Museo Civico di Modena
Largo Porta S.Agostino, 337
Modena (MO)
Manfredi Bartolomeo
1582/ 1622
Altra Attribuzione: Sisto Badalocchio
Giovanni Lanfranco
dipinto

tela/ pittura a olio
cm 166,5 (la) 122 (a)
sec. XVII (1600 - 1622)
n. 169
Il dipinto, del quale si conserva una copia scadente nel Palazzo Ducale di Sassuolo (la riproduzione fornita in Mostra di opere ... 1980, p. 44, si riferiva erroneamente a questo stesso esemplare prima del restauro), faceva parte delle raccolte Campori già nel XVII secolo. Il testamento del marchese Pietro lo enumera tra i dipinti presenti nell’appartamento dell’abate Onofrio nel 1642, dove figurava in pendant con l’Erminia e Tancredi di Lana (“Due quadri grandi con le favole di Clorinda e Tancredi e di Erminia e di Tancredi”): una situazione che si ripete nel testamento del marchese Onofrio (1694), dove è attribuito a Sisto Badalocchi (“Quadro grande che è il Tancredi originale del Lana con sua cornice intagliata e dorata. Dirimpetto al sop.to un quadro di simile cornice, pittura di Sisto Badalocchio”). La tela è nuovamente citata nell’inventario del palazzo del 1857, dove il dipinto risulta collocato nella prima camera dell’appartamento al piano terra (“Quadro per traverso rappresentante Tancredi che battezza Clorinda, scuola guercinesca in cornice dorata”). In questa sede il riferimento allo stesso Badalocchi, espresso in forma dubitativa, appare aggiunto successivamente. L’attribuzione al pittore parmense, davvero incongrua rispetto all’effettiva caratura qualitativa del dipinto, resse fino a quando Carlo Volpe (1980), anche a seguito della pulitura intervenuta nel frattempo, non vi rilevò “l’impronta di una possente e più libera ottica pittorica” che, se confrontata con i dipinti di analogo soggetto del parmense nella Galleria Estense e nella collezione ad duca di Northumberland ad Alnwick Castle, “si impone con una forza non ignorabile, e intanto colloca il dipinto nel rango dei capolavori”. Alzando considerevolmente il tiro egli proponeva pertanto una sua attribuzione a Giovanni Lanfranco nella sua fase di più intensa intelligenza caravaggesca. Aldilà della conclusione proposta, che è stata ripresa ancora di recente (NEGRO, in La scuola ... 1995), ma che non ha soddisfatto un conoscitore esigente di cose Ianfranchiane come Erich Schleier (1996), valgono tuttora le considerazioni dedicate da Volpe al dipinto, “che nasce [..] come una lacerazione di schemi classici per comporsi nella lenta folgorazione di una pausa visiva: lo spessore pittorico, insomma, è prima nella realtà del lume che in quella dei corpi che infatti, con buona pace della dottrina classica, avventurosamente ne emergono”. “Così si devono intendere — notava ancora lo studioso — il rosso ramato delle chiome di Clorinda; il lume radente che ne costruisce i tratti con un modulo invertito di valori come in un Caravaggio degli ultimi anni; i lustri freddi sull’elmo e l’armatura; il tramonto che langue anch’esso, e palpita a stento nella valletta dove, ancora per poco visibile, pascola il cavallo dell’eroina”. Alla luce di questa interpretazione, che chiama anche in causa, nelle sue battute finali, il napoletano Battistello Caracciolo, la conclusione sul nome di Lanfranco, discusso per giunta in relazione a un dipinto di paternità tutt’altro che certa come il Figliol prodigo della Galleria Spada di Roma (per il quale è stato proposto il nome di Angelo Caroselli: GIFFI 1986, p. 26, fig. 8), non appare del tutto convincente. Altro è appunto l’accento di verità che informa questa composizione, dove le figure si premono entro il breve spazio a disposizione, bloccandosi in atteggiamenti di greve e torpida carnalità, rispetto al teatro sempre atteggiato e ronzante del pittore parmense, come si evince anche dai lavori della cappella Buongiovanni in Sant’Agostino a Roma (1616 circa), richiamati da Volpe in questo contesto, che ne preparano l’exploit più giubilante e barocco. Il quesito attributivo proposto da questo dipinto affascinante deve a nostro avviso sciogliersi in un giro di più stretta osservanza caravaggesca: il nome di Bartolomeo Manfredi, che qui si suggerisce in forma necessariamente ipotetica, interviene a giustificare molte delle antinomie in esso presenti. La violenza dello scorcio esperito da Caravaggio nella Maddalena di Tours trova nella Clorinda un accento più disteso e patetico; così come il timbro generale dell’opera punta su una ricercata valenza letteraria che non disdice ai cultori della “manfrediana methodus”. Erano stati appunto Manfredi e i suoi seguaci, che Joachim von Sandrart avrebbe poi raccolto sotto questa fortunata etichetta, a coniugare la difficile eredità di Caravaggio con un’inclinazione morbida e sentimentale, che accoglie e in qualche modo fa proprie le sollecitazioni della contemporanea pittura d’indirizzo classicista verso un più disteso narrare; ed è in questo ambito, in cui al nome di Manfredi si affianca subito quello per certi versi non meno persuasivo di Nicolas Tournier (Montbéliard, 1590 - Toulouse, 1639), che andrà cercato l’autore di questo affascinante dipinto.