandro, col suo seguito, mentre gli altri si diressero tutti a Bisanzio, guidati da Aluith e Filemuth, il quale ultimo aveva il comando generale, dopo che Faniteo era stato ucciso a Cesena. [9] Vitige e i Goti che erano con lui, quando udirono che all'inizio della primavera Belisario sarebbe venuto contro di loro a Ravenna, furono colti da grande spavento e si consultarono sul da farsi in tale eventualità. Dopo aver molto discusso, poiché non credevano di essere in grado, da soli, di affrontare in battaglia i nemici, decisero di cercare l'alleanza di qualche altro popolo barbarico. [10] I Germani li scartarono, avendo già fatto esperienza della loro falsità e infedeltà, ben lieti se, almeno, non fossero venuti contro di loro come alleati di Belisario. [11] Mandarono invece dei parlamentari a Vace, il capo dei Longobardi, a offrirgli grandi ricompense in denaro per invitarlo a entrare in un'alleanza offensiva e difensiva. [12] Ma gli inviati, venuti a sapere che Vace era amico e alleato dell'imperatore, se ne tornarono senza nulla di fatto. [13] È naturale, quindi, che Vitige, date le circostanze, fosse alquanto preoccupato e chiedesse spesso il consiglio degli anziani. [14] Li interrogava continuamente per sapere che decisioni dovesse prendere e che cosa dovesse fare per risolvere nel modo migliore la situazione. Da coloro che egli convocava a consiglio vennero espressi molti pareri diversi, alcuni dei quali assolutamente inadatti allo scopo, altri invece, che offrivano qualche suggerimento degno di essere preso in considerazione. [15] Tra l'altro fu avanzata anche questa idea: che l'imperatore dei Romani non era stato in grado di muovere contro i barbari dell'Occidente prima di aver concluso una tregua con i Persiani ([16] infatti era stato soltanto dopo che i Vandali e i Mauri erano stati debellati che anche i Goti avevano cominciato a subire i mali presenti); di conseguenza, se si fosse riusciti a mettere di nuovo il re dei Medi contro l'imperatore Giustiniano, quando quel popolo avesse nuovamente aperto le ostilità contro i Romani, questi non avrebbero più avuto possibilità di sostenere un'altra guerra contro nessun popolo al mondo. [17] Questo ragionamento piacque a Vitige e agli altri Goti. Perciò si decise di mandare ambasciatori a Cosroe, re dei Medi, per spingerlo a muovere guerra all'imperatore Giustiniano, non però dei Goti, perché, se fosse stato evidente di dove venivano, le negoziazioni sarebbero andate a vuoto, bensì dei cittadini romani. Pertanto scelsero due sacerdoti della Liguria, convincendoli a compiere quella missione dietro una cospicua ricompensa in denaro. Uno di questi, che aveva l'aspetto più autorevole, partecipava all'ambasceria presentandosi illecitamente con l'abito e il titolo di vescovo, che non gli spettava affatto, mentre l'altro lo seguiva come suo segretario. [20] Vitige li mandò da Cosroe con una lettera scritta di suo pugno, e Cosroe si lasciò convincere da loro e si mise a compiere soprusi contro i Romani, nonostante le clausole della tregua, come ho già riferito in pagine precedenti. [21] Quando l'imperatore Giustiniano udì che Cosroe e i Persiani stavano comportandosi in quel modo, si rese conto che bisognava concludere al più presto la guerra in Oriente e che si doveva perciò richiamare Belisario perché dirigesse la campagna militare contro i Persiani. [22] Perciò licenziò gli ambasciatori di Vitige, i quali appunto si trovavano ancora a Bisanzio, promettendo che sarebbero stati inviati dei suoi rappresentanti a Ravenna a stipulare un trattato di pace coi Goti, soddisfacente per ambedue le parti. [23] Belisario però non volle mandare questi rappresentanti ai nemici finché essi non avessero rilasciato l'ambasceria di Atanasio e di Pietro. [24] Quando questi due tornarono finalmente a Bisanzio, l'imperatore li gratificò di doni preziosi e nominò Atanasio prefetto del pretorio per l'Italia, mentre a Pietro conferì quella che è detta la carica di “magister”. [25] Intanto giunse la fine dell'inverno e terminò il quarto anno di questa guerra che Procopio sta raccontando.
NoteSeconda metà 539-inizi 540 d.C. Guerra persiana dopo la "pace perpetua": inizi 540 d.C. Prefettura del pretorio d'Italia di Atanasio: fine 539 o inizi 540-metà 542 forse d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_22.pdf
Traduzione[1] Ora Belisario aveva intenzione di conquistare innanzitutto Osimo e Fiesole e soltanto dopo marciare contro Vitige a Ravenna, quando più nessun nemico potesse impedire la sua avanzata o aggredirlo alle spalle. [2] Pertanto mandò a Fiesole Cipriano e Giustino con i loro corpi di cavalleria e alcuni Isauri, insieme a cinquecento fanti del reparto comandato da Demetrio, ed essi andarono ad accamparsi nei pressi della città e cominciarono ad assediare i barbari che vi si trovavano. [3] Martino e Giovanni coi loro uomini e un altro contingente agli ordini di Giovanni detto il Ghiottone furono invece mandati a raggiungere la linea del fiume Po, con l'ordine d'impedire che Uraia e i suoi soldati venissero contro i nostri partendo da Milano. Se non fossero stati in grado di respingere un'avanzata dei nemici, dovevano seguirli di nascosto e coglierli di sorpresa alle spalle. Essi occuparono Tortona, una città non fortificata che giace presso il fiume, e posti lì gli accampamenti rimasero in osservazione. [5] Belisario in persona, intanto, si portò ad Osimo con undicimila soldati. [6] Osimo è la più importante città del Piceno, cioè la metropoli, come usano dire i Romani. Dista circa ottantaquattro stadi [ca. 15,5 km.] dalle rive del Golfo Ionico e circa tre giorni di marcia da Ravenna, più un'ottantina di stadi [ca. 135 km.]. [7] E' situata su di una collina piuttosto elevata e non ha nessuna strada di accesso pianeggiante; perciò è da ogni parte inaccessibile per i nemici. [8] In essa Vitige aveva raccolto una guarnigione composta dei più valenti tra i Goti, facendo il ragionamento che i Romani, se non avessero prima espugnato quella roccaforte, non avrebbero mai osato marciare contro Ravenna. [9] Quando, dunque, l'esercito romano giunse ad Osimo, Belisario diede ordine che tutti i reparti si accampassero in cerchio attorno alle radici della collina. Essi si disposero, divisi in simmorie ciascuna delle quali piantò le tende separatamente, lungo tutta la linea. I Goti, che li osservavano, vedendo che i vari gruppi erano alquanto distanti l'uno dall'altro e che non avrebbero potuto troppo facilmente portarsi aiuto tra di loro, perché sparsi per un vasto tratto di pianura, nel tardo pomeriggio avanzarono contro di loro all'improvviso, dalla parte a est della città, dove proprio Belisario si trovava ancora occupato a piantare il campo con i suoi lancieri e scudieri. Questi, afferrate le armi, fecero fronte agli avversari come le circostanze permettevano, e col loro valore riuscirono facilmente a respingerli e a volgerli in fuga. Li inseguirono anche, mentre fuggivano, giungendo fino a metà del colle; ma qui i barbari si volsero di nuovo e, facendosi forti della loro posizione più elevata, affrontarono gli inseguitori. Siccome li dardeggiavano dall'alto, ne uccisero parecchi, finché il sopraggiungere della notte pose fine alla lotta. Così si separarono e ciascuna delle due parti quella notte poté riposare tranquilla. [13] Ma nella notte avvenne ancora questo fatto. Alcuni dei Goti, che il giorno precedente a questa azione erano stati mandati fuori, alle prime luci, per fare provviste nella campagna circostante, ora, sul calare della notte, facevano ritorno, [14] senza nulla sapere della presenza dei nemici; quando scorsero i fuochi accesi dai Romani, furono colti da grande stupore e da spavento. [15] Molti di essi ebbero il coraggio di affrontare il pericolo e riuscirono a eludere la sorveglianza dei nemici e a rientrare in Osimo. Ma tutti quelli che, invece, sopraffatti dal terrore, cercarono lì per lì uno scampo nascondendosi nei boschi, coll'intenzione di fuggire poi a Ravenna, non molto dopo caddero nelle mani dei nemici e furono uccisi.
NoteEstate 539 d.C. Assedio di Osimo e Fiesole: estate-novembre 539 d.C.
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Traduzione[1] Col trascorrere del tempo ai barbari [di Osimo] cominciarono a scarseggiare le provviste, e allora pensarono bene di mettere Vitige a conoscenza della situazione. [2] Ma nessuno di loro voleva essere mandato a compiere quella missione, perché non credevano di riuscire a eludere la sorveglianza degli assedianti; allora escogitarono il seguente piano. [3] Aspettarono che venisse una notte senza luna, tenendo pronti gli uomini che avevano scelto per mandare da Vitige, già con la lettera consegnata nelle loro mani, e, a notte inoltrata, tutti levarono grida clamorose da ogni parte degli spalti. [4] Si sarebbe detto che era sorto tra di loro un grande scompiglio in conseguenza di un improvviso attacco di nemici e dell'inattesa espugnazione della città. [5] I Romani non riuscivano assolutamente a capire che cosa stesse succedendo, ma per ordine di Belisario se ne stavano quieti nell'accampamento, pensando che nella città si stesse macchinando qualche inganno o che fosse giunto da Ravenna un esercito in aiuto dei nemici. Comunque, impauriti com'erano, ritennero meglio rimanersene tranquilli al sicuro, piuttosto che andare ad affrontare, in una notte senza luna, un pericolo sconosciuto. [6] In questo modo i barbari poterono spedire i loro uomini a Ravenna all'insaputa dei nemici. Quelli, senza capitare sotto gli occhi di nessuno dei nostri, giunsero da Vitige dopo tre giorni e gli consegnarono la lettera. [7] La lettera diceva quanto segue: «Quando tu, o re, ci hai destinati a presidiare Osimo, hai detto che la consideravi la chiave di Ravenna e del tuo regno. [8] Perciò ci hai esortati a difendere la posizione con tutte le nostre forze, affinché per colpa nostra non cadesse nelle mani dei nemici la potenza dei Goti; ci hai pure fatto la promessa che, se avessimo avuto bisogno del tuo aiuto, saresti subito accorso qui tu stesso con tutto l'esercito. [9] Ora noi, fino a questo momento, combattendo sia contro la fame che contro Belisario, ci siamo dimostrati zelanti difensori del tuo regno; ma tu non hai mai pensato di aiutarci in qualche modo. [10] Sta dunque attento che i Romani non debbano un giorno o l'altro espugnare Osimo e prendersi quelle chiavi che si trovano qui, ma di cui tu non ti sei curato, e così non essere più esclusi da nessuno dei tuoi possedimenti».
Questo era il contenuto della lettera. [11] Vitige, quando essa gli fu consegnata e l'ebbe letta, immediatamente rimandò indietro quegli uomini, assicurandoli che sarebbe tosto venuto in aiuto di Osimo con tutto l'esercito goto. Ma poi, dopo aver a lungo meditato, se ne rimase inattivo. (...) [16] Intanto gli uomini mandati in ambasceria a Vitige fecero ritorno ad Osimo senza essere visti dai nemici e riferirono le sue promesse, rincuorando i barbari che vi si trovavano, con vane speranze. [17] Belisario, venuto a conoscenza di quell'ambasceria da alcuni disertori, diede disposizioni perché si facesse una sorveglianza molto più stretta, onde non dovesse più succedere altra volta una cosa del genere.
NoteEstate 539 d.C.
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Traduzione[7] Finché rimasero in Liguria, i Germani non recarono alcuna molestia ai Goti, per non avere da loro nessun impedimento a compiere la traversata del Po. [8] Difatti, quando raggiunsero la città di Ticino [Pavia], dove c'era un ponte sopra il fiume costruito dagli antichi Romani, i Goti che ne avevano la vigilanza diedero loro ogni assistenza e li lasciarono passare tranquillamente dall'altra parte del fiume. [9] Ma una volta preso sotto controllo il ponte, i Franchi catturarono tutte le donne e i bambini dei Goti che si trovavano là e li sacrificarono, gettandone i corpi nel fiume, come primizie di guerra. [10] Questi barbari, infatti, pur essendosi convertiti al cristianesimo, conservano molte usanze della loro precedente religione, e fanno ancora sacrifici umani e praticano altri riti barbarici con cui ricavano profezie. [11] Vedendo ciò che essi [i Franchi] facevano, i Goti furono presi da una terribile paura e si diedero alla fuga, riparando entro le mura della città [Pavia]. Attraversato il fiume Po, i Germani si diressero verso l'accampamento degli altri Goti, e questi, a tutta prima, furono lieti di vederli avanzare a piccoli drappelli, convinti che quegli uomini venissero per combattere in alleanza con loro. [12] Ma appena si fu raccolta una gran massa di Germani [Franchi], questi aprirono le ostilità e, lanciate le scuri, ne ferirono molti. Allora i Goti volsero le spalle, dandosi alla fuga, e corsero in direzione di Ravenna, passando in mezzo agli accampamenti romani. (...) [16] I Franchi intanto, sconfitti entrambi i nemici, come ho detto, ne occuparono i due accampamenti, completamente vuoti di uomini, e in essi trovarono per il momento sufficienti provviste. Ma in breve tempo, poiché erano molto numerosi, consumarono ogni cosa e dalle campagne intorno, abbandonate dagli abitanti, non poterono ricavare altro che bestiame e l'acqua del Po. [17] A causa dell'eccessiva quantità di acqua che bevevano, non riuscivano a digerire quelle carni, e molti caddero malati di diarrea gastrica e dissenteria, da cui non erano in alcun modo in grado di liberarsi, per la mancanza di un cibo appropriato. [18] Pare che in questa maniera sia perito un terzo dell'esercito dei Franchi. Anche a motivo di questo inconveniente essi non avevano possibilità di continuare la loro marcia e dovettero rimanere là. (...) [23] Quando Teodiberto ebbe letto questa lettera, già preoccupato com'era per la situazione, e per di più rimproverato dai Germani, i quali si lamentavano di essere costretti a morire senza alcun motivo in una terra desolata, levò le tende e assieme ai Franchi sopravvissuti si ritirò in gran fretta nel proprio paese.
