Titolo operaEpistulae
Anno398 ca. d.C.
Periodoetà dei teodosidi
EpocaTarda Antichità
Noteed.: G. Banterle (a cura di), Lettere, 3 voll., Milano - Roma 1988 (trad. del curatore).
Testo originale[3] Sed doles quod dudum florentissima repente occiderit. Verum hoc nobis commune non solum cum hominibus, sed etiam cum civitatibus terrisque ipsis. Nempe de Bononiensi veniens urbe a tergo Claternan, ipsam Bononiam, Mutinam, Regium derelinquebas, in dextera erat Brixillum, a fronte occurrebat Placentia veterem nobilitatem ipso adhuc nomine sonans, ad laevam Apennini inculta miseratus et florentissimorum quondam populorum castella considerabas atque adfectu relegebas dolenti. «Tot igitur semirutarum urbium cadavera» terrarumque sub eodem conspectu exposita funera non te admonent unius, sanctae licet admirabilis, feminae decessionem consolabiliorem habendam, praesertim cum illa in perpetuum «prostrata ac diruta» sint, haec autem ad tempus quidem erepta nobis meliorem illic vitam exigat? [4] Itaque non tam deplorandam quam prosequendam orationibus reor nec maestificandam lacrimis tuis, sed magis oblationibus animam eius domino commendandam arbitror.
Traduzione[3] Ma ti affliggi perché è morta improvvisamente, mentre dianzi era nel pieno fiore della salute. Ma tale sorte abbiamo in comune non solo con gli uomini, ma anche con le città e gli stessi territori. Or non è molto, venendo da Bologna, ti lasciavi alle spalle Claterna, la stessa Bologna, Modena, Reggio, alla tua destra c'era Brescello, davanti ti veniva incontro Piacenza, che ancora proclama nello stesso suo nome un'antica nobiltà, ed eri preso da compassione osservando alla tua sinistra le zone incolte dell'Appennino e i villaggi abitati un tempo da popolazioni prospere e ricche e ne rievocavi la sorte con dolorosa partecipazione. «Tanti cadaveri di città semidistrutte» e le rovine di territori, che si offrono alla tua vista nello stesso tempo, non ti fanno riflettere che la dipartita di una sola — sia pure santa ed ammirevole — donna deve essere ritenuta più facilmente accessibile alla consolazione, specialmente perché quelli sono stati «abbattuti e diroccati» per sempre, mentre questa ci è stata rapita per un po' di tempo e conduce lassù una vita migliore? [4] Perciò penso che ella non deve tanto essere compianta quanto accompagnata con le preghiere, e ritengo che la sua anima non debba essere rattristata dalle tue lacrime, ma piuttosto raccomandata al Signore con le offerte.
Note394/395 d.C.
Testo originaleAmbrosius Constantio.
[1] Suscepisti munus sacerdotii, et in puppe ecclesiae sedens navim adversus fluctus gubernas. Tene clavum fidei, ut te graves huius saeculi turbare non possint procellae. Mare quidem magnum et spatiosum, sed noli vereri, quia “ipse super maria fundavit eam et super flumina preparavit eam”. Itaque non immerito inter tot mundi freta ecclesia domini tamquam supra apostolicam aedificata petram immobilis manet et inconcusso adversum impetus saevientis sali perseverat fundamine. Alluitur undis, non quatitur, et licet frequenter elementa mundi huius magno illisa resultent fragore, habet tamen, quo laborantes excipiat, tutissimum portum salutis. (...)
[27] Commendo tibi, fili, ecclesiam, quae est ad Forum Cornelii, eam de proximo intervisas frequentius, donec ei ordinetur episcopus. Occupatus diebus ingruentibus quadragesimae, tam longe non possum excurrere. [28] Habes illic Illyrios de mala doctrina Arianorum; cave eorum zizania: non appropinquent fidelibus, non serpant adulterina semina; advertant quid propter suam perfidiam acciderit sibi, quiescant ut veram fidem sequantur. Difficile quidem imbuti animi infidelitatis venenis abolere possunt impietatis suae glutinum; si tamen in iis virus infaustum inoleverit, nec facile iis credendum putes. Nervi enim sunt et quidam artus sapientiae non temere credere, et maxime in causa fidei, quae raro perfecta est in hominibus.
TraduzioneAmbrogio a Costanzo.
[1] Hai assunto l'ufficio episcopale e, sedendo sulla poppa della Chiesa, guidi la nave contro i flutti. Tieni saldo il timone della fede, perché le pericolose procelle di questo mondo non possano turbarti. Il mare, senza dubbio, è grande ed esteso, ma non temere, perché “egli l'ha fondata sui mari e l'ha stabilita sui fiumi”. Perciò, non senza ragione la Chiesa del Signore, per così dire costruita sulla pietra dell'apostolo, rimane immobile tra i tanti marosi del mondo e sul suo fondamento inconcusso resiste senza tregua alla violenza del mare che infuria. Le onde la lavano, non la scuotono; e quantunque gli elementi di questo mondo risuonino infrangendosi contro di essa con grande fragore, ha tuttavia un sicurissimo porto di salvezza in cui accogliere chi si trova in difficoltà. (...)
[27] Ti affido, figlio, la Chiesa che è in Imola, perché, data la vicinanza, tu la visiti con una certa frequenza, finché per essa sia ordinato un vescovo. Occupato come sono per l'imminenza della Quaresima, non posso spingermi così lontano. [28] Là trovi degli Illirici, aderenti all'eresia degli Ariani: stai attento alla loro zizzania. Non si avvicinino ai fedeli, non si diffondano semi fallaci; considerino che cosa è loro accaduto per la loro malafede, rimangano tranquilli in modo da seguire la fede vera. Senza dubbio, animi imbevuti dei veleni dell'eresia difficilmente potrebbero eliminare la colla della loro empietà; se tuttavia l'infausto succo si sarà sviluppato in essi, non potresti nemmeno pensare di poterti fidare facilmente di loro. Infatti, il non credere con leggerezza, specialmente nel campo della fede — che negli uomini di rado è perfetta —, corrisponde ai muscoli e, per così dire, alle articolazioni della sapienza.
Note379 ca. d.C.
E' possibile che Costanzo fosse vescovo di Faenza.
