Titolo operaPunica
Anno90/100 ca. d.C.
Periodoetà flavia
EpocaAlto Imperiale
Noteed.: M.A. Vinchesi (a cura di), Le guerre puniche, 2 voll., Milano 2001 (trad. del curatore).
Testo originaleDum Romana tuae, Ticine, cadavera ripae / non capiant Simoisque mihi per Celtica rura / sanguine Pergameo Trebia et stipantibus armis / corporibusque virum retro fluat ac sua largo / stagna reformidet Thrasymennus turbida tabo, / dum Cannas, tumulum Hesperiae, campumque cruore.
TraduzionePurché le tue rive, o Ticino, non riescano a contenere i cadaveri dei Romani e, nuovo Simoenta, il Trebbia scorra all'indietro per le campagne celtiche, rigonfio del sangue di Pergamo e ostruito dalle armi e dai corpi dei guerrieri, purché il Trasimeno inorridisca dei suoi stagni intorbidati dalla molta putredine, purché io possa vedere dall'alto Canne, tomba dell'Esperia, e i campi di sangue...
Testo originaleFluit ecce cruentus / Eridanus.
TraduzioneEcco, l'Eridano scorre rosso di sangue
Testo originalePicenti rasilis hasta / ripis lecta Padi letum tulit. Avia namque / dum petit ac laevo meditatur fallere gyro, / hasta viri femur et pariter per anhela volantis / ilia sedit equi, geminam dedit horrida mortem.
TraduzioneA Picente dette la morte un'asta di legno ben levigato, recisa un giorno sulle rive del Po. Questi si dirigeva infatti verso un luogo poco accessibile con l'intenzione di eludere l' avversano girando a sinistra, quando l'asta si conficcò parimenti nella coscia del guerriero e nei fianchi ansimanti de: cavallo in fuga arrecando, crudele, una duplice morte.
NoteBattaglia del Ticino: 218 a.C.
Testo originaleScipio qua medius pugnae vorat agmina vertex / infert comipedem atque instinctus strage suorum / inferias caesis mactat Labarumque Padumque.
TraduzioneScipione spinge il suo destriero nel cuore della mischia, dove il turbine della battaglia inghiotte le schiere, ed eccitato per la strage dei suoi immola alle loro ombre Labaro e Pado.
Testo originaleAt consul tristes campos Poenisque secundam / planitiem metuens Trebiam collesque petebat. / Iamque dies rapti cursu navoque labore, / et medio abruptus fluitabat in amne solutis / pons vinclis, qui Dardanium travexerat agmen, / Eridani rapidas aderat cum Poenus ad undas, / dumque vada et molles aditus per devia flexo / circuitu petit et stagni languentia quaerit, / interdum rapta vicinis saltibus alno / flumineam texit, qua travehat agmina, classem. / ecce aderat Trebiaeque simul vicina tenebat / Trinacrio accitus per caerula longa Peloro / Gracchorum proles, consul. Gens inclita magno / atque animosa viro, multusque in imagine claris / praefulgebat avus titulis bellique domique. / Nec Poeni positis trans amnem in gramine castris / derant; namque animos stimulabant prospera rerum / increpitansque super ductor: «quis tertius urbi / iam superest consul? Quaenam altera restat in armis / Sicania? En omnes Latiae Daunique nepotum / conuenere manus. Feriant nunc foedera mecum / ductores Italum ac leges et pacta reposcant. / At tu, donata tela inter Martia luce, / infelix animae, sic, sic uivasque tuoque / des iterum hanc laudem nato, nec fine sub aevi / oppetere in bello detur, cum fata vocabunt. / Pugnantem cecidisse meum est». haec personat ardens. / Inde levi iaculo Massylumque impiger alis / castra sub ipsa datis irritat et elicit hostem. / Nec Latius vallo miles debere salutem / fas putat aut clausas pulsari cuspide portas. / Erumpunt, cunctisque prior volat aggere aperto / degener haud Gracchis consul. Quatit aura comantes / cassidis Auruncae cristas, umeroque refulget / sanguini patrium saguli decus. Agmina magno / respectans clamore vocat, quaque obvia densos / artat turba globos, rumpens iter aequore fertur, / ut torrens celsi praeceps e vertice Pindi / cum sonitu ruit in campos magnoque fragore / avulsum montis voluit latus, obvia passim / armenta immanesque ferae silvaeque trahuntur, / spumea saxosis clamat convallibus unda.
TraduzioneIl console intanto, temendo la trista pianura e il terreno favorevole ai Punici, si dirigeva verso il Trebbia e le alture. Già i giorni erano trascorsi rapidi in marce veloci e in lavori febbrili; il ponte che aveva trasbordato l'esercito romano era stato staccato da riva e galleggiava, sciolti gli ormeggi, in mezzo al fiume, quando il Punico si presentò presso le acque impetuose del Po vorticoso. E mentre, muovendo con giri tortuosi per luoghi poco accessibili, va alla ricerca di guadi e facili vie d'accesso, dove l'acqua ristagna lenta, fa abbattere intanto dai boschi vicini degli ontani con cui costruisce zattere da fiume per traghettare l'esercito. Ed ecco che, richiamato dal siculo Peloro, e percorsa la lunga distesa del mare, era giunto l'altro console, discendente dei Gracchi, e si era accampato ugualmente non lontano dal Trebbia. Illustre e coraggiosa era la famiglia di questo eroe e i suoi numerosi antenati rifulgevano, nelle loro raffigurazioni, di titoli gloriosi in pace e in guerra.
E c'erano anche i Punici, che si erano accampati nella pianura al di là del fiume; eccitavano i loro cuori il successo e le parole provocatorie del comandante: «Quale terzo console resta ancora a Roma? Quale seconda Sicilia in armi? Ecco, sono qui raccolte tutte le forze dei Latini e dei discendenti di Dauno. Sanciscano ora con me i patti, i condottieri d'Italia, e reclamino da me leggi e condizioni. Ma tu, cui è stata donata la vita, sventurato individuo, possa, sì possa tu continuare a vivere e procurare a tuo figlio tale gloria una seconda volta, ma non ti sia concesso sul finire dell'età, quando i destini ti chiameranno, di morire in guerra. E riservata a me la sorte di morire combattendo». Queste parole egli fa risuonare, tutto infiammato. Poi, senza indugio, spinge fin sotto campo romano gli squadroni dei Massili, armati di dardi leggeri, per provocare e far uscire il nemico.