NoteIncursione dei Franchi di re Teodeberto I (534-548 d.C.) in Italia: estate 539 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_25.pdf
Traduzione[2] Intanto i Goti che erano chiusi in Osimo e non si erano nemmeno accorti della calata dei Franchi, delusi nelle loro speranze di un aiuto da Ravenna, che veniva continuamente differito, decisero di rivolgere di nuovo un appello a Vitige; non trovavano però il modo di eludere la sorveglianza dei nemici ed erano pieni d'ira. [3] Un giorno, tuttavia, vedendo che un solo Romano, certo Burcenzio, originario della gente dei Bessi e appartenente al reparto comandato da Narsete l'Armeno, era posto di sentinella, verso mezzogiorno, per badare che nessuno uscisse dalla città a tagliar erba, cercarono di andargli vicino e di attaccare discorso con lui, rassicurandolo che non avevano alcuna intenzione di fargli del male, e lo invitarono a intrattenersi con loro, con la promessa che ne avrebbe ricevuti dei sicuri vantaggi. [4] Quando finalmente s'incontrarono insieme, i barbari proposero a quell'uomo di portare una lettera a Ravenna, offrendogli subito una certa somma di denaro e garantendogli che gli avrebbero dato ancora di più appena fosse tornato portando loro la risposta di Vitige. [5] Il soldato, allettato dalla ricompensa, accettò di compiere quel servizio e mantenne l'impegno: ricevette una lettera sigillata che portò immediatamente a Ravenna e, giunto al cospetto di Vitige, gliela consegnò. [6] La lettera diceva: «In quale condizione noi ci troviamo in questo momento, potrete facilmente capirlo quando v'informerete chi sia colui che ha portato questa lettera. [7] Infatti a nessun Goto è permesso di uscire fuori della cinta delle mura. E, come cibo, il meglio che riusciamo ad avere è l'erba che cresce presso le mura stesse; ma attualmente non possiamo più raccogliere nemmeno quella, se non sacrificando molti uomini nella lotta coi nemici per procurarcela. Quale sarà dunque la nostra fine, bisogna che tu e i Goti che sono in Ravenna lo prendiate bene in considerazione».
[8] Quando Vitige ebbe letto questo messaggio, rispose come segue: «Nessuno pensi, carissimi fra tutti gli uomini, che noi abbiamo cessato di preoccuparci per voi e che siamo scesi a tale grado di follia da trascurare completamente gli interessi dei Goti! [9] Da parte mia, proprio poco tempo fa sono stati condotti a termine con la massima cura tutti i preparativi per venire da voi, e Uraia è stato richiamato da Milano col suo esercito. [10] Ma la calata dei Franchi, che si sono inaspettatamente rovesciati su di noi, ha mandato all'aria tutti i nostri progetti, cosa di cui sinceramente non posso incolparmi. [11] I fatti che succedono indipendentemente dalle intenzioni umane conferiscono anche a coloro che, in tal caso, sembrano aver mancato al proprio dovere, la giustificazione per dichiararsi fuori di ogni colpa, perché il destino si addossa ogni responsabilità di ciò che accade. [12] Adesso, tuttavia, poiché sono a conoscenza che Teodiberto se n'è andato via, tra non molto tempo, se Dio vorrà, arriveremo da voi con tutto l'esercito goto. [13] Ma occorre che intanto voi sopportiate virilmente le sventure che vi hanno colpiti e vi pieghiate alla fatalità, memori del vostro valore, in considerazione del quale ho proprio scelto voi da mandare ad Osimo, e avendo riguardo della fiducia che ripongono in voi tutti i Goti, stimandovi il baluardo di Ravenna e della loro stessa vita».
[14] Scritta la lettera, Vitige la consegnò a quell'uomo, congedandolo dopo avergli fatto dono di molto denaro. Costui, giunto di nuovo ad Osimo, ritornò tra i suoi commilitoni, raccontando, come giustificazione, che gli era sopravvenuta una malattia o qualcosa del genere e che per tale motivo era rimasto tutto quel tempo ricoverato in un santuario non distante di li. Allora fu di nuovo comandato di sentinella, come il solito, e di nascosto da tutti consegnò ai nemici la lettera, che, quando venne letta pubblicamente, diede a tutti un grande incoraggiamento, sebbene fossero prostrati dalla fame. [15] Perciò i Goti non mostravano la minima intenzione di venire a trattative con Belisario, che pure faceva proposte vantaggiose. Più tardi, invece, vedendo che non giungeva nessuna notizia che un esercito avesse lasciato Ravenna per venire da loro, ed essendo ormai insopportabilmente travagliati, dalla mancanza del necessario, mandarono un'altra volta Burcenzio con una lettera, in cui comunicavano soltanto questo: che entro cinque giorni non sarebbero stati più in grado di combattere contro la fame. Burcenzio tornò di nuovo con un messaggio di Vitige, che li confortava con promesse analoghe alle prime.
NoteSettembre-ottobre 539 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_26.pdf
Traduzione[23] Da allora in poi Belisario non fece più nessun tentativo né di prendere la città [Osimo] d'assalto né di escogitare qualche altro stratagemma per interrompere il rifornimento dell'acqua o qualsiasi altra cosa; rimase soltanto con la speranza di poter piegare il nemico per mezzo della fame. [24] A questo scopo usò la maggior cura possibile nel mantenere rigidamente il blocco della città [Osimo]. Ma i Goti se ne stavano quieti, in grande difficoltà per la mancanza di viveri, sempre attendendo l'arrivo di un esercito da Ravenna. [25] Anche i Goti assediati in Fiesole pativano grandemente per la fame, e a un certo punto, non sentendosi più capaci di sopportare simili sacrifici, né avendo speranza di ricevere aiuti da Ravenna, decisero di arrendersi ai nemici. [26] A tal fine aprirono trattative con Cipriano e Giustino e, ricevuta assicurazione di aver salva la vita, consegnarono in resa se stessi e la città. Gli ufficiali di Cipriano li accolsero nelle file dell'esercito romano e, disposta a Fiesole una sufficiente guarnigione, partirono per Osimo, portandoli con sé. [27] Belisario mostrò spesso i loro comandanti ai barbari di Osimo, consigliandoli di desistere dalla loro stolta ostinazione e di abbandonare la speranza di un aiuto da Ravenna: non ci sarebbe stato, infatti, alcun intervento in loro favore, e dopo essere stati travagliati al massimo dalle sofferenze, avrebbero incontrato lo stesso destino che era toccato a quelli di Fiesole. [28] I Goti, allora, dopo aver molto discusso fra loro, vedendo che non potevano più lottare contro la fame, cominciarono a dar ascolto alle proposte di Belisario e si dissero pronti a consegnare la città, a patto che essi potessero andarsene indenni, con le proprie cose, e raggiungere Ravenna. [29] Belisario era molto indeciso sul da farsi in tale caso. Pensava non fosse conveniente permettere che una massa così considerevole di nemici, tutti dotati di grande esperienza militare, andasse a congiungersi con quelli di Ravenna, proprio quando egli desiderava non lasciarsi sfuggire l'occasione di muovere subito all'attacco di Ravenna stessa, contro Vitige, mentre la situazione era ancora incerta. (...) [32] Finalmente i Romani costretti dalla necessità del momento, e i Goti piegati dalla fame, vennero ad un accordo fra loro. In base ad esso i Romani si sarebbero divisa fra loro metà dei beni, e i Goti si sarebbero tenuta l'altra metà e sarebbero diventati sudditi dell'imperatore.
NoteCapitolazione di Fiesole: ottobre 539 d.C. Capitolazione di Osimo: novembre 539 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_27.pdf
Traduzione[1] Dopo l'occupazione di Osimo, Belisario si affrettò a portare l'assedio a Ravenna, conducendo là tutto l'esercito. Mandò subito a Ravenna anche Magno, con un numeroso reparto di soldati, ordinandogli di marciare sempre lungo la riva del fiume Po per vigilare che i Goti non si rifornissero più di provviste servendosi del fiume stesso; [2] intanto Vitalio, che era giunto dalla Dalmazia col suo esercito per congiungersi con lui, avrebbe tenuto sotto controllo l'altra sponda del fiume. Fu in quella occasione che capitò loro una grande fortuna, la quale dimostrò chiaramente come il destino stava determinando il corso degli eventi per ambedue le parti. [3] I Goti avevano già in precedenza raccolta in Liguria una grande quantità di imbarcazioni e le avevano calate nel Po, riempiendole di grano e di altri generi alimentari, coll'intenzione di farle navigare fino a Ravenna. [4] Ma in quei giorni l'acqua del fiume calò talmente, che era impossibile navigare, e così i Romani al loro arrivo s'impadronirono di tutte le imbarcazioni col loro carico. [5] Poco dopo il fiume tornò al livello normale e divenne di nuovo navigabile. A quanto abbiamo sentito dire, non risulta che un fatto simile fosse mai accaduto prima. [6] Ormai i barbari cominciavano a risentire della scarsità di viveri. Non avevano modo di rifornirsi tramite il Golfo Ionico, perché i nemici erano completamente padroni del mare, e adesso erano anche esclusi dalla possibilità di servirsi del fiume. [7] I capi dei Franchi, informati della situazione, siccome ambivano sempre ad impadronirsi dell'Italia, mandarono ambasciatori a Vitige, offrendo un'alleanza offensiva e difensiva a patto di spartirsi poi la penisola. [8] Udito ciò, Belisario mandò egli pure degli ambasciatori, tra cui Teodosio, l'amministratore della sua casa, perché parlassero a sfavore dei Germani. [9] Ma per primi giunsero da Vitige gli ambasciatori germanici e, ammessi alla sua presenza, così parlarono: «I capi dei Germani ci hanno qui mandati, perché sono sinceramente dolenti di sapere che voi siete ancora assediati da Belisario, e hanno vivo desiderio di venire immediatamente in vostro aiuto con un'alleanza. [10] Pensiamo che un esercito di non meno di cinquecentomila uomini atti alle armi abbia già valicato le Alpi, e siamo sicuri che al primo urto seppellirà sotto il lancio delle sue scuri l'intero esercito romano. [11] Quanto a voi, non dovete farvi l'opinione che veniamo per rendervi nostri schiavi, ma per correre i pericoli di una guerra, in conseguenza della nostra amicizia verso i Goti. [12] A parte ciò, se prenderete le armi insieme con noi, ai Romani non resterà alcuna speranza di poter venire a conflitto contemporaneamente con ambedue gli eserciti; così, automaticamente, senza alcuno sforzo, otterremo la vittoria della guerra. [13] Se, al contrario, voi Goti deciderete di schierarvi coi Romani, in questo caso non potrete certo contrapporvi alla moltitudine dei Franchi (il confronto non avverrebbe infatti a parità di forze), e non vi rimarrà altro che essere sconfitti con loro, i più odiosi di tutti i nemici. [14] Ma gettarsi in un disastro facilmente prevedibile, quando esiste la possibilità di evitarne il pericolo, sarebbe una vera follia. Sempre, senza eccezioni, il popolo romano si è dimostrato sleale con tutti i barbari, perché è per natura un popolo guerrafondaio. [15] Saremo invece noi, se siete d'accordo, a governare su tutta l'Italia, e amministreremo il paese come ci sembrerà meglio. Quindi, ora, a te e ai Goti tocca scegliere ciò che vi sembra più vantaggioso per voi».