Testo originale[3] Est et ibi Iaphet iunior ex fratribus, qui pietatis reverentia patrem induat, quem pater et dormiens videat nec umquam de pectore dimittat suo, quin semper oculis et complexu teneat atque evigilans intellegat quae ei fecerit filius suus iunior. Qui latitudo Latine dicitur, eo quod in labiis eius diffusa gratia sit et in moribus; propter quod benedixit eum Dominus, quia ipse tamquam Bononiam retrorsum rediens patrem texit pio caritatis velamine et detulit pietati honorem, de quo et pater ait: «Laetificet Deus Iaphet in domibus Sem». Unde et in enumeratione generationum praefertur seniori fratri, in benedictione substituitur: praefertur propter honorem nominis, substituitur propter praerogativam senioris aetatis et honorificentiam naturae debitam. [4] Sem autem dicitur Latine nomen. Et bene hic noster Ambrosius bonum nomen in cuius domibus dilatetur Iaphet: «quia potius est nomen bonum super multas divitiarum copias». Sit ergo et iste benedictus et gratia eius super aurum et argentum, sit in portione eius semen Abrahae, sit benedictio omnis in posteritate et omni familia iusti viri. Sed maledictus nemo, benedicti omnes; benedictus enim Sarae fructus. [5] Salutant te Ambrosii, salutat Partenius dulcissimus, salutat Valentinianus paratus ad humilitatem; quod Hebraice Chanaan dicitur, quasi puer fratris sui, cui et nomine suo cessit. Et ideo tamquam Nembroth, gemini gigas nominis, venator egregius super terram, de quo dictum est: «Tamquam Nembroth gigas venator ante dominum». Namque ingenio subrusticus, viribus validus, quos ingenio aequare non potest, viribus superat, ut Comacinas rupes gestare secum et, faciem tauro propior, vultu videatur exprimere, posthabitum se indignatus et paterno exutum vocabulo, metropolitanum virum Bononiensi subditum, quia infantiae nescit blanditias et de nutricis gremio se illaesus excussit. Vale et nos dilige, quia nos te diligimus.
Traduzione[3] Lì c'è anche Jafet, il più giovane dei fratelli, che col rispetto proprio dell'amor filiale ricoprirà il padre; e il padre, pur dormendo, lo vedrà e non lo cancellerà mai dal suo cuore, ma anzi lo terrà sempre negli occhi e tra le braccia e, una volta desto, comprenderà che cosa ha fatto per lui il suo figlio minore. Il suo nome, in latino, significa “larghezza”, perché sulle sue labbra è stata sparsa la dolcezza e così nel suo carattere; perciò il Signore lo benedirà perché egli, per così dire, tornando a Bologna ha coperto il padre con la veste del suo affetto e ha onorato la pietà filiale, e di lui anche il padre ha detto: «Dio allieti Jafet nelle case di Sem». Perciò, anche nella elencazione delle generazioni è anteposto al fratello maggiore, è collocato dopo di lui nella benedizione: è anteposto per l'onore del nome, è collocato dopo di lui per il privilegio della maggiore età, per l'onore dovuto alla natura. [4] Sem invece, in latino, equivale a “nome”. E davvero è un buon nome questo nostro Ambrogio nella cui casa si dilaterà Jafet, «perché è preferibile un buon nome a una grande abbondanza di ricchezze». Sia dunque benedetto anche costui, e il suo pregio sia superiore all'oro e all'argento, nella sua parte di eredità sia il nome di Abramo, sia ogni benedizione nella posterità e in tutta la famiglia dell'uomo giusto. Ma nessuno sia maledetto, siano benedetti tutti; infatti benedetto è il figlio di Sara. [5] Ti salutano gli Ambrogi, ti saluta il carissimo Partenio, ti saluta Valentiniano, disposto all'umiltà; ciò, in ebraico, si dice Canaan, in quanto servo di suo fratello, cui lasciò la precedenza anche riguardo al suo nome. E perciò è come Nembrot, gigante dalla duplice denominazione, cacciatore famoso sulla terra, di cui si disse: «Come il gigante Nembrot, cacciatore al cospetto di Dio». Infatti egli, che è alquanto rozzo d'intelligenza ma robusto di forza, supera con le sue forze quelli che non riesce a uguagliare con l'intelligenza. Così sembra che porti con sé le rupi Comacine e, somigliante piuttosto nell'aspetto ad un toro, ne riproduca nel volto la durezza, essendo sdegnato di essere stato messo in seconda linea e privato del nome paterno; di essere stato, lui — cittadino d'una metropoli —, sottoposto a un bolognese, per il fatto d'ignorare le carezze che ricevono i bimbi e di essersi staccato incolume dal grembo della nutrice. Sta' sano ed amaci, perché noi ti amiamo.
Note392 d.C.
Testo originale[14] Hoc scriptum est in Ariminensi synodo; meritoque concilium illud exhorreo sequens tractatum concilii Nicaeni, a quo me nec mors nec gladius poterit separare. Quam fidem etiam pareri: clementiae tuae Theodosius beatissimus imperator et sequitur ei probavit; hanc fidem Galliae tenent, hanc Hispaniae et cum divini spiritus confessione custodiunt. [15] Si tractandum est tractare in Ecclesia didici; quod maio res fecerunt mei. Si conferendum de fide sacerdotum debet esse ista collatio, sicut factum est sub Constantino augustae memoriae principe, qui nullas leges ante praemisit, sed liberum dedit iudicium sacerdotibus. Factum est etiam sub Constantio augustae memoriae imperatore paternae dignitatis herede, sed quod bene coepit, aliter consummatum est. Nam episcopi sinceram primo scripserant fidem, sed dum volunt quidam de fide intra palatium iudicare, id egerunt ut circumscriptionibus illa episcoporum iudicia mutarentur. Qui tamen inflexam statim revocavere sententiam et certe maior numerus Arimini Nicaeni concilii fidem probavit, Arriana decreta damnavit.
Traduzione[14] Ciò [decreti a favore dell'arianesimo] sta scritto negli Atti del Sinodo di Rimini; e a buon diritto io aborrisco quel Concilio, seguendo le dichiarazioni del Concilio di Nicea, dal quale non mi potranno separare né morte né spada. Tale fede segue e ha approvato anche il padre della tua Clemenza, il felicissimo imperatore Teodosio; tale fede osservano le Gallie, tale fede la Spagna citeriore e ulteriore, e la custodiscono con la devota confessione dello Spirito divino. [15] Se si deve discutere, ho imparato a discutere nella Chiesa, cosa che hanno fatto i miei maggiori. Se ci si deve confrontare sulla fede, tale confronto deve avvenire tra Vescovi, come avvenne sotto Costantino, principe di augusta memoria, che non promulgò in antecedenza alcuna legge, ma lasciò ai Vescovi il libero giudizio. Ciò avvenne anche sotto Costanzo, imperatore di augusta memoria, erede della dignità paterna; ma ciò che era cominciato bene, terminò in ben altra maniera. Infatti, dapprima i Vescovi avevano sottoscritto l'autentica fede; ma poiché alcuni volevano giudicare in materia di fede dentro il palazzo imperiale, ottennero di cambiare con i loro raggiri ciò che i Vescovi precedentemente avevano deciso. Essi, tuttavia, ritrattarono subito il parere che avevano mutato, e indubbiamente a Rimini il maggior numero approvò la fede del Concilio niceno e condannò i decreti proposti dagli Ariani.