Né il soldato romano ritiene conveniente affidare la propria salvezza a una trincea e lasciare che le lance nemiche battano le porte serrate. Fanno una sortita e per primo, innanzi a tutti, spicca il volo, attraverso i bastioni aperti, il console, non indegno discendente dei Gracchi. Il vento agita il folto pennacchio dell'elmo aurunco e sulla spalla risplende il mantello rosso sangue, glorioso ornamento della sua patria. Si volge indietro e chiama a gran voce le schiere, poi aprendosi un varco là dove la massa si restringe in fitti stuoli s'avanza nella pianura; così dalla vetta dell'alto Pindo un torrente precipita fragoroso sulla campagna e, staccato un fianco del monte, lo fa rotolare con grande fracasso; qua e là sul suo passaggio travolge armenti e fiere smisurate e foreste, e l'onda urla, spumeggiando, per le balze pietrose.
Note218 a.C.
Testo originaleNon, mihi Maeoniae redeat si gloria linguae / centenasque pater det Phoebus fundere voces, / tot caedes proferre queam, quot dextera magni / consulis aut contra Tyriae furor edidit irae. / Murranum ductor Libyae, ductorque Phalantum / Ausonius, gnaros belli veteresque laborum, / alter in alterius fuderunt comminus ore. / Monte procelloso Murranum miserat Axur, / Tritonis niveo te sacra, Phalante, profundo. / Ut primum insigni fulsit velamine consul, / quamquam orbus partem visus unoque Cupencus / lumine sufficiens bellis, citat improbus hastam / et summae figit tremebundam margine parmae. / Cui consul, namque ira coquit: «pone, improbe, quicquid / restat in ore fero et truncata fronte relucet». / Sic ait intorquens derecto turbine robur / et dirum tota tramittit cuspide lumen. / Nec levior dextra generatus Hamilcare saevit. / Huic cadit infelix niveis Varenus in armis, / Mevanas Varenus, arat cui divitis uber / campi Fulginia et patulis Clitumnus in arvis / candentes gelido perfundit flumine tauros. / Sed tristes superi, atque ingrata maxima cura / victima Tarpeio frustra nutrita Tonanti. / Instat Hiber levis et levior discurrere Maurus. / Hinc pila, hinc Libycae certant subtexere cornus / densa nube polum, quantumque interiacet aequi / ad ripas campi, tantum vibrantia condunt / tela, nec artatis locus est in morte cadendi. / Allius Argyripa Daunique profectus ab arvis / venator rudibus iaculis et Iapyge campum persultabat equo mediosque invectus in hostes / Apula non vana torquebat spicula dextra. / Huic horret thorax Samnitis pellibus ursae, / et galea annosi vallatur dentibus apri. / Verum ubi turbantem, solo ceu lustra pererret / in nemore aut agitet Gargano terga ferarum, / hinc Mago, hinc saevus pariter videre Maharbal, / ut subigente fame diversis rupibus ursi / invadunt trepidum gemina inter proelia taurum / nec partem praedae patitur furor, haud secus acer / hinc atque hinc iaculo devoluitur Allius acto. / It stridens per utrumque latus Maurusia taxus; / obvia tum medio sonuerunt spicula corde, / incertumque fuit, letum cui cederet hastae. / Et iam dispersis Romana per agmina signis / palantes agit ad ripas, miserabile, Poenus / impellens trepidos fluvioque immergere certat.
TraduzioneNon io, se anche mi si desse la voce gloriosa del poeta meonio, e se Febo padre mi accordasse cento bocche, non io potrei riferire tutte le stragi compiute dalla destra del console o, sul fronte avverso, dall'ira furente del Tirio. Il condottiero libico uccise Murrano, il condottiero ausonio Falanto, entrambi esperti di guerra e avvezzi alle fatiche militari: li abbatterono in un duello corpo a corpo, l'uno sotto gli occhi dell'altro. Murrano l'aveva mandato Axur dal monte avvolto di tempeste, e te, Falanto, il sacro Tritone dalle sue profondità luminose. Non appena ebbe riconosciuto il console dal fulgore del mantello, Cupenco, benché orbo e abile alla guerra per un solo occhio, scaglia temerario la lancia, che si conficca tremula sul margine superiore dello scudo. E a lui il console, ribollendo d'ira: «Perdi, temerario, ciò che resta sul tuo volto selvaggio e ancora risplende nella fronte mutilata». Così dice, e con impeto scaglia la lancia dritta su di lui e la punta trapassa per intero quell'occhio feroce. Non meno pesante infierisce la destra del figlio di Amilcare. Sotto i suoi colpi cade lo sventurato Vareno dall'armatura bianca come neve, Vareno nativo di Mevania, per la quale la fertile Fulginia ara i suoi ricchi campi e, nelle estese praterie, il Clitunno bagna con la sua fresca corrente i candidi tori. Ma gli dei sono severi e invano egli ha nutrito vittime di eccezionale grandezza per Giove tarpeo, con cura che non ha avuto ricompensa. L'Ibero incalza agile e, insieme con lui, il Mauro più agile ancora nei suoi movimenti. Da una parte i giavellotti romani, dall'altra le lance dei Libici fanno a gara nel ricoprire il cielo di una fitta nube, e tutta la distesa della pianura fino alle rive è nascosta da un vibrare di armi, e nella calca i morti non hanno più un posto dove cadere. Allio, il cacciatore venuto da Argiripa e dai campi di Dauno galoppava attraverso la pianura, armato di rozzi giavellotti, sul suo cavallo iapigio, e lanciandosi nel fitto del nemico scagliava con mano infallibile i suoi dardi apuli. Ha per corazza la pelle ispida di un'orsa sannitica e l'elmo è recinto delle zanne di un annoso cinghiale. Costui seminava lo scompiglio fra i soldati, come se battesse i covili delle fiere in un bosco solitario o inseguisse, nel Gargano, le belve in fuga, quando insieme lo scorsero da una parte Magone, dall'altra il crudele Maarbale; e come due orsi, spinti dalla fame, si gettano da opposte rupi su un toro tremante in mezzo al duplice assalto, e il loro furore impedisce di spartire la preda, non diversamente il fiero Allio è travolto dai colpi che vengono da entrambe le parti. I dardi mauri lo attraversano stridendo da parte a parte; le punte scontrandosi risuonarono in mezzo al petto e restò incerto a quale delle lance egli dovesse la morte. E già il Punico, mentre le insegne romane vagavano disperse fra le schiere, incalza l'avversario sbandato verso le rive del fiume, spingendolo mentre teme, e cerca, spettacolo pietoso, di annegarlo nel fiume.
