Museo Civico di Modena
Largo Porta S.Agostino, 337
Modena (MO)
De Ferrari Orazio
1606/ 1657
dipinto

tela/ pittura a olio
cm 91 (la) 184 (a)
sec. XVII (1625 - 1653)
n. 149
I frammenti derivano da una grande tela con l’ingresso in Gerusalemme già nella chiesa del castello Montecuccoli Laderchi di Guiglia (Modena), della quale il marchese Matteo Campori, che la riteneva opera di Bernardo Strozzi, riferisce che “nell’insieme non riusciva a gustosa” e di cui preferì dunque ritagliare e conservare le sole parti a suo parere più interessanti. Una fotografia reperita da E. Pagella (in Collezionisti 1996, p. 40, fig. 12) mostra il dipinto ancora integro (per un fotomontaggio dei frammenti superstiti: DONATI 1997, fig. 64). E’ da supporre che la provenienza dichiarata da Campori non sia quella originale; tuttavia nemmeno le ricerche più recenti consentono di chiarire quale essa fosse. Il restauro ha evidenziato come il collezionista sia intervenuto sui frammenti superstiti, in origine quattro, due dei quali sono stati malamente uniti a formare un unico gruppo di teste (nctn 00000142a) che si è preferito conservare in questo assetto, anche se risulta ora del tutto incongrua l’apparizione al centro della mano benedicente di Cristo, che l’intervento precedente aveva cancellato. L’attribuzione a Strozzi, accolta nei cataloghi a stampa della Galleria Campori, fu rifiutata da Ragghianti (1939) e poi da L. Mortari (1966 e 1995) che proponeva, per la sola Testa di vecchio (00000142b), l’appartenenza alla scuola veneta. Una discussione più circostanziata si deve a Volpe (1980) secondo il quale l’autore dei tre frammenti sarebbe da riconoscere in Orazio De Ferrari, condiscepolo del poco più giovane Gioacchino Assereto nella bottega dello zio Giovanni Andrea Ansaldo. In questi frammenti, che lo studioso confronta con le opere tarde dell’artista, come la Lavanda dei piedi in San Francesco di Paola a Genova (CASTENOVI 1971, p. 135, fig. 115), risulterebbe preponderante il rapporto con l’Assereto, “bene esprimendo quell’intento, che non è soltanto nelle opere del tempo più maturo di Orazio, di voltare in una specie di naturalismo magniloquente, e dunque di lontana matrice caravaggesca, la retorica pittorica del Rubens e del Van Dick”.