Note386 d.C.
Testo originaleHanc ergo legem quisquam sequatur qua firmatur Ariminense concilium, in quo creatura dictus est Christus? Sed aiunt: “Misit Deus Filium suum factum ex muliere, factum sub lege”; ergo factum legunt hoc est creatum. Nonne hoc ipsum considerant quod proposuerunt, quia factus dicitur Christus sed ex muliere hoc est secundum partum virginis factus est, qui secundum divinam generationem ex Patre natus est? Et legerunt et hodie quia “Christus nos redemit de maledicto legis, factus pro nobis maledictum”. Numquid maledictum Christus secundum divinitatem est? Sed quare maledictum dicatur apostolus te docet dicens: “Quia scriptum est: Maledictus omnis qui pependit in ligno”, hoc est qui in carne sua nostram carnem, in suo corpore nostras infirmitates et nostra maledicta suscepit ut crucifigeret; non enim ille maledictus sed in te maledictus. Denique habes alibi: “Qui peccatum non cognovit sed pro nobis peccatum factus est”, quia nostra peccata suscepit ut sacramento suae passionis aboleret.
TraduzioneUno, dunque, dovrebbe seguire questa legge che conferma le decisioni del Concilio di Rimini, nel quale Cristo è stato definito «creatura»? Ma obiettano: “Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge”; leggono, dunque, nato: cioè creato. Non esaminano proprio il passo da loro citato, nel quale si dice che Cristo è nato, ma da una donna — cioè nato dal parto di una vergine —, mentre secondo la generazione divina è nato dal Padre? E anche oggi hanno letto che “Cristo ci ha redenti dalla maledizione della Legge, fattosi per noi maledizione”. Forse Cristo è maledizione secondo la divinità? Ma perché sia detto maledizione, te lo insegna l'Apostolo dicendo: “Perché sta scritto: Maledetto chiunque pende dal legno”; cioè, Chi nella sua carne assunse la nostra carne, nel suo corpo le nostre infermità e le nostre maledizioni per crocifiggerle: non è Lui maledetto, ma è maledetto in te. Perciò, in un altro passo, trovi: “Egli non conobbe peccato, ma divenne peccato per noi”, perché assunse i nostri peccati per cancellarli nel mistero della sua Passione.
Note386 d.C.
Testo originaleDominis fratribus dilectissimis episcopis per Aemiliam constitutis Ambrosius.
[1] Non mediocris esse sapientiae diem celebritatis definire paschalis et scriptura diuina nos instruit et traditio maiorum. Qui convenientes ad synodum Nicaenam inter illa fidei ut vera ita admiranda decreta etiam super celebritate memorata congregatis peritissimis calculandi decem et novem annorum collegere rationem et quasi quendam constituere circulum, ex quo exemplum in annos reliquos gigneretur. Hunc circulum 'enneadekaeterìda' nuncupaverunt sequentes illud quod non debeamus vana quadam opinione super celebritate huiusmodi fluctuare, sed vera ratione comperta ita omnium concurrat affectio, ut una nocte ubique sacrificium pro resurrectione domini deferatur. [2] Domini fratres dilectissimi, eo usque a vero nos deviare non convenit nec vago ingenio discrepare, ut quaedam necessitas celebritatis huius omnibus sit imposita Christianis, quando quidem ipse dominus eum elegit diem quo pascha celebraret qui cum obseruantiae uerae ratione concurrit. Scriptum est enim: "Venit autem dies in qua necesse erat pascha immolari et misit Petrum et lohannem dicens: Euntes ite, parate nobis pascha ut manducemus. At dixerunt: ubi vis paremus? Et dixit ad illos: ecce introeuntibus vobis in civitatem occurrit vobis homo amphoram aquae portans, sequimini eum in domum in quam intrat et dicetis patri familias: dicit tibi magister: ubi est diversorium ubi pascha cum discipulis manducem? Ipse vobis ostendet in superioribus locum magnum stratum, ibi parate". [3] Advertimus igitur quod non ad terrena descendere sed "in superioribus locum magnum stratum" quaerere debeamus ut domini pascha celebremus. Abluere etiam sensus nostros quadam spiritali aqua fontis aeterni et devotae celebritatis tenere mensuram nec opinione vulgari dies quosdam explorare lunares cum apostolus dicat: "Dies observatis et menses et tempora et annos: timeo ne sine causa laboraverim in vobis", nam incipit esse contrarium. [4] Sed aliud est observare gentilicio more ut qua luna quid adoriendum sit iudices, ut puta quintam esse fugiendam nihilque ea inchoandum, varios quoque cursus lunae obeundis negotiis commendare vel cavere quosdam dies, quemadmodum plerique posteros dies vel Aegyptiacos declinare consuerunt. Aliud est observantiam religiosae mentis intendere in eum diem de quo est scriptum: “Hic est dies quem fecit dominus”. Nam etsi scriptum sit quod pascha Domini quarto decimo die primi mensis celebrari debeat et vere quartam decimam lunana ad celebrandam dominicae seriem passionis inquirere debeamus, tamen ex hoc possumus intellegere quod ad huiusmodi solemnitatem vel ecclesiae perfectio vel clarae fidei plenitudo quaeratur, sicut dixit propheta cum loqueretur de filio dei quia “sedes eius sicut sol in conspectu meo et sicut luna perfecta in aeternum manet”. [5] Inde est quod et ipse Dominus cum opera in terris miranda fecisset quasi iam fundata humanarum mentium fide tempus passionis esse memoravit dicens: “Pater; uenit hora, clarifica filium tuum ut filius clarificet te”. Hanc enim celebrandae passionis claritudinem quaesitam alibi docet dicens: “Ite, dicite illi vulpi: Ecce eicio daemonia hodie et cras sanitates perficio et seguenti consummor die”. His utique consummatur Iesus qui incipiunt esse perfecti, ut plenitudinem divinitatis et redemptionis eius fide sua credant. [6] Ergo et diem et horam exquirimus ut scriptura nos instruit. Propheta etiam David dicit: “Tempus faciendi, domine”, petens accipere sensum ad agnoscenda domini testimonia; Ecclesiastes ait: “Omni rei tempus”; Hieremias clamat: “Turtur et hirundo agri passeres agnouerunt tempora introitus sui”. Quid autem evidentius quam de passione Domini dictum videri: “Agnovit bos possessorem suum et asinus praesepe Domini sui”. Agnoscamus ergo hoc praesepe domini in quo