Note218 a.C.
Testo originaleTum Trebia infausto nova proelia gurgite fessis / incohat ac precibus Iunonis suscitat undas. / Haurit subsidens fugientum corpora tellus / infidaque soli frustrata voragine sorbet. / Nec viti lentoque datur convellere limo / mersa pedum penitus vestigia; labe tenaci / haerent deuincti gressus, resolutaque ripa / implicat aut caeca prosternit fraude paludis. / Iamque alius super atque alius per lubrica surgens / dum sibi quisque viam per inextricabile litus / praeripit et putri luctatur caespite, lapsi / occumbunt seseque sua pressere mina. / Ille celer nandi iamiamque apprendere tuta / dura parat et celso conisus corpore prensat / gramina summa manu liquidisque emergit ab undis, / contorta ripae pendeus affigitur hasta. / Hic hostem orbatus telo complectitur ulnis / luctantemque vado permixta morte coercet. / Mille simul leti facies. Ligus occidit arvis, / sed proiecta viri lymphis fluvialibus ora / sanguineum hauserunt longis singultibus amnem. / Enabat tandem medio vix gurgite pulcher / Irpinus sociumque manus clamore vocabat, / cum rapidis illatus aquis et uulnere multo / impulit asper equus fessumque sub aequora mersit. / Accumulat clades subito conspecta per undas / vis elephantorum turrito concita dorso. / Namque vadis rapitur praeceps ceu proruta cautes / avulsi montis Trebiamque insueta timentem / prae se pectore agit spumantique incubat alveo. / Explorant adversa viros, perque aspera duro / nititur ad laudem virtus interrita clivo. / Namque inhonoratam Fibrenus perdere mortem / et famae nudam impatiens «spectabimur» inquit / «nec, Fortuna, meum condes sub gurgite letum. / Experiar, sitne in terris, domitare quod ensis / non queat Ausonius Tyrrhenave permeet hasta». / Tum iacit adsurgens dextroque in lumine sistit / spicula saeva ferae telumque in vulnere linquit. / Stridore horrisono penetrantem cuspidis ictum / belva prosequitur laceramque cruore profuso / attollit frontem ac lapso dat terga magistro. / Tum vero invadunt iaculis crebraque sagitta / ausi iam sperare necem, immensosque per armos / et laterum extensus venit atra cuspide vulnus. / Stat multa in tergo et nigranti lancea dorso, / ac silvam ingentem concusso corpore vibrat, / donec consumptis longo certamine telis / concidit et clausit magna vada pressa ruina.
TraduzioneAllora il Trebbia dà inizio, con le sue acque funeste, a una insolita battaglia contro quegli uomini sfiniti e, dietro preghiera di Giunone, gonfia i suoi flutti. Il terreno cedendo inghiotte i corpi dei fuggitivi e li risucchia, ingannevole, con perfida voragine. Non riescono a trovare alcun punto d'appoggio né a tirar fuori i piedi immersi in profondità nel fango vischioso; impediti di muoversi, restano prigionieri in quella melma tenace, e la riva sgretolandosi li avviluppa o li travolge nelle insidie invisibili della palude. Allora l'uno dopo l'altro tentano di alzarsi lungo il pendio sdrucciolevole e, mentre ciascuno cerca di afferrare per primo una via di scampo su quella riva impraticabile e lotta con le zolle putride, precipitano scivolando e restano schiacciati dalla loro stessa caduta. E quello che, veloce nuotatore, già sta per mettersi in salvo e, sollevandosi con sforzo, afferra con la mano la punta delle erbe ed emerge dal fiume, viene trafitto dal lancio di un'asta e resta inchiodato alla riva. Un altro, rimasto senz'armi, avvinghia con le braccia il nemico che si dibatte nel basso fondale e lo costringe a morire con lui. La morte si mostra nel medesimo istante con mille volti. Ligure cade sulla terraferma, ma la bocca riversa sul fiume beve con lunghi singulti l'acqua insanguinata. Stava finalmente per uscire, a nuoto, dal mezzo della corrente il bell'Irpino, e gridando chiamava al soccorso i compagni, quando un cavallo, trascinato dalle acque impetuose e reso furioso dalle molte ferite, lo travolse e lo sommerse, ormai stremato, sotto le acque.
Accrebbe il disastro la comparsa improvvisa della massa degli elefanti sospinti in mezzo ai flutti, col dorso sormontato da torri. Gli animali si lanciano impetuosi attraverso i fondali, simili a rocce che precipitano staccandosi dalla montagna, respingono col petto il Trebbia atterrito dall'insolita presenza e incombono sul letto spumeggiante del fiume. Ma l'avversità mette alla prova gli uomini ed è attraverso i pericoli che il valore intrepido si sforza di raggiungere la gloria per un erto pendio. E così Fibreno, non tollerando di sprecare una morte disonorevole e priva di gloria, «Sarò sotto gli occhi di tutti» dice «e tu, Fortuna, non cancellerai sotto i gorghi la mia morte. Proverò ora se c'è qualcosa al mondo che la spada ausonia non possa abbattere, o la lancia tirrena non sia in grado di trapassare». Poi ergendosi in tutta la sua persona scaglia l'arma crudele e la pianta nell'occhio destro di un elefante, lasciandola confitta nella ferita. Sentendosi trafiggere, la belva emette terribili barriti, alza la fronte squarciata e grondante sangue, e fugge, facendo cadere la sua guida. Allora tutti l'attaccano con fitto lancio di dardi e di frecce, osando ormai sperare di ucciderla, e le armi feriscono crudeli le enormi spalle e gli ampi fianchi. Il dorso e la groppa nerastra sono irti di innumerevoli lance e ogni colpo che raggiunge il corpo fa vibrare quella grande foresta; infine, dopo che il lungo combattimento ha esaurito le armi, stramazza e ostruisce il fondale con la sua vasta rovina.