Cosi parlarono i Franchi. [16] Subito dopo giunsero anche gli inviati di Belisario e dissero quanto segue: «Che la massa dei Germani non possa recare alcun danno all'esercito del nostro imperatore — perciò hanno cercato d'intimorirvi — è forse un fatto su cui si debba tenere un lungo discorso con voi? [17] Con voi, che certamente per lunga esperienza siete riusciti a capire quali siano i fattori determinanti di una guerra, e sapete che il valore di chi combatte non si lascia minimamente piegare da una massa di persone; e tralasciamo di dire che l'imperatore avrebbe benissimo la possibilità di schierare una moltitudine di soldati superiore a quella dei nemici. Quanto poi alla lealtà che costoro dichiarano di serbare verso tutti i barbari, è ben dimostrata da ciò che essi hanno fatto al popolo dei Turingi e a quello dei Borgognoni [Burgundi], e poi a voi stessi, che eravate loro alleati. [18] Noi avremmo sinceramente piacere di poter chiedere ai Franchi in nome di quale Dio intendono prestar giuramento nel darvi la garanzia della loro lealtà. [19] Perché voi avete ben sperimentato in che modo abbiano mantenuto il giuramento che già vi avevano fatto, essi che, dopo aver ricevuto da voi una grande quantità di denaro e l'intero territorio delle Gallie in cambio della loro alleanza, non si sono minimamente preoccupati di portarvi aiuto nel pericolo, ma anzi hanno impudentemente preso le armi contro voi stessi, se è lecito far menzione di ciò che avete subito presso il Po. [20] Ma che bisogno c'è di dimostrare la slealtà dei Franchi, ricordando cose passate? Nulla è più scellerato della recente ambasceria che hanno fatto presso di voi. [21] Infatti, come se avessero dimenticato i patti stipulati con voi e i giuramenti di fedeltà ai patti stessi, adesso reclamano il diritto di spartire con voi anche ciò che è vostro. [22] E una volta che ottenessero questo da voi, cercate di capire dove finirebbe la loro insaziabile fame di ricchezza».
[23] Questo dissero, quando fu il loro turno, gli ambasciatori di Belisario. Vitige, dopo essersi più volte consultato coi capi dei Goti, scelse di venire a un accordo con l'imperatore e congedò gli inviati dei Germani senza concludere nulla con loro. Da quel momento Goti e Romani si misero a condurre negoziazioni tra loro. Ma non per questo Belisario cessò di vigilare a che i barbari non si procurassero provvigioni. [24] A tale scopo comandò a Vitalio di andare nel Veneto a occupare la maggior parte possibile delle terre di quella regione, mentre egli stesso, con Ildiger, che mandò in avanti, continuava a tener sotto vigilanza ambedue le sponde del Po, in modo che i barbari venissero più rapidamente colpiti dalla mancanza del necessario e accettassero la tregua alle condizioni che egli avrebbe voluto. [25] Avendo poi saputo che in un magazzino pubblico di Ravenna era ancora giacente una buona riserva di grano, corruppe col denaro un abitante della città perché appiccasse il fuoco di nascosto quel magazzino, con tutto il grano. [26] Si dice però anche che fu in realtà per iniziativa di Matasunta, moglie di Vitige, se quel deposito venne distrutto. Ad ogni modo, quando il grano improvvisamente prese fuoco, solo alcuni sospettarono che la cosa fosse avvenuta in seguito a sabotaggio, mentre gli altri pensarono che l'edificio fosse stato colpito dal fulmine. [27] Ma, qualsiasi delle due ipotesi seguissero, Vitige e i Goti caddero in un ancor più grave stato di sconforto, non avendo ormai più nessuna fiducia neppure nei propri connazionali, e andarono convincendosi che Dio stesso era in guerra con loro. Questa era la situazione in quel momento.
[28] Sulle Alpi che separano i Galli dai Liguri, chiamate Alpi Cozie dai Romani, c'erano diversi centri fortificati, [29] in cui da parecchio tempo risiedevano con le mogli e i figli molti tra i più valenti dei Goti, per tenerli presidiati. Belisario venne a sapere che essi desideravano sottomettersi a lui, e allora mandò uno dei suoi ufficiali, di nome Tommaso, con un piccolo seguito e con istruzioni di accettarne la resa dando loro ogni garanzia. [30] Quando i nostri giunsero sulle Alpi, Sisigis, che aveva il comando di tutte le guarnigioni della zona, li ricevette in una di quelle fortezze e non solo accettò di sottomettersi egli stesso, ma indusse anche tutti gli altri a fare altrettanto. [31] Proprio in quei giorni Uraia aveva rastrellato quattromila uomini, parte tra i Liguri e parte tra i soldati stanziati in quelle fortezze, volendo marciare subito in aiuto di Ravenna. [32] Ma quando costoro appresero ciò che Sisigis aveva fatto, temendo per il destino dei loro famigliari, chiesero di andare prima sul luogo. [33] Perciò Uraia sali sulle Alpi Cozie con tutto l'esercito e strinse d'assedio Sisigis e gli uomini di Tommaso. Informati di questo, Giovanni, il nipote di Vitaliano, e Martino, che fortunatamente si trovava ancora nei pressi del fiume Po, accorsero subito in aiuto con tutto il loro reparto e, piombati all'improvviso su alcune delle fortezze alpine, le conquistarono; [34] facendo prigionieri tutti coloro che si trovavano dentro, tra i quali per caso capitò che vi fossero molti dei figli e delle mogli degli uomini arruolati da Uraia. Infatti la maggior parte di quegli uomini provenivano da quelle fortezze. Quando appresero che erano state conquistate le loro abitazioni, senz'altro abbandonarono l'esercito dei Goti, decisi a congiungersi con le truppe di Giovanni; [35] perciò Uraia non poté più né condurre a termine la sua azione sul posto, né accorrere in aiuto dei Goti di Ravenna, che erano in pericolo, ma dovette ritornarsene in Liguria, senza nulla di fatto, con pochi uomini al seguito, e rimanersene inoperoso. Così Belisario poté continuare tranquillamente a tenere chiusi in Ravenna Vitige e i capi dei Goti.
NoteAssedio di Ravenna: novembre 539-maggio 540 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_28.pdf
Traduzione[1] Finalmente giunsero i plenipotenziari mandati dall'imperatore, che erano Domnico e Massimino, ambedue membri del senato, per stipulare la pace alle seguenti condizioni: [2] Vitige avrebbe ricevuto metà del tesoro regio e il diritto di governare il territorio a nord del fiume Po; l'altra metà dei beni sarebbe però spettata all'imperatore, il quale avrebbe potuto rendere suoi sudditi e tributari tutti gli abitanti a sud del fiume Po. [3] I plenipotenziari, mostrata a Belisario la lettera dell'imperatore, proseguirono per Ravenna. I Goti e Vitige, quando appresero lo scopo della loro visita, accettarono volentieri di stipulare il contratto a quelle condizioni. [4] Ma Belisario, quando lo seppe, montò su tutte le furie, perché considerava una grave sciagura che, mentre gli sarebbe stato possibile farlo senza troppo sforzo, non gli si lasciasse concludere la guerra con una vittoria completa e condurre Vitige prigioniero a Bisanzio. [5] Perciò, quando i plenipotenziari tornarono da Ravenna, rifiutò categoricamente di ratificare il trattato con la propria firma. [6] Quando i Goti ne vennero a conoscenza, cominciarono a dubitare che i Romani avessero offerto loro la pace con qualche subdola intenzione; divennero perciò molto sospettosi nei loro riguardi, tanto da dichiarare apertamente che senza la firma e il giuramento di Belisario non avrebbe mai accettato nessun patto con i Romani. [7] Alcuni degli ufficiali superiori, allora, criticarono aspramente Belisario, accusandolo di mettere in pericolo gli interessi dell'imperatore, col fatto di non volere a nessun costo porre termine alla guerra; egli, saputolo, li riunì tutti, presenti anche Domnico e Massimino, e parlò in questi termini: [8] «Io so benissimo che l'esito di una guerra non è mai assolutamente sicuro, e credo che ciascuno di voi sia d'accordo con me nel riconoscere questo. [9] Troppi uomini sono stati ingannati dalla speranza di ottenere una vittoria che ormai sembrava certa, mentre altri, che parevano del tutto perduti, hanno poi avuto la fortuna, contro ogni aspettativa, di trionfare sui nemici. [10] Perciò io dico che coloro ai quali spetta decidere a proposito di un trattato di pace, non devono soltanto avere davanti agli occhi l'ottimistica prospettiva di un successo, ma tener presente che vi potrebbe anche essere l'esito opposto, e in base a questa alternativa prendere le proprie decisioni. [11] In considerazione di ciò, mi è sembrato opportuno convocare voi, colleghi ufficiali, e questi due inviati dell'imperatore, per poter insieme discutere, in piena libertà, che cosa pensiamo sia veramente vantaggioso per l'imperatore, in modo che poi, a cose fatte, non possiate più muovere a me alcun rimprovero. [12] Perché sarebbe davvero un'infamia, dopo aver taciuto quando era ancora possibile discutere per scegliere la soluzione migliore, recriminare poi sulle conclusioni determinate dal caso e sollevare delle accuse contro altri. [13] Ora, che cosa abbia deciso l'imperatore circa la definizione della guerra e quale sia il parere di Vitige, lo sapete bene. [14] Se pertanto anche voi siete convinti che questo sia conveniente, ciascuno di voi si faccia avanti e lo dica. Se invece pensate che sareste in grado di conquistare per i Romani l'intera Italia e di ottenere una vittoria totale sui nemici, nulla v'impedirà di dirlo con franchezza».
[15] Quando Belisario ebbe finito di parlare, tutti dichiararono esplicitamente che secondo la loro opinione ciò che aveva deciso l'imperatore era da approvare senza riserve, perché essi non erano più nella possibilità di continuare la guerra contro i nemici. [16] Belisario si disse soddisfatto del parere espresso dagli ufficiali, ma chiese che lo mettessero per iscritto, perché non accadesse poi che lo negassero. Essi allora stesero un documento in cui dichiararono che non si sentivano più di superare i nemici in guerra.
[17] Questa fu la discussione che ebbe luogo nel campo romano. Intanto i Goti, sempre più travagliati dalla fame e ormai incapaci di sopportare più a lungo tante privazioni, erano divenuti ostili al governo di Vitige, che aveva avuto così cattiva riuscita; d'altro canto erano riluttanti a sottomettersi all'imperatore, per timore soprattutto di essere ridotti suoi schiavi e costretti a lasciare l'Italia per andarsi a stabilire a Bisanzio. [18] Perciò, dopo lunghe consultazioni tra di loro, tutti coloro che erano i più nobili tra i Goti vennero nella determinazione di proclamare Belisario imperatore d'Occidente. Mandarono quindi segretamente a invitarlo ad accettare la corona: a tale condizione, essi assicuravano, sarebbero stati lieti di diventare suoi sudditi. [19] Belisario non avrebbe mai acconsentito ad assumere tale titolo senza il volere dell'imperatore. [20] Egli provava un'avversione illimitata per la figura dell'usurpatore, e aveva già avuto occasione in passato di promettere all'imperatore con solenni giuramenti che giammai, finché fosse vissuto, avrebbe tentato colpi di stato contro di lui. Tuttavia, per volgere la situazione presente nel modo migliore a proprio vantaggio, diede a vedere di accettare volentieri la proposta dei barbari. [21] Vitige, quando si accorse di quelle manovre, ne fu atterrito, ma dichiarò che i Goti avevano preso un'ottima decisione ed egli stesso, segretamente, suggerì a Belisario di accettare il titolo, poiché nessuno gli avrebbe creato difficoltà. [22] Allora Belisario radunò di nuovo gli inviati dell'imperatore e tutti gli ufficiali superiori e domandò loro se non pensavano che sarebbe stata una bellissima mossa rendere schiavi tutti i Goti, compreso Vitige, e impadronirsi dei loro beni, recuperando anche l'Italia per intero ai Romani. [23] Essi risposero che quello sarebbe stato per i Romani un sommo e straordinario colpo di fortuna, e lo invitarono a tentarlo subito, in qualunque modo gli fosse possibile. [24] Perciò Belisario mandò alcuni dei suoi intimi da Vitige e dai notabili goti a chiedere di mettere pure in atto ciò che avevano promesso. [25] Del resto, la fame non permetteva loro di rimandare la cosa ad un altro momento, anzi li urgeva a fare in fretta. [26] Quindi essi mandarono immediatamente al campo romano degli incaricati a fare, pubblicamente, qualche proposta generica, ma in segreto a richiedere a Belisario garanzie precise che non avrebbe perseguitato nessuno di loro e sarebbe diventato re degli Italiani e dei Goti; ricevutane conferma, essi lo avrebbero accompagnato con tutto l'esercito romano entro Ravenna. [27] Belisario giurò quanto gli inviati gli richiesero, ma riguardo all'assunzione del titolo di re dichiarò che avrebbe poi giurato alla presenza di Vitige e dei capi goti. [28] Gli inviati, non dubitando minimamente che egli potesse rifiutare il regno, anzi convinti che lo desiderasse ardentemente, lo pregarono di andare subito a Ravenna con loro. [29] Allora Belisario ordinò a Bessa, a Giovanni, a Narsete e ad Arazio, che più sospettava gli fossero ostili, di muovere chi in un posto chi in un altro, ciascuno col proprio seguito di ufficiali, a far rifornimento di provviste per i loro soldati, col pretesto che egli non aveva più la possibilità, in quella zona, di assicurare il necessario per tutto l'esercito. [30] Essi ubbidirono subito, unitamente ad Atanasio, il prefetto del pretorio, che era appena arrivato da Bisanzio. Così Belisario, con tutto il resto dell'esercito, entrò in Ravenna assieme agli inviati goti. [31] Intanto, fatta subito caricare una flotta di navi con grano e altre cibarie, aveva già dato ordine che andasse a ormeggiare nel porto di Classe che è un sobborgo di Ravenna così chiamato dai Romani, dove si trova il porto della città.