alimur pascimur ac reficimur. [7] Hoc igitur tempus praecipue scire debemus quo per universum orbem consona sacrae noctis fundatur oratio, quia et tempore commendantur preces sicut scriptum est: “Tempore accepto exaudiui te et in die salutis adiuvi te”. Hoc est tempus de quo apostolus dixit: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis”. [8] Unde necesse fuit, quia etiam post Aegyptiorum supputationes et Alexandrinae ecclesiae definitionem episcopi quoque Romanae ecclesiae per litteras plerique meam adhuc expectant sententiam, quid exstimem scribere de die paschae; nam licet futuri diei paschae inciderit quaestio, tamen etiam in reliquum quid tenendum videatur aperimus, si qua quaestio talis incurrerit. [9] Duo autem sunt observanda in solemnitate paschae, quarta decima luna et primus mensis qui dicitur novorum. Itaque ne a veteri testamento videamur discedere, ipsum de paschae celebrandi die capitulum recenseamus. Monet et Moyses populum dicens custodiendum mensem novorum, eum primum esse mensem praedicans, ait enim: “Hic mensis vobis principium mensuum, primus in mensibus anni, et facies pascha domino Deo tuo quarta decima die mensis primi”. [10] “Lex” nempe “per Moysen data est, gratia autem et veritas per Iesum Christum facta est”. Ipse ergo qui legem locutus est postea veniens per virginem novissimis temporibus plenitudinem legis consummavit, quia venit non legem solvere sed implere, et celebravit pascha ebdomade in qua fuit quarta decima luna quinta feria. Denique ipsa die sicut superiora docent pascha cum discipulis manducavit, seguenti autem die hoc est sexta feria crucifixus est luna quinta decima, sabbato quoque magno illo sexta decima fuit ac per hoc septima decima luna resurrexit a mortuis. [11] Unde haec lex paschae nobis servanda est ut non quartam decimam observemus in die resurrectionis sed in die magis passionis aut certe aliis proximis superioribus diebus, quia resurrectionis celebritas die dominica celebratur, dominica autem ieiunare non possumus, quia Manichaeos etiam ob istius diei ieiunia iure damnamus. Hoc est enim in resurrectione Christi non credere si legem quis ieiunii die resurrectionis indicat, cum lex dicat pascha edendum cum amaritudine hoc est cum dolore, quod tanto sacrilegio hominum auctor salutis sit interemptus, die autem dominica exultandum propheta docet dicens: “Hic est dies quem fecit dominus, exultemus et laetemur in eo”. [12] Ergo non solum passionis diem sed etiam resurrectionis observari oportet a nobis, ut habeamus et amaritudinis et laetitiae diem, illo ieiunemus, isto reficiamur. Unde si inciderit sicut futurum est proxime quarta decima luna mensis primi die dominica, quia neque dominica ieiunare debemus neque tertia decima luna die sabbati incidente ieiunium solvere, quod maxime die passionis est exhibendum, in alteram ebdomada celebritas paschae est differenda. Siquidem sequitur quinta decima luna qua passus est Christus et erit secunda feria, tertia quoque feria erit sexta decima luna qua Domini caro in sepulchro quievit, cum quarta etiam feria septima decima luna futura sit qua dominus resurrexit. [13] Cum igitur triduum illud sacrum in ebdomada proxime concurrat ultimam, intra quod triduum et passus est et quievit et resurrexit, de quo triduo ait: “Solvite hoc templum et in triduo resuscitabo illud”, quid nobis potest molestiam dubitationis afferre ? Nam si ea res scrupulum movet quia quarta decima luna non celebramus ipsum diem vel passionis vel resurrectionis, ipse dominus non quarta decima luna passus est sed quinta decima et septima decima resurrexit. Quod si movet quia quartam decimam lunam transeuntes, quae die dominica incidit hoc est quartum decimum kalendas Maias, seguenti dominica instaurandam celebritatem suademus, auctoritas exstat huiusmodi. [14] Nam temporibus paulo superioribus cum incidisset quarta decima luna mensis primi in dominicam diem, seguenti altera dominica celebrata solemnitas est. Octogesimo autem nono anno et nonagesimo tertio ex die imperii Diocletiani cum quarta decima luna esset nonum kalendas Aprilis, nos celebravimus pascha pridie kalendas Aprilis; Alexandrini quoque et Aegyptii ut ipsi scripserunt, cum incidisset quarta decima luna vicesimo et octavo die Famenoth mensis, celebraverunt pascha quinta die Farmutii mensis quae est pridie kalendas Aprilis ac sic convenere nobiscum. Rursus nonagesimo et tertio anno a die imperii Diocletiani cum incidisset quarta decima luna in quartum decimum diem Farmutii mensis quae est quintum idus Aprilis quae erat dominica dies, celebrata est paschae dominica Farmutii vicesimo et primo die qui fuit secundum nos sextum decimum kalendas Maias. Unde cum et ratio sit et exemplum, nihil super hoc movere nos debet. [15] Nunc illud est quod enodandum videtur, quia plerique putant secundo mense nos celebraturos pascha cum scriptum sit: “Custodi primum mensem novo rum” quod non potest incidere ut praeter mensem novorum pascha celebrent nisi qui quartam decimam ita obseruant secundum litteram ut non alio nisi ipso celebrent die. Denique futurum Iudaei duodecimo non primo mense celebraturi sunt pascha hoc est decimum tertium kalendas Aprilis secundum nos, secundum Aegyptios autem vicesimo quarto die Famenoth mensis qui est non primus mensis sed duodecimus <incipit enim quintum kalendas Martias et finitur septimum kalendas Aprilis; primus> incipit sextum kalendas Aprilis et finitur septimum kalendas Maias. Ergo secundum Aegyptios primo mense celebraturi sumus dominicam paschae hoc est septimum kalendas Maias qui est dies tricesimus Farmutii mensis. [16] Nec absurdum arbitror ut inde observandi mensis trahamus exemplum ubi primum pascha celebratum est. Unde et maiores nostris in tractatu concilii Nicaeni eundem ‘enneadekaeterìda’ si quis diligenter intendat statuendum putarunt et ipsum mensem novorum recte custodierunt, quia in Aegypto hoc primo mense nova secantur frumenta. Hic autem mensis et primus est secundum Aegyptiorum