Note218 a.C.
Testo originaleEcce per adversum, quamquam tardata morantur / vulnere membra virum, subit implacabilis amnem / Scipio et innumeris infestat caedibus hostem. / Corporibus clipeisque simul galeisque cadentum / contegitur Trebia, et vix cernere linquitur undas. / Mazaeus iaculo, Gestar prosternitur ense, / tum Pelopeus avis Cyrenes incola Thelgon. / Huic torquet rapido correptum e gurgite pilum / et quantum longo ferri tenuata rigore / procedit cuspis, per hiantia transigit ora. / Pulsati ligno sonuere in uulnere dentes. / Nec leto quaesita quies: turgentia membra / Eridano Trebia, Eridanus dedit aequoris undis. / Tu quoque, Thapse, cadis tumulo post fata negato. quid domus Hesperidum aut luci iuvere dearum / fulvos aurifera servantes arbore ramos? / Intumuit Trebia et stagnis se sustulit imis / iamque ferox totum propellit gurgite fontem / atque omnes torquet vires. Furit onda sonoris / verticibus, sequiturque novus cum murmure torrens. / Sensit et accensa ductor violentius ira / «magnas, o Trebia. et meritas mihi, perfide, poenas / exsolves» inquit. «Lacerum per Gallica rivis / dispergam tura atque amnis tibi nomina demam, / quoque aperis te fonte, premam, nec tangere ripas / illabique Pado dabitur. Quaenam ista repente / Sidonium, infelix, rabies te reddidit amnem?» / Talia iactantem consurgens agger aquarum / atque umeros curvato gurgite pressit. / Arduus adversa mole incurrentibus undis / stat ductor clipeoque ruentem sustulit amnem. / Necnon a tergo fluctus stridente procella / spurneus irrorat summas adspergine cristas. / Ire vadis stabilemque vetat defigere gressum / subducta tellure deus, percussaque longe / raucum saxa sonant, undaeque ad bella parentis / excitae pugnant, et ripas perdidit amnis. /Tum madidos crines et glauca fronde revinctum / attollit cum voce caput: «poenasne superbas / insuper et nomen Trebiae delere minaris, / o regnis inimice meis? Quot corpora porto / dextra fusa tua! Clipeis galeisque virorum, / quos mactas, artatus iter cursumque reliqui. / Caede, uides, stagna alta rubent retroque feruntur. / Adde modum dextrae aut campis incombe propinquis».
TraduzioneEd ecco che, muovendo in direzione opposta, Scipione, nonostante le ferite ritardino la sua avanzata, rimonta inesorabile il fiume e procura al nemico innumerevoli perdite. Il Trebbia è ricoperto dai cadaveri e insieme dagli scudi e dagli elmi dei caduti, e a stento se ne possono scorgere le acque. Mazeo è abbattuto da un dardo, Gestar da un colpo di spada, e poi è la volta di Telgone, abitante di Cirene, i cui antenati risalivano a Pelope. Contro di lui Scipione scaglia un giavellotto afferrato in mezzo alla corrente e gli trapassa la gola spalancata, per tutta la lunghezza della sottile punta di ferro. Risuonarono i denti, colpiti dal manico di legno dell'arma. Né la morte bastò a dargli la pace: il Trebbia cedette all'Eridano il suo corpo gonfio d'acqua, l'Eridano alle onde del mare. Anche tu cadi, Tapso, e dopo la morte ti è stata negata la sepoltura. A cosa ti sono valsi la dimora delle Esperidi e i sacri boschi delle dee, che custodiscono i fulvi rami degli alberi d'oro? Il Trebbia si gonfiò levandosi dagli abissi profondi, e impetuoso già spinge dall'alveo tutte le sue acque e scatena tutte le forze. L'onda infuria in gorghi risonanti ed è un torrente mai visto quello che scende con grande fragore. A tal vista allora il condottiero ancor di più s'infiamma d'ira: «Perfido Trebbia, grande e ben meritata è la punizione che pagherai a me» dice. «Mutilerò il tuo corso e lo disperderò in piccoli rivi attraverso le campagne galliche e ti toglierò il nome di fiume, ostruirò la fonte da cui sgorghi, e non ti sarà più concesso di toccare rive tue e di confluire nel Po. Cos'è, disgraziato, codesta rabbia che d'un tratto ha fatto di te un fiume sidonio?».
E mentre lanciava tali minacce, si levò una montagna d'acqua, che lo urtò gravando con ricurve ondate sulle spalle. Resta saldo il condottiero, opponendo, eretto, la sua potente corporatura all'assalto dei flutti e con lo scudo sostiene il fiume che gli precipita addosso. Dietro a lui intanto, nel sibilare della tempesta, i flutti spumeggianti bagnano di spruzzi la sommità del pennacchio. Il dio gli sottrae il terreno sotto i piedi, impedendogli di camminare sul suo fondale e di piantarvi passi sicuri; le rocce battute dalle acque emettono un suono cupo, che si diffonde lontano; le onde chiamate alla guerra partecipano al combattimento del loro padre, e il fiume non ha più rive. Allora solleva la chioma bagnata e il capo cinto di verdi fronde, così parlando: «Hai ancora l'arroganza di minacciare castighi e addirittura di cancellare il nome del Trebbia, tu, nemico del mio regno? Quanti corpi io porto, abbattuti dalla tua destra! Compresso dagli scudi e dagli elmi dei guerrieri da te immolati, ho lasciato il mio corso e il mio alveo. Le mie acque, tu lo vedi, sono rosse per la strage fino in profondità e rifluiscono all'indietro. Poni un limite alla tua destra oppure attacca le pianure vicine».
Note218 a.C.