[32] Quel giorno, quando ho visto l'esercito romano entrare in Ravenna, ho fatto il seguente ragionamento: anche le più grandi imprese degli uomini dipendono ben poco dalla loro abilità o da altre doti, ma c'è sempre una volontà divina che guida le loro intenzioni e li indirizza in modo che non vi siano ostacoli al compimento delle imprese stesse. [33] Ecco infatti che i Goti, sebbene molto superiori di numero e di mezzi, e che mai, da quando erano entrati in Ravenna, avevano dovuto sostenere alcuna battaglia né erano stati colpiti da nessun rovescio, ora stavano per essere resi schiavi da uomini meno forti di loro, né consideravano la propria schiavitù un'umiliazione. [34] Ma le donne, le quali avevano udito dire dai loro mariti che i nemici erano tutti uomini di statura gigantesca e così numerosi da non potersi contare, quando li videro com'erano in realtà, stando presso le porte, sputarono tutte in faccia ai loro mariti e, indicando con la mano i vincitori, li disprezzarono per la loro vigliaccheria.
[35] Belisario fece mettere Vitige sotto sorveglianza, ma senza mancargli di rispetto, e lasciò che i barbari, i quali avevano abitato a sud del fiume Po, se ne tornassero nelle loro terre e continuassero a coltivarle senza molestie. [36] Così facendo, pensò, non avrebbe più avuto nemici da quella parte, perché i Goti di tali località non avrebbero più potuto unirsi insieme, in quanto egli aveva già precedentemente provveduto a stanziare in tutte le città molti presìdi di soldati romani. Questi Goti se ne tornarono ben felici alle loro case. [37] Così i Romani erano ormai in una posizione sicura: nella città di Ravenna, in fondo, i Goti non erano molto numerosi. Dopo di ciò, Belisario prese possesso dei tesori nel Palazzo, coll'intenzione di mandarli all'imperatore. [38] Ma delle proprietà private dei Goti non toccò nulla egli stesso, né permise a nessuno d'impadronirsene, ma lasciò che ognuno conservasse i propri beni, secondo i termini dell'accordo di pace.
[39] Quando i barbari che erano di guarnigione nelle altre città più importanti seppero che Ravenna e Vitige erano caduti nelle mani dei Romani, mandarono ambasciatori a Belisario, a chiedere di potersi anch'essi sottomettere, con la consegna delle località che presidiavano. [40] Egli diede a tutti pronte garanzie, e così ottenne Treviso e ogni altro luogo fortificato nel Veneto. In Emilia, invece, era rimasta ai Goti soltanto Cesena, che egli occupò subito dopo la sua entrata in Ravenna. [41] Tutti i Goti che avevano sotto il loro comando delle città venete, appena ricevute le sue assicurazioni, si recarono da Belisario e rimasero con lui. Non però Ildibad, un personaggio molto in vista, che comandava la piazzaforte di Verona. Sebbene egli pure avesse mandato ambasciatori a Belisario come gli altri, e tanto più perché i suoi figli, che si trovavano in Ravenna, erano caduti nelle mani di Belisario stesso, non volle poi andare a Ravenna e sottomettersi a lui. Gli accadde infatti un'avventura che più avanti riferirò.
NoteAssedio di Ravenna: novembre 539-maggio 540 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/Procopio6,29,1-41.pdf
Traduzione[1] Certi ufficiali dell'esercito romano, mossi da malanimo nei riguardi di Belisario, lo calunniarono presso l'imperatore, insinuando che egli mirava, senza averne alcun diritto, a formarsi un regno indipendente. [2] L'imperatore, non tanto perché convinto da quelle calunnie, quanto perché già aveva in mente di riprendere la guerra contro i Medi, richiamò subito Belisario, affinché guidasse la spedizione contro la Persia, e incaricò Bessa e Giovanni di occuparsi della campagna d'Italia, ordinando anche a Costanziano di passare dalla Dalmazia a Ravenna. [3] Quando i Goti stanziati a nord del fiume Po e di Ravenna udirono che l'imperatore aveva richiamato Belisario, da principio non diedero peso alla notizia, convinti che Belisario avrebbe attribuito minore importanza all'obbligo di fedeltà verso l'imperatore che al proprio regno in Italia. [4] Ma poi, venuti a sapere che egli si stava frettolosamente preparando per la partenza, tutti d'accordo, i più autorevoli fra di loro che erano rimasti sul posto, si recarono a Ticino [Pavia], da Uraia, il nipote di Vitige, e dopo essersi vivamente lamentati con lui per quanto stava succedendo, gli dissero: [5] «Nessun altro, tra il popolo dei Goti, si è dimostrato più di te responsabile di tutti i presenti mali. E dire che noi già da tempo avevamo intenzione di togliere dal trono tuo zio, visto che ci governava con così scarsa capacità e con così pessimi risultati, come già avevamo detronizzato Teodato, il nipote di Teoderico; o almeno, in considerazione dell'abilità che tu dimostravi di possedere, avevamo deciso di lasciare a Vitige, soltanto il titolo di re, e di affidare a te, di fatto, il governo dei Goti. [6] Ma quella che allora ci sembrava una saggia decisione, ci appare adesso una follia, nonché la causa delle nostre sciagure. [7] Perché, come tu pure sai, caro Uraia, a troppi Goti, e anche i migliori, è toccato di morire in guerra; e i superstiti, se ancora è rimasto tra loro qualcuno di un certo valore, Belisario se li porterà via insieme a Vitige e a tutte le nostre sostanze. [8] E nessuno può mettere in dubbio che lo stesso destino toccherà tra non molto anche a noi, ridotti come siamo a pochi e miserevoli. [9] Siccome dunque non ci resta che questa terribile prospettiva, è meglio per noi morire con gloria, piuttosto che dover vedere i nostri figli e le nostre donne trascinati via dai nemici, in capo al mondo. [10] E certamente compiremo belle gesta di valore, se avremo te come guida nella nostra impresa».
Tali cose dissero i Goti, [11] e Uraia rispose come segue: «Con ciò che voi dite, e cioè che bisogna, in questa terribile situazione, affrontare qualunque rischio piuttosto che accettare la schiavitù, anch'io sono d'accordo. [12] Ma quanto ad assumere personalmente il regno dei Goti, mi sembra una cosa assolutamente fuori luogo. Anzitutto perché, essendo io nipote di Vitige, un uomo che è stato così sfortunato, i nemici mi considererebbero un essere del tutto spregevole, dato che comunemente si pensa che, tra parenti, la medesima sorte dev'essere condivisa dagli uni come'dagli altri; [13] inoltre si direbbe certamente che non mi sono comportato da persona onesta, usurpando il trono a mio zio, e di conseguenza è evidente che avrei contro di me anche la maggior parte di voi. [14] Io dico invece che dovrebbe esser scelto come re dei Goti, per questa impresa disperata, Ildibad, un uomo che ha notevolissimi pregi ed è straordinariamente coraggioso. E non è nemmeno da escludere che anche Teudi, il capo dei Visigoti, essendo suo zio, lo voglia aiutare nella guerra, in nome della loro parentela. Perciò potremo affrontare la guerra contro i nemici con ben maggiori speranze».
[16] Quando Uraia ebbe finito di parlare, a tutti i Goti parve che avesse dato un consiglio veramente utile; perciò mandarono subito a chiamare Ildibad, che si trovava a Verona, ed egli andò da loro. [17] Gli misero sulle spalle il manto di porpora e lo acclamarono re dei Goti, invitandolo a risollevare le loro sorti. Così Ildibad prese possesso del regno. [18] Subito dopo egli chiamò a raccolta tutti i capi dei Goti e tenne loro il seguente discorso: «Io so bene che tutti voi, miei compagni d'armi, avete una lunga esperienza di guerra, e perciò certamente non penserete che dobbiamo precipitarci senz'altro contro i nemici. L'esperienza c'insegna ad essere cauti e ci ammonisce di non agire sconsideratamente. [19] Bisogna quindi che, richiamandovi alla mente tutte le vicende passate finora, discutiate con calma ciò che si deve fare adesso. [20] Perché molte volte, se capita di dimenticare i fatti che sono ormai trascorsi, si è indotti a folli propositi, proprio nel momento meno opportuno, e si può cadere in guai molto più grandi. [21] Ora, quando Vitige ha consegnato se stesso nelle mani dei nemici, ciò non è avvenuto contro la vostra volontà, e nessuno di voi ha cercato di dissuaderlo; ma in quel momento, protestando contro le avversità della sorte, avete ritenuto molto più conveniente diventare sudditi di Belisario per starvene tranquillamente in pace, invece di rischiare la vita in una guerra che non aveva mai fine. [22] Adesso, avendo udito dire che Belisario è sul punto di partire per Bisanzio, avete in mente di tentare un'altra volta qualcosa di nuovo. Ma bisogna che ciascuno di voi mediti bene su questo: non sempre le cose vanno come gli uomini vorrebbero; assai spesso, anzi, il risultato delle nostre azioni è esattamente l'opposto di quello che ci aspettavamo. [23] Il caso, o un mutamento della situazione, molte volte possono modificare i fatti in maniera inattesa. Non è improbabile che ora sia accaduto proprio questo a Belisario. [24] E' quindi meglio, prima di tutto, informarci al riguardo e cercar di ricondurre quell'uomo ai suoi primitivi propositi. Soltanto dopo potrete passare al secondo momento dell'azione».
[25] I Goti furono del parere che Ildibad con questo discorso avesse parlato saggiamente, e mandarono subito ambasciatori a Ravenna. Costoro, presentatisi a Belisario, gli ricordarono il patto stipulato con loro e lo rimproverarono di venir meno agli impegni presi, accusandolo di volersi egli stesso rendere schiavo di propria volontà e domandandogli se non si vergognava di scegliere di essere servo dell'imperatore anziché re. Con questi e altri discorsi del genere essi cercarono d'indurlo ad accettare la corona, [26] assicurandogli che anche Ildibad sarebbe andato spontaneamente a gettare ai suoi piedi il proprio manto di porpora e a inchinarsi davanti a lui quale re dei Goti e degli Italiani. [27] Tutto questo dissero gli ambasciatori, convinti che Belisario non avrebbe minimamente esitato ad assumere subito il titolo di re. [28] Ma egli, contro ogni loro aspettativa, rispose risolutamente che finché fosse stato vivo l'imperatore Giustiniano, Belisario non avrebbe mai usurpato il titolo di re. [29] Udita questa dichiarazione, essi andarono immediatamente a riferire tutto il colloquio ad Ildibad. [30] Belisario intanto partì per Bisanzio. Era la fine dell'inverno, e scadeva anche il quinto anno di questa guerra che Procopio sta raccontando.
NoteRichiamo di Belisario a Costantinopoli: primavera 540 d.C. Campagne di Belisario contro i Persiani: 541-542 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VI_30.pdf
Traduzione[25] Quando Ildibad seppe che Belisario aveva lasciato Ravenna ed era già in viaggio, chiamò a raccolta contro di lui tutti i barbari e quelli tra i soldati romani che erano disposti ad ammutinarsi, [26] volendo rafforzare la propria potenza, perché era deciso a riconquistare per il popolo dei Goti la sovranità in Italia. [27] Da principio, però, lo seguirono non più di mille uomini, e riuscirono ad avere come base una sola città, Ticino [Pavia]; ma poi a poco a poco si unirono a lui anche tutte le popolazioni della Liguria e del Veneto. [28] Era infatti accaduto questo: a Bisanzio, custode dei tesori dello Stato, carica che i Romani con vocabolo greco chiamano logoteta, era un certo Alessandro, [29] il quale aveva sempre messo sotto accusa i militari per l'eccessivo dispendio di denaro pubblico. Per questo rigoroso controllo dei loro sprechi, dall'oscurità era tosto emerso alla notorietà. Dalla povertà ad una straordinaria ricchezza, e soprattutto era riuscito a far risparmiare grandi somme di denaro all'imperatore. Ma per colpa sua, più che di ogni altro, i soldati erano sempre meno numerosi, perché mal pagati, e meno entusiasti ad affrontare i disagi della guerra. [30] I Bizantini lo avevano soprannominato “Forbice”, perché era molto abile a tagliare tutt'intorno il bordo di una moneta aurea, rendendola più piccola a suo piacere, pur conservandole l'originaria forma circolare. [31] E, infatti, lo strumento con cui si può fare tale lavoro è appunto chiamato “forbice”. Questo Alessandro, dunque, fu mandato in Italia dall'imperatore, quando venne richiamato Belisario, [32] e appena giunto a Ravenna dispose un severo e insensato controllo finanziario. Infatti sottopose tutti gli Italiani, i quali non avevano mai beneficiato del denaro imperiale né avevano mai approfittato del tesoro pubblico, ad un accertamento fiscale, accusandoli di aver depredato Teoderico e gli altri re goti, e costringendoli a versare allo Stato tutto ciò che – egli asseriva – avevano guadagnato defraudando i Goti. [33] Inoltre egli deluse profondamente i soldati per la grettezza con cui misurò le ricompense dovute loro a causa delle ferite e dei danni subiti.