proventus et primus secundum legem et octavus est secundum consuetudinem nostram, indictio enim Septembri mense incipit; octavo igitur mense kalendae Aprilis sunt. Incipit autem mensis non secundum vulgarem usum sed secundum consuetudinem peritorum ab aequinoctio qui dies est duodecimum kalendas Aprilis et finitur undecimum kalendas Maias; inde maxime inter hoc triginta et unum dies saepe celebrati sunt paschae dies. [17] Sed cum ante sexennium celebraverimus paschae dominicam undecimum kalendas Maias hoc est tricesimo die mensis secundum nostram scilicet calculationem, moveri non debemus si et proxime tricesimo die Farmutii mensis celebraturi sumus paschae dominicam. Verum si quis mensem secundum id existimat quia post triduum completi mensis qui compleri videtur undecimum kalendas Maias paschae dominica erit, illud consideret quia quarta decima luna quae quaeritur quartum decimum kalendas Maias erit hoc est intra praescriptum mensis numerum; lex autem diem passionis exigit intra primum novorum debere celebrari. [18] Satisfactum est igitur secundum plenitudinem lunae cui ad complendum mensem supersunt tres alii dies. Non ergo in alterum mensem recidit quando intra eundem mensem qui primus est pascha celebrabitur. Ad litteram autem nos teneri non oportet; licet consuetudo celebrandi paschae ipsa nos instruat, tamen et apostolus docet qui ait: “Pascha nostrum immolatus est Christus”. Sed et proposita lectio docet litteram non sequendam, sic enim habes: “Et facies pascha domino Deo tuo quarto decimo die mensis primi”. Diem pro luna dicit, unde peritissimi quoque secundum legem lunari cursu computant mensem, et ideo cum a pluribus nonis lunae cursus incipiat hoc est dies primus vides nonas Maias adhuc ad mensem primum novorum computari posse. Ergo et iuxta legis sententiam primus hic mensis est. Denique ‘menen’ lunam vocant Graeci, unde ‘menas’ graece dicunt menses. Et naturalis usus nationum exterarum lunam pro diebus appellat. [19] Alium autem diem passionis, alium resurrectionis celebrandum veteris quoque testamenti series ostendit, sic enim habes: “Agnus sine macula mundus consummatus anniculus masculus erit vobis, ab ovibus et haedis sumetis et erit vobis in observatione usque in quartam decimam mensis huius et occideti. illum tota multitudo synagogae filiorum Israhel ad vesperum et sument a sanguine et ponent super duos postes et super limen ostii in domibus in quibus manducabunt eum inter semetipsos, manducabunt carnem hanc noctu igni assatam” Et infra: “Et edetis illum cum sollicitudine, pascha est enim domini, et pertransibo in terram Aegyptiorum in nocte illa et percutiam omne primitivum in Aegypto ab homine usque ad pecus et in omni terra Aegypti faciam vindictam, ego dominus, et erit vobis sanguis in signo in domibus in quibus eritis ibi et videbo sanguinem et protegam vos et non erit in vobis plaga exterminii et conteram terram Aegypti et erit dies hic vobis memorabilis et sollemnis et diem festum agetis eum Domino in progenies vestras, legitimum sempiternum diem festum agetis illum”. [20] Advertimus et passionis diem descriptum in ieiunio, quia ad vesperum occidendus est agnus, licet ultimum tempus pro vespere possimus accipere secundum Iohannem qui ait: “Pueri, nouissima hora est”. Sed et iuxta mysterium vespere diei constat occisum quando tenebrae statim factae sunt et ieiunium deferendum eo die verum est quia ita edetis illum cum sollicitudine; ieiunantibus enim sollicitudo adhaeret. Resurrectionis autem die exsultatio refectionis est atque laetitiae, quo die videtur exisse populus ex Aegypto primitivis Aegyptiorum necatis. Quod posteriora evidentius docent, in quibus ait scriptura quia postquam fecerunt Iudaei pascha sicut praecepit Moyses “factum est circa mediam noctem et dominus percussit omne primitivum in terra Aegypti a primitivo Pharaonis. Et vocavit Pharao Moysen et Aaron nocte et dixit Surgite et exite de populo meo et vos et filii Israhel, ite et servite domino Deo vestro. Et urguebant Aegyptii populum festinantes quam celerrime expellere”. Denique sic profecti sunt Israhelitae ut non occurreret sibi azyma fermentare, “eiecerant enim eos Aegyptii et non potuerant sustinere neque apparatum sibi fecerant in viam”. [21] Reseratum est igitur diem resurrectionis observandum post diem passionis, qui dies resurrectionis non quarta decima luna debet esse sed postea ut vetus loquitur testamentum, quia dies resurrectionis is cum egrediens populus de Aegypto in mari et in nube baptizatus e, ut apostolus dicit, mortem vicit, panem spiritalem accipiens et potum de petra hauriens spiritalem, nec passionem domini die dominica posse celebrari, et si quarta decima luna in dominicam inciderit adiungendam ebdomadem alteram sicut et septuagesimo sexto anno ex die imperii Diocletiani factum est; nam tunc vicesimo octavo die Farmutii mensis qui est nonum kalendas Maias dominicam paschae celebravimus sine ulla dubitatione maiorum. Simul etiam lunae cursus et ratio suffragatur quoniam vicesima prima luna proximum pascha celebrandum est, nam usque ad vicesimam primam lunam consueuit extendi. [22] Ergo cum tot veritatis indicia concurrant iuxta maiorum exemplum, festum publicae salutis laeti exsultantesque celebremus, postes nostros, ubi est ostium verbi quod sibi apostolus optat aperiri, fide passionis dominicae colorantes. De hoc ostio dicit etiam David: “Pone, domine, custodiam ori meo et ostium circuitus labiis meis”, ut nihil aliud nisi sanguinem Christi loquamur quo mortem vicimus, quo redempti sumus. Flagret in nobis odor Christi; ipsum audiamus, in illum et mentis et corporis oculos dirigamus, opera eius mirantes, beneficia praedicantes, super limen ostii nostri sacrae redemptionis confessio resplendeat. Sumamus ferventi spiritu sacramentum ‘in azymis sinceritatis et veritatis’ pia doctrina gloriam patris et filii et spiritus maiestatem individuam concinentes.
TraduzioneAmbrogio ai signori fratelli dilettissimi Vescovi residenti in Emilia.