Testo originaleHaec Venere adiuncta tumulo spectabat ab alto / Mulciber obscurae tectus caligine nubis. / Ingrauat ad caelum sublatis Scipio palmis: / «di patrii, quorum auspiciis stat Dardana Roma, / talin me leto tanta inter proelia nuper / servastis? Fortine animam hanc exscindere dextra / indignum est visum? redde o me, nate, periclis, / redde hosti! Liceat bellanti accersere mortem, / quam patriae fratrique probem». Tum percita dictis / ingemuit Venus et rapidas derexit in amnem / coniugis invicti vires. Agit undique flammas / dispersus ripis ignis multosque per annos / nutritas fluvio populatur fervidus umbras. / Uritur omne nemus, lucosque effusus in altos / immissis crepitat victor Vulcanus habenis. / Iamque ambusta comas abies, iam pinus et alni, / iam solo restans trunco dimisit in altum / populus adsuetas ramis habitare volucres. / Flamma vorax imo penitus de gurgite tractos / absorbet latices, saevoque urgente vapore / siccus inarescit ripis cruor. Horrida late / scinditur in rimas et hiatu rupta dehiscit / tellus, ac stagnis altae sedere favillae. / Miratur pater aeternos cessare repente / Eridanus cursus, Nympharumque intima maestus / implevit chorus attonitis ululatibus antra. / Ter caput ambustum conantem attollere iacta / lampade Vulcanus mersit fumantibus undis, / ter correpta dei crines nudavit harundo. / tum demum admissae voces et nota precantis / orantique datum ripas servare priores, / ac tandem a Trebia revocavit Scipio fessas / munitum in collem Graccho comitante cohortes. / At Poenus multo fluvium veneratus honore / gramineas undis statuit socialibus aras, / nescius heu, quanto superi maiora moverent, / et quos Ausoniae luctus, Thrasymenne, parares.
TraduzioneDa un'altura Mulcibero assisteva alla scena, nascosto dal velo di una nube oscura, e accanto a lui sedeva Venere. Levate le mani al cielo, Scipione così lamenta: «Dei della mia patria, per i cui auspici si erge Roma dardania, è per riserbarmi una simile fine che mi avete salvato poco fa in mezzo a così grandi battaglie? Vi è parso indegno che questa mia vita fosse troncata dalla destra di un valoroso? Rendimi, figlio mio, ai pericoli, rendimi al nemico! Mi sia consentito di trovare, combattendo, una morte che la patria e il fratello loderanno». Scossa da queste parole, allora Venere gemette e diresse contro il fiume la forza travolgente del suo sposo invincibile. Il fuoco propaga ovunque le fiamme, diffondendosi sulle rive, e la sua vampa devasta gli alberi ombrosi che per molti anni il fiume aveva nutrito. Tutti i boschi sono bruciati e Vulcano, dilagando a briglie sciolte sulle alte foreste, crepita vincitore. Già l'abete ha la chioma bruciata, già il pino e gli ontani, già il pioppo, di cui non resta che il tronco, ha visto fuggire verso il cielo gli uccelli avvezzi ad abitare i suoi rami. La fiamma consuma, vorace, le acque che ha risucchiato dagli abissi profondi e sulle rive, per effetto dell'intenso calore, il sangue si coagula e secca. Il terreno, divenuto rugoso, si fessura per vasto tratto e s'apre squarciato in profondità, e nell'alveo del fiume si alzano mucchi di cenere.
Il padre Eridano si stupisce al vedere il suo corso perenne arrestarsi d'improvviso e, mesto, il coro delle ninfe riempì di grida sgomente le grotte profonde. Tre volte egli tentò di sollevare il capo bruciato, ma Vulcano, scagliandogli contro un tizzone, lo costrinse a immergersi nelle acque fumanti, tre volte le canne presero fuoco, lasciando nuda la chioma del dio. Allora, finalmente, si dette ascolto alle sue parole e ai voti che formulava, e al dio orante fu concesso di mantenere le antiche rive; e infine Scipione, assieme a Gracco, richiamò dal Trebbia su un'altura fortificata le coorti sfinite. Ma il Punico onorò di molti omaggi il fiume e alzò altari di zolle alle acque amiche, ignorando, ohimè, quali maggiori successi gli dei stessero apprestando e quali lutti tu riserbassi all'Ausonia, o Trasimeno
Note218 a.C.
Testo originaleBoiorum nuper populos turbaverat armis / Flaminius, facilisque viro tum gloria belli / corde levem atque astus inopem contundere gentem / sed labor haud idem Tyrio cenasse tyranno.
TraduzionePoco prima Flaminio aveva attaccato le tribù dei Boi, ed era stato un facile successo per lui sconfiggere un popolo instabile nei sentimenti e privo di astuzia. Ma non era uguale impresa lottare con il signore tirio.
Note232 ca. a.C.
Testo originale[Flaminius:] «Umbrarum me noctibus atris / agmina circumstant, Trebiae qui gurgite quique / Eridani volvuntur aquis, inhumata iuventus. // Aspera quisque / hortamenta sibi referat: "meus, heu, meus atris / Ticini frater ripis iacet! at meus alta / metitur stagna Eridani sine funere natus!". / Haec sibi quisque».
Traduzione [Flaminio:] «Schiere di ombre mi stanno attorno nell'oscurità delle notti, quelli che il Trebbia travolge nei suoi gorghi, quelli che l'Eridano travolge nelle sue acque, guerrieri privi di sepoltura. (...) Ciascuno rivolga a se stesso queste fiere parole di incoraggiamento: "Mio fratello, ohimè, mio fratello giace sulle tetre rive del Ticino! Mio figlio, privato della sepoltura, misura il profondo letto dell'Eridano!". Questo ciascuno dica a se stesso».
Note217 a.C.
Testo originale[Marus:] «Amisimus Alpes, / nec deinde adversis modus est: Ticinus et ater stragibus Eridanus tuque insignite tropaeis / Sidoniis Trebia et tellus lacrimabilis Arni. / Sed quid ego haec? Gravior quanto vis ecce malorum!».