NoteEstate-autunno 540 d.C. Regno di Ildibad: giugno 540-giugno 541 d.C.
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Traduzione[7] C'era un certo Totila, nipote di Ildibad, un personaggio dotato di grande intelligenza e soprattutto molto attivo, che godeva parecchia stima tra i Goti. Questo Totila si trovava allora al comando dei Goti stanziati a Treviso, [8] e appena venne a sapere che Ildibad era stato tolto di vita, come ho già detto, mandò subito a chiedere a Costanziano, che era a Ravenna, di dargli garanzie di salvezza in cambio della resa sua e dei Goti di Treviso ai Romani. (...) [12] Totila, ai messaggeri che si recarono da lui rivelò apertamente il patto che aveva proposto ai Romani, ma disse che, se i Goti avessero ucciso Erarico prima del giorno convenuto, egli si sarebbe messo con loro e avrebbe fatto ciò che volevano. [13] Quando i barbari udirono questa risposta, subito fecero i piani per l'uccisione di Erarico. (...) [18] Gli ambasciatori [di Erarico] andarono pertanto a Bisanzio e trattarono in questo senso [per cedere tutta l'Italia]. Ma nel frattempo i Goti uccisero a tradimento Erarico, e dopo la sua morte Totila assunse il regno in base agli accordi prima convenuti.
NoteGiugno 541 d.C.: Totila (regno: 541-552) poi accettò la proposta di divenire re degli Ostrogoti e in autunno prese il potere al posto di Erarich (regno: giugno-novembre 541 d.C.). Regno di Ildibad: giugno 540-giugno 541 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_2.pdf
Traduzione[1] Quando Giustiniano apprese ciò che era successo ad Erarich, e l'elezione da parte dei Goti di Totila a loro re, non mancò di redarguire e criticare aspramente i generali dell'esercito stanziato in Italia. [2] Allora, ripristinate delle guarnigioni in ciascuna città, Giovanni nipote di Vitaliano, e Bessa e Vitalio e tutti gli altri si diedero convegno a Ravenna dove, come ho già detto prima erano acquartierati Costanziano e Alessandro. [3] Quando si furono tutti riuniti, decisero che la cosa migliore da farsi era, prima di tutto, di marciare contro Verona, che si trova nel Veneto, e dopo averla assoggettata, con i Goti che erano in essa, muovere contro Totila, a Ticino [Pavia].
[4] Fu così raccolto un esercito di dodicimila uomini, con undici ufficiali superiori, e a capo di tutti quanti Costanziano e Alessandro; e insieme si misero tosto in cammino verso la città di Verona. [5] Giunti nelle vicinanze, a circa sessanta stadi [ca. 11 km.], si accamparono nella pianura. C'è infatti là intorno, da ogni parte, una vasta distesa pianeggiante, ottima per le cariche di cavalleria, che arriva fino alla città di Mantova, distante un giorno di marcia [ca. 40 km.] da Verona. Tra i Veneti c'era un personaggio assai ragguardevole, di nome Marciano, [6] il quale viveva in una piccola città non molto distante da Verona. Costui, essendo molto fedele all'imperatore, si propose di trovare il modo di far cadere la piazzaforte nelle mani dell'esercito romano. [7] Siccome fra le sentinelle c'era un tale ch'egli conosceva fin dall'infanzia, mandò da lui alcuni amici fidati a convincerlo, per una grossa somma di denaro, a far entrare in città l'esercito dell'imperatore. [8] Quando la sentinella alle porte ebbe accettato, Marciano mandò subito dai comandanti dell'esercito romano coloro che avevano trattato con lui, perché riferissero l'accordo stipulato, e con loro, nottetempo, effettuassero l'ingresso nella città. [9] Agli ufficiali parve opportuno che andasse avanti solo uno di loro, con pochi uomini: se effettivamente la sentinella avesse aperto le porte, essi dovevano subito occuparle e stare pronti ad accogliere in città tutto l'esercito, senza pericolo di sorprese. [10] Ma nessuno di loro voleva sobbarcarsi quel compito rischioso, finché unicamente Artabaze, un uomo di stirpe armena, di eccezionale valore in guerra, si offri, non di malavoglia, a quell'impresa. [11] Questo guerriero comandava un reparto di Persiani che Belisario aveva mandato a Bisanzio dalla Persia poco tempo prima, assieme a Blescame, dopo la conquista della fortezza di Sisauranon. [12] Per quella spedizione, egli scelse cento uomini da tutto l'esercito e a tarda ora della notte si portò presso le mura della città. [13] Quando la sentinella, come aveva promesso di fare, apri le porte, alcuni di essi si piazzarono subito là, e mandarono a chiamare il resto dell'esercito, mentre altri salivano sulle mura e uccidevano i soldati di guardia, aggredendoli di sorpresa. [14] Allora tutti i Goti, accortisi del tradimento, si diedero alla fuga, uscendo da un'altra porta. Vicino alle mura sorge un colle piuttosto elevato, da cui è possibile osservare quanto avviene in Verona e persino distinguere a una a una le persone che vi si trovano, e anche vedere un buon tratto della pianura. [15] Là si ritirarono i Goti fuggitivi, e rimasero in attesa tutta la notte. Intanto l'esercito romano, giunto a quaranta stadi [ca. 700 m.] dalla città, non avanzò più, perché tra i generali si era accesa una discussione a proposito del bottino che avrebbero fatto nella città. [16] Essi continuarono a litigare sul bottino finché venne giorno, e allora i Goti, dopo aver attentamente calcolato dall'alto del colle quanti erano i nemici già dentro le mura e a quale distanza da Verona si trovava ancora il resto dell'esercito, si precipitarono di corsa in città, entrando dalla stessa porta da cui solo poco prima erano usciti, perché i Romani che avevano occupata la città non erano ancora riusciti a controllarla. [17] I Romani allora, tutti d'accordo, si attestarono sugli spalti della cinta muraria e di là, quando i barbari in gran massa sferrarono l'attacco contro di loro, tutti quanti, e soprattutto Artabaze, diedero prova di grande valore, resistendo validamente al loro assalto. [18] In quel frattempo gli ufficiali dell'esercito romano avevano finalmente raggiunto un accordo sulla spartizione del bottino di Verona e avevano deciso di riprendere la marcia verso la città. [19] Ma qui giunti, trovarono le porte chiuse e i nemici che li stavano aspettando, ben saldi; allora fecero tosto dietrofront, sebbene vedessero i propri commilitoni che stavano combattendo all'interno delle mura e che li pregavano di non abbandonarli, ma di fermarsi lì e aspettare che essi fuggissero con loro, per mettersi in salvo. [20] Allora Artabaze e i suoi uomini, soverchiati dal numero dei nemici e perduta la speranza di un aiuto da parte dei compagni, si gettarono tutti quanti giù dalle mura. [21] Quelli che ebbero la fortuna di cadere su terreno morbido, riuscirono a raggiungere incolumi l'esercito romano, e tra questi ci fu anche Artabaze; ma quelli che caddero su terreno accidentato, vennero tutti trucidati sul posto.
[22] Quando Artabaze raggiunse l'esercito, si sfogò con tutti [gli altri generali], coprendoli d'insulti e d'improperi. Poi si unì con loro, e insieme attraversarono l'Eridano e giunsero presso la città di Faenza, che si trova nella regione dell'Emilia e dista centoventi stadi [ca. 22 km.] da Ravenna.
NoteBattaglia di Verona: primavera 542 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_3.pdf
Traduzione[1] Totila, saputo ciò che era successo a Verona, fece venire da quella città molti dei Goti, e quando furono giunti, con un intero esercito, che ammontava a cinquemila uomini, mosse contro i nemici. [2] I generali dell'esercito romano, a quella notizia, si riunirono per decidere sul da farsi. Artabaze si levò a dire: «Nessuno di voi ufficiali pensi, in questo momento, di sottovalutare i nemici perché sono inferiori a noi di numero, né s'illuda di poter muovere contro di loro a cuor leggero per il fatto che si tratta di combattere con uomini che sono già stati fatti una volta prigionieri da Belisario. Molte volte si sbaglia perché ci si lascia ingannare da una falsa valutazione dei fatti e da una ingiustificata disistima delle forze nemiche, e così si vedono crollare tutte le possibilità. Invece, oltre a tutto il resto, dobbiamo tener conto che è proprio il fallimento dei loro precedenti tentativi che ora spinge questi uomini a cercare l'occasione favorevole. Quando il destino si accanisce contro qualcuno, facendo andare a vuoto i suoi migliori progetti, lo fa diventare ancora più disperatamente audace. E non vi sto ora dicendo questo solo in base a supposizioni, ma per aver fatto di recente esperienza dell'audacia di questi uomini, combattendo con essi. E nessuno pensi che io mi meravigli della forza dei nemici per essere stato da loro sconfitto, avendo con me solo un piccolo reparto di soldati. L'accanimento di questi uomini appare evidente a chiunque si scontri con loro, siano essi superiori di numero o inferiori. [7] La mia proposta è dunque questa: è meglio per noi aspettare quando i barbari cercheranno di attraversare il fiume, e appena sarà passata una metà, venire a battaglia con quella, senza attendere che siano di nuovo tutti raccolti insieme. [8] Né si deve credere che sia in questo modo una vittoria ingloriosa: solo il risultato dei fatti può permettere di definire gloriosa o ingloriosa un'azione, e la gente usa inneggiare sempre a chi vince, senza chiedersi come è stata ottenuta la vittoria».
[9] Così parlò Artabaze. Ma i generali continuarono a discutere varie altre proposte, senza riuscire a mettersi d'accordo sul da farsi, e così rimasero fermi, lasciandosi sfuggire l'occasione favorevole. [10] Ormai l'esercito dei Goti era giunto assai vicino; quando furono sul punto di attraversare il fiume, Totila li radunò tutti e li esortò con questo discorso: «Generalmente, o miei connazionali, in qualunque battaglia i due schieramenti avversari sono invogliati a combattere se c'è la prospettiva di un confronto che sia più o meno a parità di forze; invece noi adesso entriamo in questo scontro senza essere favoriti dalla fortuna, ossia in misura pari ai nemici; anzi, siamo costretti ad affrontare una situazione ben diversa. [11] Perché essi, anche se saranno sconfitti, come è possibile che succeda, avranno modo, dopo non molto tempo, di riprendere le ostilità contro di noi, dato che nelle varie piazzeforti d'Italia rimane ancora a loro disposizione una grande quantità di soldati, e non è da escludere che un altro esercito venga presto mandato in loro aiuto da Bisanzio. Se invece dovesse toccare a noi un simile destino, sarebbe il tracollo di tutte le speranze per il popolo dei Goti. [12] Da duecentomila che eravamo, ci è ormai toccato di essere ridotti a cinquemila. E dopo aver detto questo, non credo però che sia fuor di luogo ricordarvi anche quanto segue: quando avete deciso di riprendere le armi contro l'imperatore, al seguito di Ildibad, non eravate in numero superiore a mille uomini e tutto il vostro dominio consisteva nella sola città di Ticino [Pavia]. [13] Ma poi, a mano a mano che siete riusciti vincitori nelle battaglie, sia il vostro esercito che il vostro territorio sono aumentati. Se, quindi, anche adesso vorrete comportarvi con valore, io ho buona speranza che, continuando la guerra, necessariamente, riusciremo a sconfiggere completamente il nemico. [14] È dimostrato, infatti, che via via che si è vittoriosi, si cresce di numero e di potenza. Perciò ciascuno di voi si proponga ora di affrontare il nemico con tutte le sue energie, considerando bene che, se non avremo successo in questa battaglia, non ci sarà mai più possibile riprendere la lotta contro i nostri avversari. [15] Di conseguenza è necessario che veniamo alle mani con i nemici, animati da buona speranza e sostenuti dal rancore per tutte le ingiustizie che questi uomini hanno fatto. [16] Essi hanno commesso tali soprusi ai danni dei loro sudditi, che attualmente non è nemmeno più necessario che gli Italiani subiscano qualche altra punizione per il loro flagrante tradimento ai danni dei Goti, dato che — per dirla in poche parole — è già capitato loro di ricevere ogni sorta di male da quelli che essi avevano accolto con tanta cordialità. [17] E quali nemici dovrebbero essere più facili da vincere, di quelli le cui azioni, compiute in nome di Dio, sono empie? D'altronde, la paura che essi hanno di noi dovrebbe offrirci buoni motivi di speranza nel momento di entrare in battaglia: [18] perché gli uomini che stiamo per affrontare non sono se non quelli che recentemente, dopo essere già penetrati fino al centro di Verona, l'hanno poi abbandonata senza nessuna ragione, e sebbene nessuno al mondo lì inseguisse, si sono dati a vergognosa fuga».