[1] Non è avvedutezza di poco conto definire il giorno della celebrazione pasquale, e a questo riguardo ci istruisce la Scrittura divina e la tradizione dei padri. Questi, radunatisi nel Concilio di Nicea, tra le ben note decisioni in materia di fede — tanto autentiche quanto ammirevoli —, dopo aver chiamato a raccolta persone espertissime nel calcolo, anche a proposito della celebra-zione sopra ricordata stabilirono un periodo di diciannove anni e, per cosí dire, fissarono come un ciclo da cui trarre esempio per gli anni futuri [2] Chiamarono questo ciclo «di diciannove anni», seguendo il criterio che non dobbiamo ondeggiare, per così dire, con un'opinione infondata nei riguardi di una celebrazione di tanta importanza, ma che, dopo aver raggiunto la sicura conoscenza di un metodo fondato sulla verità, la disposizione di tutti si accordi in modo che nella stessa notte si celebri in ogni luogo il sacrificio per la Risurrezione del Signore. [2] Signori fratelli amatissimi, a tal punto non conviene che noi ci allontaniamo dalla verità né che siamo discordi per instabilità di carattere, che — per così dire — a tutti i cristiani è stata imposta una precisa norma per questa celebrazione, dal momento che lo stesso Signore scelse, per celebrare la Pasqua, quel giorno che corrispondeva alla prescrizione dell'autentica Legge religiosa. Sta scritto infatti: «Era venuto il giorno nel quale doveva essere immolata la Pasqua: e mandò Pietro e Giovanni dicendo: “Andate e preparate per noi la Pasqua, affinché mangiamo”. Ma quelli chiesero: “Dove vuoi che la prepariamo?”. Ed egli disse loro: “Ecco, quando entrerete in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua, seguitelo nella casa in cui entra e dite al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dov'è la stanza dove io posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?': Egli vi mostrerà al piano superiore una sala grande, addobbata: lí preparate”». [3] Notiamo, dunque, che non dobbiamo scendere nei luoghi a livello del terreno, ma cercare “nei piani superiori una grande sala addobbata” per celebrare la Pasqua del Signore. Dobbiamo anche lavare i nostri sensi, per così dire, con l'acqua spirituale della fonte eterna e osservare i limiti di una celebrazione devota, né cercare — secondo l'opinione del volgo — taluni giorni lunari, poiché l'Apostolo dice: «Voi osservate giorni e mesi e stagioni e anni; temo che per voi io mi sia affaticato invano»; infatti, comincia ad essere il contrario. [4] Ma altro è fare osservazioni, a guisa dei pagani, per giudicare con quale luna si debba iniziare qualcosa: come — per esempio — credere che si debba evitare il quinto giorno del mese lunare e non cominciare nulla in esso, raccomandare le varie fasi della luna per dare principio ad un'iniziativa o guardarsi da taluni giorni, come molti che sono soliti fuggire i giorni ‘successivi’ o quelli ‘egiziani’. Altro è, invece, rivolgere l'osservanza di un animo pio a quel giorno di cui sta scritto: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore». Infatti, sebbene stia scritto che la Pasqua del Signore deve essere celebrata il quattordicesimo giorno del primo mese, e in verità dobbiamo attendere la quattordicesima luna per celebrare gli avvenimenti della Passione del Signore, tuttavia da ciò possiamo comprendere che per una tale solennità si richiede o la perfezione della Chiesa o la pienezza d'una chiara fede, come disse il profeta quando parlava del Figlio di Dio, dicendo: «Il tuo seggio come sole al mio cospetto e come luna perfetta rimane in eterno». [5] Di conseguenza, anche lo stesso Signore, dopo aver compiuto in terra opere mirabili — avendo, per così dire, posto il fondamento della fede nelle menti umane — ricordò che era il tempo della sua Passione con queste parole: «Padre, è giunta l'ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te». Anche altrove insegna che da Lui era stata richiesta questa glorificazione del compimento della sua Passione, dicendo: «Andate a dire a quella volpe: Ecco io scaccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani, e il giorno seguente giungo al pieno compimento». Certamente Gesù giunse al pieno compimento in quelli che cominciano a essere perfetti, così da credere — mediante la loro fede — alla pienezza della sua divinità e della sua redenzione. [6] Cerchiamo, dunque, sia il giorno sia l'ora, come ci insegna la Scrittura. Anche il profeta Davide dice: «È tempo di agire, Signore», chiedendo di ricevere l'intelligenza per conoscere le testimonianze del Signore; l'Ecclesiaste dice: «C'è un tempo per ogni cosa»; Geremia proclama: «La tortora e la rondine, uccelli del campo, conoscono i tempi del loro arrivo». E che c'è di più evidente del fatto che sembra sia stato detto della Passione del Signore: «Il bue riconosce il suo padrone e l'asino la greppia del suo padrone?». Riconosciamo, dunque, questa greppia del Signore nella quale siamo alimentati, nutriti, ristorati. [7] Dobbiamo, dunque, conoscere soprattutto il tempo nel quale in tutto il mondo si effonde concorde l'orazione della notte sacra, perché le preghiere sono avvalorate anche dal tempo, come sta scritto: «In un tempo opportuno ti ho ascoltato e ti ho aiutato nel giorno della salvezza». Questo è il tempo di cui l'Apostolo ha detto: «Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salvezza». [8] Perciò era necessario, poiché, anche dopo i calcoli degli egiziani e la definizione della Chiesa di Alessandria, anche molti Vescovi della Chiesa di Roma, per mezzo di una lettera, attendono ancora il mio parere, che io esponessi per iscritto ciò che penso sul giorno della Pasqua. Infatti, sebbene la questione sia sorta per il giorno di Pasqua che deve venire, tuttavia spieghiamo quale regola sembra si debba seguire anche in futuro, nel caso che si presenti una simile controversia. [9] Due elementi devono essere considerati, nella solennità della Pasqua; la quattordicesima luna e il cosiddetto primo mese tra quelli nuovi. Pertanto, perché non sembri che ci allontaniamo dall'Antico Testamento, prendiamo in esame lo stesso capitolo che riguarda la celebrazione della Pasqua. Anche Mosè ammonisce il popolo dicendo che deve essere osservato un mese tra quelli nuovi, affermando che esso è il primo mese; dice infatti: «Questo mese sarà per voi il principio dei mesi, il primo tra i mesi dell'anno, e celebrerai la Pasqua per il Signore Dio tuo il quattordice-simo giorno del primo mese». [10] «La Legge», certamente, «è stata data per mezzo di Mosè, la grazia invece e la verità vennero per mezzo di Gesú Cristo». Quello stesso, dunque, che annunciò la Legge, venendo successivamente per mezzo di una vergine, negli ultimi tempi compì il perfezionamento della Legge, perché venne non ad abolire la Legge ma a compierla, e celebrò la Pasqua nella settimana in cui c'era la