Traduzione[Maro:] «Abbiamo perduto le Alpi e da allora non c'è stato più limite alle sciagure: il Ticino e l'Eridano nero di sangue, e tu, Trebbia, reso famoso dai trofei sidonii, e tu, terra d'Arno, degna di pianto. Ma perché ricordare tali sventure? Quanto più grande è la violenza dei mali che ora incombono!».
Testo originaleIamdudum vultus lacrimis atque ora rigabat / Serranus medioque viri sermone profatur: / «Huic si vita duci nostrum durasset in aevum, / non Trebia infaustas superasset sanguine ripas, / nec, Thrasymenne, tuus premeret tot nomina gurges».
TraduzioneGià da tempo le lacrime rigavano i tratti e il volto di Serrano, ed egli interrompendo il racconto del soldato così dice: «Se questo comandante fosse vissuto fino ai nostri giorni, il Trebbia non avrebbe debordato, per il nostro sangue, dalle sue rive maledette, e le tue acque, Trasimeno, non terrebbero sepolti tanti uomini».
Testo originale[Hannibal:] «Addes Ticini spumantes sanguine ripas / et nostrum Trebiam et Thrasymenni litora Tusci / clausa cadaveribus».
Traduzione[Hannibal:] «Aggiungi le rive del Ticino schiumanti di sangue e il Trebbia nostro alleato e i lidi dell'etrusco Trasimeno ingombri di cadaveri».
Testo originaleIamque dolore furens ita secum imrnurmurat irae: / «Obvia si primus nobis hic tela tulisset, / nullane nunc Trebiae et Thrasymenni nomina? Nulli / lugerent Itali? Numquam Phaethontius amnis / sanguinea pontum turbasset decolor onda?».
TraduzioneE già nella furia dell'esasperazione così [Annibale] parla al suo animo irato: «Se in passato fosse stato quest'uomo ad affrontarci, varrebbe qualcosa ora il nome di Trebbia e di Trasimeno? Qualcuno degli Italici verserebbe lacrime? E il fiume di Fetonte avrebbe mai mutato di colore intorbidando il mare con le sue acque rosse di sangue?».
Testo originaleHuc tamen usque vigil processerat arte regendi / dictator, Trebiam et Tusci post stagna profundi / esset ut Hannibali Fabium Romanaque tela / evasisse satis.
TraduzioneQuesto risultato aveva tuttavia ottenuto l'attento dittatore con la sua tattica, che Annibale, dopo il Trebbia e il lago etrusco, s'accontentasse di essere sfuggito a Fabio e alle armi romane.
Note216 a.C.
Testo originale[Iuno:] «Ipsa adero. Tendat iamdudum in Iapyga campum. / Huc Trebiae rursum et Thrasymenni fata sequentur».
Traduzione[Giunone:] «Io sarò là. Si diriga senza indugio [Annibale] verso la pianura della Iapigia. Là lo seguiranno nuovamente i destini del Trebbia e del Trasimeno».
Note216 a.C.
Testo originaleSed non ruricolae firmarunt robore castra / deteriore cavis venientes montibus Umbri. / Hos Aesis Sapisque lavant rapidasque sonanti / vertice contorquens undas per saxa Mataurus, / et lavat ingentem perfundens flumine sacro / Clitumnus taurum Narque albescentibus undis / in Thybrim properans Tiniaeque inglorius umor / et Clasis et Rubico et Senonum de nomine Sena. / Sed pater ingenti medios illabitur amne / Albula et admota perstringit moenia ripa. / His urbes Arna et laetis Mevania pratis, / Hispellum et duro monti per saxa recumbens / Narnia et infestum nebulis umentibus olim / Iguvium patuloque iacens sine moenibus arvo / Fulginia, his populi fortes: Amerinus et, armis / vel rastris laudande Camers, his Sassina dives / lactis, et haud parci Martem coluisse Tudertes. / Ductor Piso viros spernaces mortis agebat, / ora puer pulcherque habitu, sed corde sagaci / aequabat senium atque astu superaverat annos. / Is primam ante aciem pictis radiabat in armis, / Arsacidum ut fulvo micat ignea gemma monili.
TraduzioneMa un aiuto non meno potente portarono all'esercito romano i contadini umbri, venuti dalle loro vallate fra i monti. Li bagnano l'Esino, il Savio, il Metauro, che spinge i suoi flutti veloci attraverso le rocce con gorghi risonanti, e il Clitunno che asperge i grandi tori con le sue acque sacre, il Nera, che precipita le sue bianche onde nel Tevere, il Topino dal modesto corso, il Chiascio, il Rubicone e il Sena, così chiamato dai Senoni. In mezzo al loro territorio scorre con la sua corrente possente l'Albula padre e lambisce le mura delle città, spingendo vicino le sue rive. Loro città sono Civitella d'Arne e Mevania dai pascoli rigogliosi, Spello e Narni adagiata sulle rocce della sua dura montagna, Gubbio da sempre molesta per le sue umide nebbie e Foligno che si stende, senza mura, nell'aperta campagna. Lì sono forti popolazioni: le genti di Amelia e i Camerti apprezzabili nell'uso delle armi come della vanga, quelli di Sarsina, ricca di latte, e i Tudertini, generosi nel venerare Marte. Pisone guidava quei guerrieri soliti a disprezzare la morte: era un ragazzo nel volto e avvenente d'aspetto, ma aveva un cuore sagace pari a quello di un vecchio e una scaltrezza superiore all'età. Dinanzi alle prime file rifulgeva nelle armi decorate, come una pietra lucente brilla nella corona d'oro degli Arsacidi.
Note216 a.C.; Sena: oggi Cesano; Albula: altro nome del Tevere.
Testo originaleVos etiam, accisae desolataeque virorum / Eridani gentes, nullo attendente deorum / votis tunc vestris casura ruistis in arma. / Certavit Mutinae quassata Placentia bello, / Mantua mittenda certavit pube Cremonae, / Mantua, Musarum domus atque ad sidera cantu / evecta Aonio et Smyrnaeis aemula plectris. / Tum Verona Athesi circumflua et undique sollers / arva coronantem nutrire Faventia pinum, / Vercellae, fuscique ferax Pollentia villi, / et quondam Teucris comes in Laurentia bella / Ocni prisca domus parvique Bononia Rheni, / quique gravi remo limosis segniter undis / lenta paludosae proscindunt stagna Ravennae. / Tum Troiana manus tellure antiquitus orti / Euganea profugique sacris Antenoris oris. / Necnon cum Venetis Aquileia supervenit armis. / Tum pernix Ligus et sparsi per saxa Bagenni / in decus Hannibalis duros misere nepotes. / Maxima tot populis rector fiducia Brutus / ibat et hortando notum accendebat in hostem.