[19] Terminato questo discorso, Totila ordinò a trecento dei suoi uomini di attraversare il fiume in un punto distante di là una ventina di stadi [ca. 3,7 km.], e di portarsi nelle vicinanze del campo nemico, di modo che, appena avessero visto che la battaglia si combatteva a corpo a corpo, fosse loro possibile prendere i nemici alle spalle e lanciare dardi e molestarli senza posa, cosicché essi, disorientati, abbandonassero ogni idea di opporre resistenza. [20] Egli intanto attraversò pure il fiume [Lamone] con tutto il resto dell'esercito e avanzò senza indugio verso i nemici. Immediatamente i Romani gli andarono incontro. [21] Quando i due eserciti, che avanzavano contemporaneamente, si trovarono vicini, un soldato goto, di nome Valaris, molto alto di statura e terribile di aspetto, il quale era un uomo assai coraggioso e un ottimo guerriero, spronato il cavallo, si staccò dal resto dell'esercito e andò a collocarsi a metà campo tra i due schieramenti, coperto di corazza e con l'elmo in testa, e sfidò i Romani, se qualcuno voleva battersi con lui. [22] Tutti rimasero fermi al loro posto, pieni di paura, eccetto Artabaze, che si fece avanti per il duello. [23] Entrambi lanciarono il cavallo al galoppo, l'uno contro l'altro, e quando furono vicini misero le lance in resta. Artabaze, più tempestivo, colpi per primo Valaris al fianco destro. [24] Il barbaro, mortalmente ferito, stava per cadere a terra riverso; ma la sua asta si piantò al suolo, dietro di lui, rimanendo puntata contro un sasso, e gli impedì di crollare a terra. [25] Artabaze, intanto, continuava a stargli addosso e gli spingeva sempre più la lancia nel ventre, perché non sapeva che col primo colpo gli aveva già prodotto una ferita mortale. [26] Ma così avvenne che la lancia di Valaris, piantata quasi ritta al suolo, con la sua punta di ferro si infilò nella corazza di Artabaze e, risalendo a poco a poco, usci fuori da essa e scalfi la pelle del collo di Artabaze. [27] Poi, penetrando un poco, per caso il ferro incise l'arteria che si trova in quel punto, e subito sgorgò un grosso fiotto di sangue. [28] Artabaze non se ne accorse nemmeno e galoppò indietro, per rientrare nelle file dell'esercito romano, mentre Valaris cadeva morto sul posto. [29] Ma la perdita di sangue non cessò, e tre giorni dopo Artabaze lasciò il mondo dei viventi. Ai Romani venne a mancare ogni speranza già nella battaglia che ebbe luogo subito dopo, perché egli non fu più in grado di combattere: la sua assenza ne compromise non poco l'esito. [30] Infatti i due eserciti vennero allo scontro appena egli dovette ritirarsi fuori della portata dei dardi, per curarsi la ferita. [31] Quando la battaglia divenne più intensa, i trecento barbari che erano rimasti di riserva comparvero all'improvviso, avanzando alle spalle dei Romani, e questi, al vederli, credendo che il numero degli assalitori fosse molto più grande, furono colti dallo spavento e subito si diedero alla fuga, ciascuno dove meglio poteva. [32] I barbari trucidarono i Romani che fuggivano disordinatamente e molti altri ne catturarono, e li tennero prigionieri. S'impadronirono anche delle insegne militari, cosa che mai era successa prima ai Romani. Quanto ai generali, ciascuno si mise in scampo dove poté, con pochi seguaci, e con questi, essi si posero a presidiare le varie città in cui avevano avuto la fortuna di trovare ricovero.
NoteBattaglia di Faenza: primavera 542 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/Procopio7,4,1-32.pdf
Traduzione[1] Non molto tempo dopo, Totila mandò un esercito contro Giustino a Firenze e mise a capo delle truppe i più valenti tra i Goti, ossia Bleda, Roderico e Uliaris. Costoro, giunti a Firenze, si accamparono intorno alle mura e iniziarono l'assedio. [2] Giustino, molto preoccupato, perché non gli era stato possibile ammassare provviste in città, mandò a pregare i comandanti dell'esercito romano che erano in Ravenna di accorrere subito in suo aiuto. [3] Il messaggero riuscì a passare durante la notte tra le file dei nemici senza essere visto, e giunto a Ravenna riferì qual era la situazione. [4] Perciò fu spedito immediatamente a Firenze un notevole contingente di truppe, che era guidato da Bessa, da Cipriano e da Giovanni, il nipote di Vitaliano. [5] Allorché i Goti, tramite i propri esploratori, seppero dell'arrivo di questo esercito, levarono subito l'assedio e andarono a ritirarsi nella località che ha nome Mugello, a un giorno di marcia [ca. 40 km.] da Firenze. [6] Cosi, appena l'esercito romano si fu congiunto con le forze di Giustino, i comandanti, lasciati solo pochi uomini a guardia della città, presero con sé tutti gli altri e partirono alla volta dei nemici.
NotePrimavera-estate 542 d.C. Probabilmente le truppe dei vari schieramenti passarono da Faenza per la valle del Lamone.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/Procopio7,5,1-6.pdf
Traduzione[1] Dopo i fatti precedentemente narrati, Totila conquistò le piazzeforti di Cesena e di Petra. Poco più tardi entrò in Tuscia [Toscana e Tuscia] e cercò aiuti dagli abitanti di quella regione; ma siccome nessuno voleva unirsi a lui, attraversò il fiume Tevere e, senza passare per il territorio di Roma, andò subito in Campania e nel Sannio, dove senza alcuno sforzo espugnò la città di Benevento, che era saldamente fortificata, e ne rase al suolo le mura, perché nessun esercito che sopraggiungesse da Bisanzio avesse la possibilità di usarla come fortezza ai danni dei Goti. [2] Poi Totila decise di andare ad assediare Napoli, perché gli abitanti di quella città, nonostante tutte le sue buone promesse, non volevano lasciarlo entrare. In quel momento la città di Napoli era presidiata da Conone con un migliaio di Romani e di Isauri. [3] Totila con la maggior parte dell'esercito si accampò non molto distante dalle mura, ma non tentò contro ci essa alcuna azione, mandando invece una parte delle truppe ad espugnare la piazza di Cuma e alcune altre località fortificate, dalle quali gli riuscì anche di far bottino di ricchezze considerevoli. [4] Ma, avendo trovato là le mogli dei membri del senato romano, non recò loro alcuna offesa, anzi con molta cortesia le lasciò andar libere, e per questo suo gesto si guadagnò fra tutti i Romani fama di saggezza e umanità. Siccome nessuna forza nemica si presentava a contrastarlo, egli continuò a mandare attorno piccoli reparti del proprio esercito e a compiere in questo modo importanti azioni di guerra. [5] Sottomise infatti i Bruzi e i Lucani e occupò sia l'Apulia che la Calabria, da cui si mise egli stesso a riscuotere le tasse pubbliche e a prendere i redditi dei beni privati al posto dei proprietari della terra. Insomma, si comportò come se fosse divenuto il signore d'Italia. [6] Di conseguenza l'esercito romano non poté più ricevere a tempo dovuto la paga regolare, e Giustiniano divenne debitore di una grande quantità di denaro. [7] Intanto gli Italiani, defraudati delle loro proprietà e gettati una seconda volta in gravi disagi, si sentivano molto irritati, mentre i soldati erano sempre più insubordinati verso gli ufficiali e si mostravano ben lieti di starsene oziosi nelle città. [8] Perciò Costanziano continuava a rimaner fermo a Ravenna, Giovanni a Roma, Bessa a Spoleto, Giustino a Firenze e Cipriano a Perugia, e ognuno degli altri dove in precedenza aveva trovato riparo nella fuga e si era messo in salvo.
NoteConquista di Benevento: autunno 542 d.C. Conquista di Napoli: marzo-aprile 543 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_6.pdf
Traduzione[1] Belisario per la seconda volta andò in Italia. Ma siccome aveva pochissimi soldati, e non poteva assolutamente distaccare truppe dall'armata che aveva in Persia, cominciò a percorrere tutta la Tracia, spendendo molto denaro per arruolare nuovi volontari. [2] Per incarico dell'imperatore, lo accompagnava Vitalio, generale dell'Illirico, il quale aveva di recente fatto ritorno dall'Italia, dove aveva lasciato i suoi soldati illiri. [3] Tutti e due insieme riuscirono a raccogliere circa mille uomini e si recarono a Salona, con l'intenzione di far prima di tutto vela per Ravenna e poi di là riprendere le operazioni di guerra come meglio avrebbero potuto.
NoteSecondo mandato in Italia di Belisario: estate 544-inizi 549 d.C. Arrivo di Belisario a Ravenna: fine 544 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_10.pdf
Traduzione[1] Intanto Belisario, giunto a Ravenna con tutta la flotta, fece radunare i Goti che si trovavano nella città e i soldati romani e tenne loro il seguente discorso: «Non è la prima volta, o uomini, che questo accade: che cioè le forze del bene siano soverchiate da quelle del male. [2] Fin dai tempi antichi questo è sempre stato un fatto del tutto naturale nella storia umana, perché molto spesso la malvagità delle persone cattive è riuscita a rovesciare e a distruggere le opere di uomini buoni. Proprio questo, ora, ha mandato in rovina tutto il lavoro del nostro Imperatore. [3] Ed egli è così preoccupato di riparare un simile danno, che ha ritenuto la conclusione della guerra coi Persiani meno importate e ha deciso di mandare di nuovo me qui tra voi, a rimediare e a risarcire i danni che gli altri comandanti hanno arrecato ai suoi soldati e a quelli goti. [4] E' vero che nessun uomo possiede il dono di non sbagliare mai, cosa praticamente impossibile nel naturale svolgimento dei fatti umani; [5] ma correggere gli errori commessi è un impegno che sta particolarmente a cuore ad un sovrano, specie se così può portare vantaggio ai suoi amati sudditi. Infatti, non soltanto vi succederà di essere liberati dalle vostre sofferenze, ma avrete anche la fortuna di sperimentare e godere subito la benevolenza dell'imperatore verso di voi. E quale, fra tutti i beni del mondo; può essere più gradito di questo, per qualunque persona? [6] Dal momento, dunque, che per questo io sono qui fra voi, bisogna che ciascuno di voi si sforzi con ogni sua possibilità per meritare tale beneficio. [7] Se qualcuno di voi ha parenti o amici che militano nell'esercito dell'usurpatore Totila, li mandi immediatamente a chiamare, informandoli di quali sono le intenzioni dell'Imperatore: [8] in questo modo potrete fruire sia dei vantaggi della pace, sia dei benefici che perverranno dalla magnanimità dell'imperatore. Io non sono venuto qui con l'intenzione di far guerra a qualcuno, né col deliberato proposito di farmi nemici i sudditi dell'Imperatore; [9] ma se adesso essi ritengono che sia un atto di debolezza scegliere quella che sarebbe per loro la soluzione più conveniente, e vogliono invece mettersi contro di noi, allora saremo costretti anche noi, sebbene con molto rincrescimento, a trattarli da nemici».
[10] Così parlò Belisario. Ma nessuno dei nemici, né romano né goto, volle assoggettarsi a lui. [11] Allora egli mandò in Emilia il suo lanciere Turimuth, con un piccolo seguito, e Vitalio con le truppe illiriche, perché tentassero di conquistarvi qualche piazza. [12] Vitalio, con le sue forze, marciò fino a Bologna, e ottenuti in resa alcuni luoghi fortificati nei dintorni, si fermò a Bologna stessa. [13] Ma, non molto tempo dopo, tutti gli Illiri che militavano al suo comando, quantunque non avessero affatto subito maltrattamenti o ricevuto minacce, all'improvviso fuggirono nascostamente e tornarono nei loro paesi. [14] Poi, di là mandarono ambasciatori dall'imperatore a chiedere che concedesse loro il perdono, avendo essi fatto ritorno in patria non per altro motivo se non perché, dopo aver per tanto tempo prestato servizio in Italia, non avevano ancora ricevuta la paga regolare e perciò lo Stato ormai doveva loro una grossa somma di denaro. [15] Ma era anche accaduto che un'orda di Unni aveva invaso l'Illirico e aveva portato via come schiavi tutti i bambini e le donne; [16] per questo motivo, oltre al fatto di essere rimasti in penuria del necessario in Italia, erano tornati in patria. L'imperatore a tutta prima fu adirato con loro, ma in seguito concedette il perdono. Totila, quando seppe che gli Illiri se n'erano andati, mandò un esercito a Bologna per catturare Vitalio e gli uomini che erano con lui. [17] Ma Vitalio e Turimuth disposero delle imboscate in vari punti e così trucidarono molti degli attaccanti e costrinsero i rimanenti a darsi alla fuga. [18] In quell'occasione si distinse fra tutti gli altri per eccellenti prove di valore contro i nemici un certo Nazare, personaggio assai noto, di origine illirica, che era ufficiale nelle truppe dell'Illirico. [19] Dopo quello scontro, Turimuth andò a Ravenna per conferire con Belisario, e questi finalmente mandò tre dei suoi lancieri, lo stesso Turimuth, Ricila e Sabiniano, con un migliaio di soldati a soccorrere Magno e i Romani assediati ad Osimo.