quattordicesima luna: il quinto giorno. Quindi, nello stesso giorno — come sopra si è detto —, mangiò la Pasqua con i discepoli; nel giorno seguente, poi — cioè nel sesto giorno —, fu crocifisso essendoci la quindicesima luna; e anche in quel grande sabato ci fu la sedicesima luna, e nel corso di tale giorno, durante la diciassettesima luna, risorse dai morti. [11] Perciò noi dobbiamo osservare questa legge della Pasqua, in modo cioè da non osservare la quattordicesima luna nel giorno della Risurrezione, ma piuttosto in quello della Passione o almeno negli altri giorni vicini che precedono, poiché la solennità della Risurrezione si celebra la domenica, e la domenica non possiamo digiunare lo, perché giustamente condanniamo i Manichei anche per i digiuni di questo giorno. Significa, infatti, non credere nella Risurrezione di Cristo se uno prescrive la legge del digiuno nel giorno della Risurrezione, poiché, mentre la Legge dice che si deve mangiare la Pasqua con amarezza, cioè con dolore — poiché con così orribile sacrilegio l'Autore della salvezza degli uomini è stato ucciso —, il profeta insegna che, invece, la domenica si deve far festa, dicendo: «Questo è il giorno che il Signore ha fatto, esultiamo e rallegriamoci in esso». [12] Dunque, dobbiamo osservare non solo il giorno della Passione, ma anche quello della Risurrezione, per avere sia un giorno d'amarezza sia uno di gioia: per digiunare nel primo, per riconfortarci nell'altro. Perciò, se cadrà di domenica — come sta per avvenire prossimamente — la quattordicesima luna del primo mese [marzo], poiché non dobbiamo digiunare di domenica né — quando la tredicesima luna cade di sabato — abolire il digiuno, che deve essere osservato soprattutto nel giorno della Passione, la celebrazione della Pasqua deve essere differita alla settimana successiva. Poiché segue la quindicesima luna, nella quale Cristo patì, e sarà il secondo giorno, così nel terzo giorno vi sarà la sedicesima luna, durante la quale il corpo del Signore riposò nel sepolcro, mentre anche nel quarto giorno vi sarà la diciassettesi-ma luna, quando Cristo risorse. [13] Or dunque, siccome quel sacro triduo prossimamente viene a cadere nell'ultima settimana, triduo entro il quale patì, morì e risorse, a proposito del quale il Signore dice: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», quale dubbio può turbarci? Infatti, se ci crea qualche problema il fatto che durante la quattordicesima luna non celebriamo il giorno stesso o della Passione o della Risurrezione, lo stesso Signore non patì nella quattordicesima luna, ma nella quindicesima, e nella diciassettesima risorse. Che se ci turba il fatto che, oltrepassando la quattordicesima luna, che cade di domenica — cioè il diciotto aprile —, proponiamo di indire la celebrazione la domenica seguente, esiste a tale proposito un precedente autorevole. [14] Infatti, or non è molto, essendo caduta la quattordicesima luna del primo mese in giorno di domenica, la solennità venne celebrata la domenica successiva. Nell'ottantanovesimo e nel novantatreesimo anno dall'inizio dell'impero di Diocleziano [373 e 377], cadendo la quattordicesima luna il ventiquattro marzo, noi celebrammo la Pasqua il trentun marzo; anche gli Alessandrini e gli Egiziani, come essi stessi scrissero, essendo caduta la quattordicesima luna nel ventottesimo giorno del mese di Famenoth, celebrarono la Pasqua nel quinto giorno del mese di Farmuthi, che corrisponde al trentun marzo, e così si trovarono d'accordo con noi. Di nuovo, nel novantatreesimo anno dall'inizio dell'impero di Diocleziano, essendo caduta la quattordicesima luna nel quat-tordicesimo giorno del mese di Farmuthi, che corrisponde al nove aprile — che era domenica —, la domenica di Pasqua fu celebrata il ventuno del mese di Farmuthi, che secondo il nostro calendario era il sedici aprile. Perciò, esistendo un motivo e un precedente, nulla deve turbarci a questo proposito. [15] Ora c'è un'altra questione che deve essere risolta: che cioè molti credono che noi celebriamo la Pasqua nel secondo mese, mentre sta scritto: «Osserva il primo tra i nuovi mesi», perché non può avvenire che celebrino la Pasqua, oltre il primo mese tra i nuovi, se non coloro che osservano la decimaquarta luna cosí alla lettera da non celebrarla in nessun altro giorno all'infuori di quello. Perciò i Giudei celebreranno la prossima Pasqua nel dodicesimo mese, non nel primo — cioè il venti marzo secondo il nostro calendario —; secondo quello degli Egiziani, invece, il ventiquattro del mese di Famenoth, che non è il primo mese, ma il dodicesimo: comincia, infatti, il venticinque febbraio e termina il ventisei marzo; il primo comincia il ventisette marzo e termina il venticinque aprile. Dunque, d'accordo con gli Egiziani, noi stiamo per celebrare la domenica di Pasqua nel primo mese, cioè il venticinque aprile, che è il trentesimo giorno del mese di Farmuthi. [16] Non credo assurdo ricavare il precedente per osservare il mese, dal tempo in cui per la prima volta è stata celebrata la Pasqua. Di lì, anche i nostri maggiori, nella celebrazione del Concilio di Nicea, ritennero di dover fissare — se si considera diligentemente la cosa — un medesimo periodo di diciannove anni, e osservarono lo stesso mese tra i nuovi, poiché in Egitto in questo primo mese si mietono i nuovi cereali. Ma questo mese è il primo secondo i raccolti degli Egiziani, il primo secondo la Legge, e l'ottavo secondo la nostra consuetudine; infatti l'indizione comincia col mese di settembre: dunque, le Calende di aprile cadono nell'ottavo mese. Il mese comincia, quindi, non secondo l'uso comune, ma — secondo la consuetudine degli esperti — dall'equinozio, giorno che corrisponde al ventun marzo e termina il ventun aprile; perciò, soprattutto entro questi trentun giorni sono state celebrate le feste pasquali. [17] Ma poiché sei anni or sono abbiamo celebrato la domenica di Pasqua il ventun aprile, cioè nel trentesimo giorno del mese secondo il nostro calcolo, non dobbiamo impressionarci se prossimamente celebreremo la domenica di Pasqua il trentesimo giorno del mese di Farmuthi. Ma se uno considera il mese in relazione al fatto che dopo tre giorni dalla fine del mese — che sembra finire il ventun aprile — sarà la domenica di Pasqua, consideri che la quattordicesima luna che si attende sarà il diciotto aprile, cioè entro il prescritto numero del mese; e la Legge esige che il giorno della Passione debba essere celebrato entro il primo dei nuovi mesi. [18] Si è osservato, dunque, il riferimento al plenilunio, al quale mancano altri tre giorni per completare il mese. La Pasqua, dunque, non cade nel mese successivo, perché sarà celebrata entro il medesimo mese, che è il primo. Non bisogna che noi ci facciamo schiavi della lettera: sebbene la stessa consuetudine del celebrare la Pasqua ci sia maestra, tuttavia