TraduzioneAnche voi, popoli dell'Eridano, benché decimati e indeboliti di forze, siete corsi alla guerra e alla disfatta, senza che nessuno degli dei prestasse ascolto allora alle vostre preghiere. Piacenza, benché sconvolta dalla guerra, gareggiò con Modena nel mandare uomini, Mantova con Cremona, Mantova dimora delle Muse, innalzata fino alle stelle dal canto aonio ed emula della lira di Smirne. Poi Verona, bagnata tutt'intorno dall'Adige, e Faenza abile nel crescere i pini che fan corona da ogni parte ai suoi campi, Vercelli e Pollenza ricca di neri velli, e la città che un tempo fu alleata dei Teucri nella guerra contro i Laurenti, l'antica dimora di Ocno, Bologna sul piccolo Reno, poi quelli che col remo pesante nelle pigre acque fangose fendono gli stagni immobili della paludosa Ravenna. Poi la schiera troiana, che viene dall'antica terra euganea e dal suolo sacro dell'esule Antenore. E Aquileia riversa la sua massa di truppe venete. Poi i Liguri agili e i Vagenni che vivono sparsi fra le rocce inviarono i loro forti nipoti per accrescere la fama di Annibale. Bruto guidava tanti popoli, che avevano riposto in lui la massima fiducia, e i suoi discorsi infiammavano i loro cuori contro il nemico ben noto.
Note216 a.C.
Testo originaleDuctor in arma suos Libys et Romanus in arma / excibant de more suos, Poenisque redibat, / qualis nulla dies omni surrexerit aevo. / "Non verborum" inquit "stimulantum" Poenus "egetis, / Herculeis iter a metis ad Iapygis agros / vincendo emensi. Nusquam est animosa Saguntos, / concessere Alpes, Pater ipse superbus aquarum / Ausonidum Eridanus captivo defluit alveo. / Strage virum mersus Trebia est, atque ora sepulcro / Lydia Flaminio premitur, lateque refulgent / ossibus ac nullo sulcantur vomere campi. / Clarior his titulis plusque allatura cruoris / lux oritur. Mihi magna satis, sat vero superque / bellandi merces sit gloria; cetera vobis / vincantur quicquid diti devexit Hibero, / quicquid in Aetnaeis iactavit Roma triumphis, / Marmarides, tum Maurus atrox Garamasque Macesque / et Massylae acies et ferro vivere laetum / vulgus Adyrmachidae, pariter gens accola Nili / corpora ab immodico servans nigrantia Phoebo. / Quis positum agminibus caput imperiumque Nealces. / At parte in dextra, sinuat qua flexibus undam / Aufidus et curvo circum errat gurgite ripas, / Mago regit. Subiere leves, quos horrida misit / Pyrene, populi varioque auxere tumultu / flumineum latus. Effulget caetrata iuventus, / Cantaber ante alios nec tectus tempora Vasco / ac torto miscens Baliaris proelia plumbo / Baetigenaeque viri. Celsus media ipse coercet / agmina, quae patrio firmavit milite quaeque / Celtarum Eridano perfusis saepe catervis. / Sed qua se fluvius retro labentibus undis / eripit et nullo cuneos munimine vallat, / turritas moles ac propugnacula dorso / belva nigranti gestans ceu mobilis agger / nutat et erectos attollit ad aethera muros. / Cetera iam Numidis circumvolitare vagosque / ferre datur cursus et toto fervere campo".
TraduzioneIl condottiero libico e quello romano chiamavano alle armi i loro soldati, com'era d'uso, e per i Punici giungeva un giorno quale mai ne sarebbe sorto un altro di simile per tutti i secoli. «Non avete bisogno di parole di incitamento» disse il Punico «voi che avete percorso, vittoriosi, il cammino che dalle Colonne di Ercole vi ha portato alla pianura iapigia. La valorosa Sagunto non esiste più, le Alpi vi hanno ceduto il passo, il padre stesso dei fiumi d'Ausonia, il superbo Eridano, scorre con alveo prigioniero. Il Trebbia è sommerso da cumuli di cadaveri e la tomba di Flaminio preme la riva lidia e le campagne, non più solcate da alcun aratro, biancheggiano di ossa, per vasto tratto. Il giorno che sorge sarà più illustre di questi titoli di gloria e porterà più sangue ancora. Per me, la gloria sia ricompensa sufficiente della guerra, anzi più che sufficiente; tutto il resto sia vittoria vostra. Tutte le ricchezze che Roma ha trasportato giù dal ricco Ebro, tutte quelle che ha messo in mostra nei suoi trionfi sull'Etna, e Marmaride, poi il Mauro feroce, il Garamante, il Mace, le schiere dei Massili e il popolo degli Adirmachidi, che ama vivere della spada, e le genti che abitano le rive del Nilo e hanno i corpi neri per il sole eccessivo. A capo di queste truppe sta, quale comandante, Nealce. Sulla destra, là dove l'Ofanto piega il suo corso sinuoso e va errando fra le rive con acque tortuose, è Magone che guida le truppe. Lì presero posto i popoli armati alla leggera inviati dai selvaggi Pirenei e ingrossarono l'ala vicina al fiume, nel frastuono molteplice delle loro voci. Rifulgono i guerrieri armati dello scudo, i Cantabri innanzi a tutti gli altri, i Vasconi che non hanno protezione sulle tempie, i Baleari che nella mischia del combattimento fanno roteare le loro palle di piombo e gli uomini della Betica. Eccelso, Annibale in persona regge il centro dell'armata, che ha rafforzato con soldati della sua terra e con orde di Celti, soliti bagnarsi nelle acque del Po. Ma, dove il fiume, piegando il suo corso, si ritira lasciando privi di protezione i soldati disposti a cuneo, lì sta oscillante la fiera che porta sul nero dorso torri e difese possenti, simile a un bastione mobile, e innalza fino al cielo le sue alte mura. Infine ai Numidi è lasciato di scorrazzare all'intorno con incursioni inattese e di imperversare per tutto il campo».