NoteInverno 545 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_11.1.pdf
Traduzione[8] Totila mandò pure un esercito in Emilia col compito di prendere Piacenza, o d'assalto o per capitolazione. [9] È questa la città più importante della regione emiliana, saldamente fortificata, posta sulle rive del fiume Eridano, ed era allora l'unico centro di quella zona rimasto nelle mani dei Romani. [10] Quando l'esercito goto arrivò presso Piacenza, i capi chiesero alla guarnigione di consegnare la città a Totila e ai Goti. [11] Ma siccome la loro richiesta non ebbe ascolto, si accamparono sul posto e aprirono l'assedio, convinti che la popolazione della città fosse a corto di provviste. [12] In quei giorni, a Roma, sorse tra gli ufficiali dell'esercito imperiale qualche sospetto di tradimento a carico di un patrizio di nome Cetego, uno dei membri più autorevoli del senato romano. Ma egli si trasferì prestamente a Centocelle [Civitavecchia]. [13] Belisario, preoccupato per ciò che stava accadendo a Roma, e per tutta la situazione in generale, dato che gli era impossibile intervenire da Ravenna se non con un piccolo esercito, decise di partire di là e di andarsi a stanziare nella regione intorno a Roma, in modo da essere vicino e poter portare qualche soccorso a coloro che in essa si trovavano in difficoltà. [14] Si pentì di essersi subito fermato a Ravenna, cosa che tuttavia aveva fatto allora per suggerimento di Vitalio e non nell'interesse dell'imperatore, perché asserragliandosi in quella città aveva lasciato ai nemici la libertà di condurre a loro piacere le operazioni di guerra. [15] Per conto mio ero del parere che Belisario avesse scelto la via sbagliata perché era destino che i Romani allora subissero un momento di sfortuna, o che forse egli avesse preso la decisione più giusta, ma che Dio avesse voluto creargli degli ostacoli, perché aveva in mente di favorire Totila e i Goti. Comunque è vero che anche i migliori piani di Belisario avevano sempre un risultato del tutto opposto alle sue aspettative. [16] Ma è così: quando per qualcuno il vento della fortuna spira favorevole, anche se fa progetti sbagliati, non gli può succedere alcun danno, perché la divinità li capovolge e li fa andare tutti a buon esito; [17] mentre, io credo, per un uomo che sia sfortunato non esiste alcuna possibilità di prendere una saggia decisione, [18] essendo egli completamente privato della capacità di discernere e di stabilire ciò che è giusto, essendo predestinato a subire rovesci. E anche se per caso egli prende una decisione adatta alle circostanze, subito il destino muta in senso opposto i suoi piani e li fa riuscire nel modo a lui più svantaggioso. [19] Comunque io non so dire se in questo caso i fatti siano andati in una maniera o nell'altra. Belisario, comunque, nominò Giustino comandante della guarnigione di Ravenna, ed egli stesso, con pochi uomini al seguito, si diresse di là in Dalmazia, e precisamente nella zona vicina ad Epidamno [Durazzo], e li rimase, in attesa dell'esercito che doveva arrivare da Bisanzio. E scrisse ancora un'altra lettera all'imperatore, per spiegargli qual era la nuova situazione.
NoteEstate 545 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_13.pdf
TraduzioneIntanto Totila era riuscito ad espugnare in Lucania, vicino ai confini con la Calabria, un'importante piazzaforte che i Romani chiamano Acerenza, e dopo avervi piazzato un presidio non inferiore ai quattrocento uomini, egli stesso a capo del restante esercito marciò contro Ravenna, lasciando però ancora alcuni nuclei di barbari nei paesi della Campania in cui c'erano prigionieri romani da sorvegliare, perché là si trovavano appunto i membri del senato.
NoteMarzo-aprile 547 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_23.pdf
Traduzione[23] Intanto anche i Goti che Totila aveva lasciato nella regione del Piceno, verso la stessa epoca presero in resa la città di Rimini.
(...)
[28] In quei giorni, intanto, accadde che Vero, con una banda di ottimi guerriglieri che era riuscito a raccogliere insieme, venne a battaglia, non molto distante dalla città di Ravenna, con i Goti che erano nel Piceno, e non solo perdette la maggior parte dei suoi uomini, ma cadde egli stesso, pur essendosi eroicamente prodigato in quello scontro.
NotePrimavera 550 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_37.pdf
Traduzione[21] Quando giunse in Italia la notizia di questi preparativi [di Germano], anche ingigantiti, come suole accadere tra gli uomini quando un'informazione passa di bocca in bocca, i Goti rimasero nello stesso tempo non solo presi dalla paura, ma anche impensieriti di fronte al fatto di dover scendere in guerra contro una discendente di Teoderico [Matasunta aveva sposato Germano]. [22] Per di più, i soldati romani che, sebbene contro la propria volontà, si trovavano a militare nelle file dei Goti, mandarono un messaggio a Germano per fargli sapere che, appena egli fosse giunto in Italia e il suo esercito si fosse accampato, essi pure, senza alcuna esitazione, sarebbero rientrati al completo nei ranghi. [23] Incoraggiati da tutte queste buone notizie e rinfrancati dalla speranza, i reparti dell'esercito imperiale di presidio a Ravenna e in ogni altra città rimasta in possesso ai Romani, erano ben decisi a difendere con ogni impegno i possedimenti dell'imperatore. [24] Pure coloro che, al seguito di Vero e di altri generali, erano venuti poco tempo prima a battaglia coi nemici ed erano stati costretti a darsi alla fuga; sconfitti dai loro avversari, e adesso si trovavano dispersi qua e là, ciascuno dove il caso l'aveva fatto capitare, quando seppero che Germano era in marcia, si adunarono tutti insieme in Istria e là rimasero riuniti, in attesa dell'armata romana.
NoteEstate 550 d.C. Il generale Germano, parente di Giustiniano e sposo di Matasunta, da cui ebbe un figlio, morirà nell'autunno 550 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_39.pdf
TraduzioneIntanto Giovanni e l'esercito dell'imperatore, giunti in Dalmazia, avevano deciso di trascorrere l'inverno a Salona e quindi, appena passata la brutta stagione, marciare subito contro Ravenna.
NoteFine 550 d.C.
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fonti/autgreci/Procopio_Cesarea/PROCOPIO_bellis_VII_40.pdf
Traduzione[1] Molto tempo prima, Totila aveva mandato un esercito di Goti nel Piceno, a conquistare Ancona, e al comando di esso aveva posto tre dei personaggi più famosi tra i Goti: Scipuar, Gibal e Gundulfo, l'ultimo dei quali aveva un tempo fatto parte dei lancieri di Belisario, [2] ed era anche chiamato Indulfo. A costoro Totila aveva pure assegnato quarantasette navi da guerra, in,modo che, assediando la città per terra e per mare, potessero conquistarla più rapidamente e con minor fatica. [3] Protraendosi questo assedio assai lungamente, gli assediati cominciarono a soffrire per la penuria di vettovaglie.
[4] Quando Valeriano, che era fermo a Ravenna, seppe di tali preparativi, conscio di non poter da solo accorrere in aiuto dei Romani ad Ancona, mandò la seguente lettera a Giovanni, il nipote di Vitaliano, il quale si trovava a Salona: «Ancona è l'unica città che ci sia rimasta a sud del Golfo, come sai anche tu, se pure in questo momento è ancora nostra, [5] perché così precaria è la situazione dei Romani in essa assediati, che io temo possa giungere troppo tardi qualunque aiuto, se un nostro intervento avverrà quando ormai non ci sarà più tempo e mostreremo il nostro zelo troppo tardi. [6] Ma adesso smetto di scrivere. Perché le esigenze degli assediati non permettono che mi dilunghi in questa lettera, ma richiedono che si metta urgentemente a loro profitto tutto il tempo disponibile; il momento critico impone un'azione concreta e più efficace di tante belle parole».
[7] Giovanni, letto questo messaggio, quantunque gli fosse stato ordinato dall'imperatore di non muoversi osò assumersi la responsabilità di intervenire, ritenendo la particolare situazione che gli si presentava più importante degli ordini ricevuti dall'imperatore. [8] Pertanto radunò tutti gli uomini che gli sembravano i migliori tra i suoi soldati, e riempite con essi trentotto navi da guerra, tra le più veloci in navigazione e ottimamente attrezzate per una battaglia navale, vi fece caricare un po' di provviste e salpò da Salona, puntando su Scardona. Lì anche Valeriano giunse non molto tempo dopo con altre dodici navi. [9] Congiunte le proprie forze, essi si consultarono insieme per decidere quella che sembrava la tattica più conveniente, quindi fecero vela di là e, raggiunta la sponda opposta, ormeggiarono presso la città che i Romani chiamano Senigallia , non molto distante da Ancona. [10] Quando i generali goti lo vennero a sapere, anch'essi fecero subito imbarcare sulle navi che avevano a disposizione, e che erano quarantasette, i migliori tra i propri soldati, [11] e, lasciato il resto dell'esercito impegnato nell'assedio, avanzarono immediatamente incontro ai nemici. [12] Quelli che erano rimasti a continuare l'assedio erano comandati da Scipuar, mentre quelli saliti sulle navi erano guidati da Gibal e da Gundulfo. [13] Appena le due flotte vennero a trovarsi l'una di fronte all'altra? i rispettivi comandanti fermarono le navi e, fattele serrare in un breve spazio, rivolsero ai soldati parole di esortazione. [14] Per primi, Giovanni e Valeriano dissero quanto segue: «Nessuno di voi, o soldati, pensi che adesso si stia per combattere solamente per la città di Ancona e per i Romani che in essa sono assediati, né che con questa battaglia si debba decidere unicamente tale questione; sappiate invece che in questo momento è in gioco, per dirlo in una parola, l'esito di tutta la guerra. Dalla parte in cui inclinerà la sorte di questa battaglia, inclinerà la sorte finale della guerra. [15] Tenete infatti presente questo, nell'attuale circostanza: la risoluzione di una guerra dipende molto anche dai rifornimenti di viveri, perché coloro che sono privi del cibo necessario, inevitabilmente saranno sconfitti dai nemici. [16] La combattività non può coesistere con la fame, poiché la natura non permette che un uomo digiuno sia valoroso in battaglia. [17] Così stando le cose, sappiate che a noi non è più rimasto, da Otranto a Ravenna, alcun luogo sicuro, dove poter depositare viveri per noi stessi e per i cavalli, perché i nemici hanno sotto controllo l'intero paese in modo tale, che non ci resta più una sola città amica, da cui sia possibile, anche in piccola misura, provvederci del necessario. [18] È quindi soltanto su Ancona che si basa ormai ogni nostra speranza: che cioè possa in essa sbarcare e stabilirsi al sicuro l'esercito partito con le navi dalla sponda opposta per venire qui [19] Se dunque nello scontro odierno avremo la meglio e, com'è augurabile, conquisteremo saldamente Ancona in nome dell'imperatore, forse saremo poi in condizione di sperar bene anche per il seguito della guerra contro i Goti. [20] Se invece falliremo in questa battaglia, senza parlare di chissà quale altro disastro, soltanto Dio potrà concedere ai Romani di riprendere un giorno il predominio in Italia. Ma è necessario che teniate presente quanto segue: che se avremo la peggio nello scontro odierno, non ci sarà nemmeno possibile fuggire. [21] Non ci sarà via di scampo sulla terraferma, tutta occupata dai nemici, né ci sarà concesso salvarci per mare, essendo anch'esso sotto il loro controllo. Siamo giunti a tal punto che per noi ogni speranza di salvezza sta unicamente nelle nostre forze e dipende perciò dal modo in cui ci comporteremo nel combattimento. [22] Cercate dunque di battervi eroicamente, con tutto l'impegno possibile, avendo bene in mente che se oggi starete sconfitti, sarà per voi perduta l'ultima battaglia, mentre se sarete vincitori, oltre a conquistarvi la gloria, sarete anche da considerare ben fortunati».