anche l'Apostolo ci istruisce con queste parole: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato». Ma anche il testo proposto ci insegna che non dobbiamo seguire la lettera: «E celebrerai la Pasqua del Signore Dio tuo il quattordicesimo giorno del primo mese». Dice ‘giorno’ al posto di ‘luna’; quindi, anche i competenti secondo la Legge calcolano il mese mediante il corso lunare; e perciò, poiché il corso della luna — cioè il primo giorno — comincia molte volte dalle None, tu vedi che le None di maggio [7 maggio] possono essere ancora computate nel primo dei nuovi mesi. Dunque, anche secondo il dettato della Legge questo è il primo mese. Tant'è vero che i Greci chiamano ‘mene’ la luna, per cui in greco chiamano ‘menes’ i mesi. E l'uso consueto dei popoli stranieri dice luna al posto di giorni. [19] Il racconto dell'Antico Testamento mostra che la Passione e la Risurrezione devono celebrarsi in giorni diversi; così, infatti, trovi: «Il vostro agnello sarà senza macchia, mondo, perfetto, di un anno, lo sceglierete tra le pecore o le capre e lo serberete fino al quattordici di questo mese e tutta l'assemblea della comunità dei figli d'Israele lo ucciderà la sera e prenderanno del suo sangue e lo porranno sui due stipiti e sulla soglia della porta delle case nelle quali lo mangeranno tra loro; mangeranno di notte questa carne arrostita al fuoco». E sotto: «E lo mangerete in fretta; è infatti la Pasqua del Signore. E passerò nella terra d'Egitto in quella notte e colpirò ogni primogenito in Egitto, dall'uomo fino al bestiame, e in tutta la terra d'Egitto farò vendetta. Io sono il Signore. E il sangue vi servirà di segno nelle case in cui starete dentro, e vedrò il sangue e vi risparmierò e non vi sarà per voi flagello di sterminio e distruggerò la terra d'Egitto e questo giorno sarà per voi memorabile e solenne e lo celebrerete come giorno festivo per il Signore di generazione in generazione, lo celebrerete per sempre come giorno festivo stabilito dalla Legge». [20] Notiamo che anche per il giorno della Passione è stato prescritto il digiuno, perché la sera dev'essere ucciso l'agnello, sebbene per sera possiamo intendere l'ultimo tempo, come dice Giovanni: «Figliuoli, è l'ultima ora». Ma sappiamo anche, secondo il mistero, che fu ucciso la sera, quando ad un tratto calarono le tenebre; ed è ragionevole che in quel giorno si osservi il digiuno, perché lo dovrete mangiare in fretta; chi digiuna mangia in fretta. Invece nel giorno della Risurrezione c'è l'esultanza del ristoro e dell'allegrezza, perché in questo giorno appare che, dopo l'uccisione dei primogeniti degli Egiziani, il popolo uscì dall'Egitto. Tutto ci insegnano più chiaramente gli avvenimenti successivi nei quali — come dice la Scrittura —, quando i Giudei ebbero celebrato la Pasqua, come aveva prescritto Mosè, «a mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nella terra d'Egitto a cominciare dal primogenito del Faraone. E il Faraone chiamò Mosè ed Aronne durante la notte e disse loro: “Alzatevi e uscite dalla mia terra, voi e i figli d'Israele, andate e servite il Signore Dio vostro”. E gli Egiziani incalzavano il popolo, frettolosi di cacciarli al più presto». Di conseguenza, gli Israeliti partirono così in fretta che non ebbero il tempo di far fermentare gli azimi: «gli Egiziani, infatti, li avevano cacciati via e non avevano potuto attendere né prepararsi per il viaggio». [21] E stato chiarito, dunque, che il giorno della Risurrezione deve essere celebrato dopo quello della Passione; giorno della Risurrezione, che non deve cadere nella quattordicesima luna, ma dopo — come insegna l'Antico Testamento —, perché il giorno della Risurrezione è quello in cui il popolo, uscendo dall'Egitto, battezzato nel mare e nella nube, come dice l'Apostolo, vinse la morte ricevendo il pane spirituale e bevendo l'acqua spirituale che scaturiva dalla roccia. E stato inoltre chiarito che la Passione del Signore non si può celebrare di domenica e che, se la quattordicesima luna cade di domenica, deve aggiungersi la settimana successiva, come avvenne nell'anno settantesimosesto dall'inizio dell'impero di Diocleziano [360 d.C.]; infatti, allora, senza alcuna incertezza, celebrammo la domenica di Pasqua il ventottesimo giorno del mese di Farmuthi, che corrisponde al ventitré aprile. Nello stesso tempo, anche il corso della luna e il calcolo costituiscono un argomento che la prossima Pasqua deve essere celebrata alla ventunesima luna; infatti, per consuetudine, si arriva sino a tale luna. [22] Or dunque, dal momento che — secondo l'esempio dei padri — concorrono tanti elementi di verità, celebriamo la festa della comune salvezza con lieta esultanza, tingendo i nostri stipiti, dove c'è la porta del Verbo, che l'Apostolo desidera gli venga aperta con la fede nella Passione del Signore. Di questa porta dice anche Davide: «Poni, Signore, una custodia alla mia bocca e un battente che la difenda alle mie labbra», perché non parliamo d'altro che del sangue di Cristo, per mezzo del quale abbiamo vinto la morte e siamo stati redenti. Arda in noi il profumo di Cristo: Lui ascoltiamo, a Lui rivolgiamo gli occhi della mente e del corpo, ammirando le sue opere, esaltando i suoi benefici; sulla soglia della nostra porta risplenda il riconoscimento della sacra redenzione. Riceviamo con spirito fervente il sacramento “negli azimi della sincerità e della verità”, cantando con devota dottrina la gloria del Padre e l'indivisibile maestà del Figlio e dello Spirito.
Note385 d.C.
Molti critici la ritengono dubbia se non spuria.
Testo originaleConficior dolore quia ecclesia domini quae est in vobis sacerdotem adhuc non habet ac sola nunc ex omnibus Liguriae atque Aemiliae Venetiarumque vel ceteris finitimis Italiae partibus huiusmodi eget officio, quod ex ea aliae sibi ecclesiae petere solebant; et quod verecundius est, mihi ascribitur vestra intentio quae affert impedimentum. Nam cum sint in vobis dissensiones, quomodo possumus aliquid aut nos decernere aut vos eligere aut quisquam acquiescere, ut inter dissidentes suscipiat hoc munus quod inter convenientes vix sustinetur?
TraduzioneSono profondamente addolorato perché la Chiesa del Signore da voi costituita non ha ancora il vescovo, e ora — sola fra tutte quelle della Liguria, dell'Emilia e delle Venezie o fra tutte le altre parti d'Italia – manca di un tale presule, quale altre Chiese solevano chiedere ad essa; e, ciò che mi reca maggior vergogna, si attribuisce a me la vostra tensione, cui è dovuto l'ostacolo. Infatti, essendoci tra voi motivo di discordia, come possiamo, noi, prendere una decisione o voi giungere ad una scelta o uno adattarsi ad assumere tra persone discordi un tale compito che si esercita a fatica tra persone che vanno d'accordo?
Note396 d.C.
Indirizzata alla chiesa di Vercelli
NomeAssorati G.
NomeParisini S.