[23] Cosí parlarono Giovanni e Valeriano. I comandanti dei Goti tennero invece il seguente discorso: «Dopo essere fuggiti da ogni punto d'Italia ed essere rimasti lungo tempo acquattati, non sappiamo in quale angolo della terra o del mare, questi maledetti ora hanno preso di nuovo l'ardire di venirci a provocare a battaglia. È quindi necessario abbattere con risolutezza la baldanza che li ha indotti a tale follia, per non essere proprio noi a dar loro modo di spingere la loro pazzia a chissà quali estremi. [24] Infatti, la pazzia che non viene tenuta a freno fin dagli inizi può condurre ad atti sconsiderati e portare infine alla rovina coloro che ne sono affetti. [25] Affrontateli dunque subito, considerandoli quelli che sono: greculi codardi per natura, che diventano ardimentosi soltanto quando si vedono perduti; [26] e non permettete che procedano oltre in questo loro esperimento, perché la vigliaccheria, se viene tollerata, può spingere a disastrosi eccessi opposti, in quanto, vedendosi libera di agire, si cambia in spavalderia. [27] Ma non crediate che essi sappiano resistervi a lungo, se li affronterete con decisione. Quando non è regolata da un'effettiva capacità di azione da parte di coloro che vi si abbandonano, la temerarietà a tutta prima sembra pronta a compiere cose eccezionali, ma appena messa alla prova si svuota del tutto. [28] La dimostrazione che ciò è vero potete averla se ricordate quante volte i nemici hanno creduto bene di sfidare il vostro coraggio, e sono stati respinti. E tenete presente che non sono certo divenuti improvvisamente più valorosi, ora che muovono di nuovo contro di noi, ma stanno semplicemente ostentando una folle temerarietà, come in passato; perciò anche questa volta toccherà loro la medesima sorte».
[29] Dopo che i comandanti dei Goti ebbero pronunciate queste parole di incitamento, le due flotte avanzarono senza indugio l'una contro l'altra e vennero allo scontro. Fu una battaglia estremamente aspra, simile ad un combattimento terrestre, [30] perché da ambedue le parti le navi vennero schierate frontalmente, con le prue rivolte contro quelle degli avversari, e di lì i soldati si lanciavano reciprocamente i dardi, mentre coloro che volevano compiere qualche particolare atto di valore mettevano le loro navi affiancate a quelle nemiche, fino a toccarsi le une con le altre, e combattevano dal ponte, usando le lance e le spade, esattamente come in una battaglia campale. [31] In questo modo si svolsero le prime azioni di quel combattimento. Ma più tardi i barbari, data la loro inesperienza di battaglie navali, cominciarono a muoversi con grande disordine: alcuni, tanto si distaccavano dai loro compagni, da offrire ai nemici il destro di affrontarli ad uno ad uno; altri invece si ammassavano così strettamente fra di loro, da non potersi più muovere nel poco spazio rimasto. [32] Si sarebbe detto che i tavolati delle loro navi fossero incastrati insieme come in una stuoia. Non potevano neppure lanciare le frecce contro gli avversari, se non da distanza e con scarsa precisione, e tanto meno servirsi delle spade e delle lance quando se li vedevano piombare addosso; erano invece continuamente impacciati nei movimenti e frastornati dalle grida, e le navi venivano ad ogni momento a collisione le une con le altre, poi di nuovo si staccavano a forza di remi in una confusione indescrivibile, perché talvolta le prue andavano a infilarsi dove non c'era spazio libero, talvolta indietreggiavano troppo, e perciò, in un modo o nell'altro, si mettevano sempre in una posizione pericolosa. [33] Ognuno intanto gridava ordini ai più vicini, con grande schiamazzo, non per indirizzarli contro i nemici, ma solo perché venissero mantenute le debite distanze tra la loro nave e le altre. [34] Essendo così indaffarati per gli impacci che si creavano l'un l'altro, furono essi stessi a procurare la vittoria ai nemici. Al contrario i Romani conducevano il combattimento con perfetta efficienza e si destreggiavano abilmente nella manovra delle navi. Queste stavano tutte schierate con la prua in avanti, senza staccarsi troppo l'una dall'altra e senza neppure accostarsi più del necessario; invece si spostavano sempre con movimenti concordi, sia per accorciare che per aumentare le distanze. Quando scorgevano una nave nemica che si era allontanata dalle altre, l'assalivano e l'affondavano senza difficoltà, e se vedevano delle navi nemiche intricate in un groviglio, saettavano là in mezzo una pioggia di dardi, e appena arrivavano addosso ai nemici, li trucidavano con le proprie mani, così com'erano, in pieno disordine e già esausti per la fatica sostenuta in quella loro confusione. [35] Alla fine i barbari, in lotta contro le avversità della fortuna e gli errori che essi stessi commettevano, capirono di non essere più in grado di continuare la battaglia, né manovrando le navi né combattendo dai ponti come in uno scontro terrestre. [36] Abbandonarono allora la lotta, cedendo all'avverso destino, e in gran disordine si volsero vergognosamente in fuga, senza preoccuparsi né di salvare il proprio decoro, né di eseguire una ritirata con una certa disciplina, né di fare qualunque altra cosa utile-a proteggerli. Circondati com'erano, per la massima parte, dalle navi nemiche, si trovarono privi di ogni risorsa. [37] Soltanto pochi di essi, con undici navi, riuscirono a scampare, inosservati, e a mettersi in salvo. [38] Tutti gli altri caddero vittime dei nemici: molti furono uccisi dalle mani stesse dei Romani, molti morirono naufraghi con le navi affondate. Dei due generali soltanto Gundulfo riuscì a fuggire, senza farsi notare, con le undici navi; l'altro fu catturato dai Romani.
[39] Coloro che erano sulle undici navi superstiti, appena toccata terra, diedero fuoco alle imbarcazioni perché non cadessero nelle mani dei nemici, e s'incamminarono a piedi per raggiungere i commilitoni impegnati nell'assedio di Ancona. [40] Al loro racconto di ciò che era accaduto, immediatamente anche quelli batterono in ritirata, abbandonando il campo ai nemici, e in fretta e furia corsero nella vicina città di Osimo. [41] I Romani, giunti ad Ancona non molto tempo dopo, trovarono l'accampamento senza nemmeno un uomo. Scaricate le provviste per la guarnigione della città, s'imbarcarono nuovamente. [42] Valeriano procedette verso Ravenna, Giovanni ritornò a Salona. La sconfitta abbatté notevolmente l'animo di Totila e dei Goti e ne fiaccò le forze.
NoteBattaglia navale di Senigallia: autunno 551 d.C.
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Traduzione[20] Narsete, fortemente irritato da quella risposta [dei Franchi], chiese consiglio agli Italiani che erano con lui su ciò che fosse possibile fare in tale situazione. Qualcuno gli fece notare che, quand'anche i Franchi avessero concesso loro il passaggio, non sarebbero nemmeno riusciti a raggiungere Ravenna, ma al massimo avrebbero potuto spingersi non oltre la città di Verona. [21] Totila infatti aveva radunato il meglio dell'esercito goto, mettendovi a capo, come generale, Teia, un Goto che era valentissimo guerriero, e l'aveva mandato nella città di Verona, appunto col compito di fare tutto il possibile per sbarrare il passo all'esercito romano. [22] E ciò era vero. Teia, appena giunto a Verona, aveva tagliato completamente fuori da quella zona i nemici, rendendo assolutamente impraticabile il passaggio in qualunque punto della campagna che fiancheggia il fiume Po, con mille artifici: in alcuni luoghi aveva fatto costruire imboscate, scavare fossati e voragini; in altri aveva creato profondi pantani e vasti acquitrini, mentre egli stesso, con l'esercito goto, teneva una stretta sorveglianza, pronto ad affrontare i Romani se avessero fatto qualche tentativo per avanzare. [23] Totila stesso aveva avuto quell'idea, pensando che i Romani non sarebbero mai stati in grado di marciare lungo la costa del Golfo Ionico, perché in quel tratto hanno le loro foci un gran numero di fiumi navigabili che rendono assolutamente impossibile la marcia. Non credeva d'altra parte che possedessero una quantità tale di navi da poter trasportare tutto l'esercito insieme al di là del Golfo Ionico, mentre, se avessero eseguito la traversata a piccoli gruppi, egli stesso, con ciò che gli rimaneva dell'esercito goto, avrebbe potuto agevolmente ostacolarne ogni volta lo sbarco. [24] Questo era stato il piano di Totila, e Teia l'aveva messo in esecuzione. Narsete si trovava quindi totalmente paralizzato, quando Giovanni, il nipote di Vitaliano, che era pratico di quelle località, gli suggerì di procedere con l'esercito al completo lungo la costa, dove gli abitanti erano tutti sudditi fedeli, come si è detto poco sopra, facendo navigare di conserva anche alcune delle navi, con molte piccole imbarcazioni, [25] cosicché, ogni volta che l'esercito fosse giunto dove c'erano le foci dei fiumi, fosse possibile costruire sul letto dei fiumi un ponte con quelle imbarcazioni, ed effettuare in tale modo la traversata abbastanza facilmente e con minor disagio. Questo fu il suggerimento di Giovanni, e Narsete lo seguì, compiendo la marcia con l'intero esercito fino a Ravenna.
NotePrimavera 552 d.C.: Narsete proveniva da Salona e raggiunse Ravenna il 9 giugno. I Franchi occupavano alcune fortezze delle Venezie per conto degli Ostrogoti.
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Traduzione[1] Quando le forze di Narsete furono giunte alla città di Ravenna, vennero ad unirsi con loro anche i generali Valeriano e Giustino, nonché ogni altro contingente di soldati romani rimasto nella regione. [2] Dopo che costoro si trovavano a Ravenna già da nove giorni, il goto Usdrila, un uomo d'armi veramente eccezionale, comandante del presidio di Rimini, scrisse a Valeriano la seguente lettera: «Sebbene abbiate riempito ogni parte del mondo con le vostre chiacchiere e abbiate incantato l'intera Italia con i vostri fantasmi di grandezza, pavoneggiandovi come esseri superiori agli umani e riuscendo perciò a intimorire, come si può ben immaginare, anche i Goti, adesso però ve ne state chiusi in Ravenna, senza farvi mai vedere dai nemici, forse, come io penso, per salvare ancora questa vostra nomea, e lasciate che un'orda eterogenea di barbari mandi in rovina una terra che non vi appartiene a nessun titolo. [3] Venite invece fuori subito, e impegnatevi in azioni di guerra; mostratevi ai Goti e non tenete in sospeso, con la speranza, [4] noi che da tanto tempo siamo in attesa di questo spettacolo!».
Così diceva la lettera. Narsete, quando gli fu consegnata e l'ebbe letta, rise per la sfacciataggine dei Goti, e subito si preparò alla partenza con tutto l'esercito, lasciando a Ravenna un presidio con Giustino.
NoteGiugno 552 d.C.: Narsete riparte da Ravenna attorno al 18.
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Traduzione[6] Intanto, i Goti che erano riusciti a scampare dalla battaglia [di Busta Gallorum/Tagina/Gualdo Tadino], attraversato il fiume Po, si andarono a stabilire nella città di Ticino [Pavia] e nelle campagne circostanti, dove elessero Teia loro re. [7] Teia trovò a Ticino tutti i tesori che Totila vi aveva depositati e subito si diede da fare per attirare i Franchi in un'alleanza militare e per riorganizzare i Goti, armandoli come meglio permettevano le circostanze e raccogliendoli con cura da ogni parte attorno a sé. [8] Quando Narsete lo seppe, comandò a Valeriano di tenere sotto sorveglianza con i suoi uomini il fiume Po, perché i Goti non potessero liberamente riunirsi; intanto egli stesso partì per Roma con tutto il resto delle sue forze.
NoteLuglio 552 d.C.
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TraduzioneDurante la marcia, [Totila] avendo appreso ciò che era avvenuto a Usdrila e come i nemici fossero riusciti a passare oltre Rimini, attraversò tutta la Toscana e, raggiunti i monti che fanno parte dell'Appennino, vi si fermò e piantò le tende nei pressi di un villaggio che gli abitanti chiamano Tagina.
Note552 d.C.
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Traduzione[27] Ma uno dei soldati, disertando dalle file, si recò di nascosto nell'accampamento nemico e rivelò i piani dei Romani. [28] Allora Totila mandò fuori duemila dei suoi migliori guerrieri, e appena calate le tenebre li fece sistemare in attesa presso le vie di accesso, a trenta stadi da Osimo [ca. 5,5 km.], senza che nessuno dei nostri se ne accorgesse. [29] Così costoro, quando verso mezzanotte videro avanzare le nostre truppe, brandendo le spade, le assalirono. [30] Uccisero duecento soldati, ma Sabiniano e Turimuth con i rimanenti, grazie all'oscurità della notte, riuscirono a scampare e a ritirarsi in Rimini. [31] Tuttavia i Goti s'impadronirono di tutti gli animali da soma, che trasportavano le salmerie, le armi e il vestiario dei nostri soldati. [32] Sulla costa del Golfo Ionico vi sono due città molto importanti, Pesaro e Fano, situate fra Osimo e Rimini. Ambedue, all'inizio della guerra, erano state espugnate da Vitige, che ne aveva bruciate le case e smantellate le mura fino a circa metà della loro altezza, affinché i Romani, nel caso se ne fossero di nuovo impadroniti, non potessero servirsene contro i Goti.
Note544 d.C.
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Traduzione[2] Frattanto i Romani che erano assediati in Piacenza, poiché ormai si trovavano totalmente sprovvisti di vettovaglie, forzati dalla fame si erano visti costretti a cercar cibo in modo assolutamente innaturale, [3] fino al punto di mangiarsi tra di loro. Fu per questo che dovettero arrendersi e consegnare Piacenza ai Goti.
Note546 d.C.
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NomeAssorati G.
NomeParisini S.