NoteDiscorso di Annibale prima di Canne: 216 a.C.
Testo originaleIam vero, Eridani tumidissimus accola, Celtae / incubuere malis Italum veteresque doloris / tota se socios properarunt iungere mole. / Sed fas id Celtis, fas impia bella referre / Boiorum fuerit populis: Capuaene furorem, / quem Senonum genti, placuisse, et Dardana ab ortu / moenia barbarico Nomadum sociata tyranno / quisnam mutato tantum nunc tempore credat?
TraduzioneEd ecco che i popoli vanagloriosi che abitano le rive dell'Eridano, i Celti, vennero ad aggiungere il loro peso alle sventure dell'Italia e, mossi da antichi risentimenti, si affrettarono a unirsi al nemico con tutta la loro forza. Concediamo pure ai Celti, concediamo pure ai popoli dei Boi di combattere nuovamente un'empia guerra contro di noi: ma che Capua abbia preso la medesima folle decisione della tribù dei Senoni, che una città d'origine troiana abbia fatto alleanza col barbaro signore dei Nomadi, chi mai potrebbe crederlo, solo per il fatto che i tempi adesso erano mutati?
Note216 a.C.
Testo originalePostquam nunc dieta senatus, / nunc facta exposuit, tum veris falsa per artem / Virrius admiscens cecinit fatale cruenti / turbatis signum belli. Furiata iuventus / arma, arma Hannibalemque volunt. Ruit undique vulgus / et Poenos in tecta vocant. Ingentia facta / Sidonii iuvenis celebrant: ut ruperit Alpes / Herculei socius decoris divisque propinquas / transierit cursu rupes, ut caede referta / clauserit Eridani victor cada, victor ut idem / Lydia Romano turbarit stagna cruore, / ut Trebiae ripas aeterno nomine famae / tradiderit Paulumque idem inter proelia et idem / proceres rerum, demiserit umbris. / His super excisam primori Marte Saguntum / et fuga Pyrenes et Hiberum et sacra parentis / iuraturnque viro bellum puerilibus annis / accumulant. Unum ducibus tot caede peremptis, / tot fusis arie, stare inter proelia nullis / attactum telis. Superum cum munere detur / huic sociare viro dextras et foedere lungi, / fastus exsanguis populi vanumque tumorem / nimirum Capua et dominatum perferat / urbis ceu famulis fasces aequataque iura negantis? / Prorsus enim tanto potiorem in nomine habendum / Varronern, ut fugiat consul fulgentior ostro.
TraduzioneVirrio, dopo che ebbe esposto le parole e gli atti del senato, mescolando abilmente il vero col falso, fece risuonare dinanzi ai suoi ascoltatori turbati il segnale fatale della guerra sanguinosa. Folli d'ira, gli uomini reclamano le armi, le armi e Annibale; il popolo si riversa da ogni parte e invita i Punici dentro la città; non si fa che parlare delle grandiose imprese dell'eroe sidonio: come abbia infranto la barriera delle Alpi, compagno a Ercole nella gloria, e abbia superato rupi vicine agli dei; come abbia domato il Po con cumuli di uomini uccisi; come, ancora vincitore, abbia insozzato il lago lidio col sangue dei Romani; come avesse dato gloria eterna alle rive del Trebbia e come lui stesso, in battaglia, avesse mandato alle ombre dell'Ade Paolo e Flaminio, i comandanti romani. A tutto ciò aggiungono Sagunto abbattuta all'inizio della guerra e i gioghi dei Pirenei, l'Ebro e il sacrificio offerto dal padre e la guerra che egli giurò, ancora fanciullo, contro Roma. Lui solo, mentre tanti comandanti erano stati uccisi, tanti abbattuti sul campo, restava in mezzo alle battaglie invulnerabile ai colpi. Ora che per dono degli dei era concesso di unire le destre a questo eroe e di stringere con lui un patto d'alleanza, Capua dovrebbe tollerare la superbia e il vano orgoglio di un popolo senza più forza e la tirannia di una città che rifiutava loro, come fossero servi, i fasci consolari e uguali diritti? Varrone, certo, doveva essere ritenuto più degno di loro in così alta carica, per fuggire ben rifulgente nella porpora consolare.
Note216 a.C.
Testo originaleUt vero accepit tantum confidere divis / Ausonios patres summissaque Baetis ad oras / auxilia et noctu progressum moenibus agmen, / sic agitare fremens obsessos otia iamque / securam Hannibalis Romam violentjor instat. / Iamque propinquabat muro, cum Iuppiter aegram / Iunonem alloquitur curis mulcetque monendo: / "nullane Sidonio iuveni, coniunxque sororque / cara mihi, non ulla umquam sine fine feroci /addes frena viro? Fuerit delere Saguntum, / exaequare Alpes, imponere vincula sacro / Eridano, foedare lacus. Etiamne parabit / nostras ille domos, nostras perrumpere in arces? / Siste virum. Namque, ut cernis, iam flagitat ignes / et parat accensis imitari fulmina flammis".
TraduzioneMa quando apprese che il senato ausonio riponeva tanta fiducia negli dei e che erano stati mandati degli aiuti alle rive del Betis e che di notte l'esercito era uscito dalle mura, furioso al pensiero che gli assediati vivessero tranquillamente e che Roma così poco si preoccupasse di Annibale, allora attacca con maggior violenza. E già si avvicinava al muro, quando Giove si rivolge alla mesta Giunone e le parla carezzevole: «Sposa e sorella a me cara, nessun freno, sì, nessun freno porrai al guerriero sidonio, la cui ferocia non conosce limite? Concediamogli di aver distrutto Sagunto, di aver spianato le Alpi, di aver posto in catene il sacro Eridano, di aver profanato i laghi col sangue. Ma si appresterà anche a far irruzione nelle nostre dimore, sulle nostre rocche? Ferma quell'uomo. Perché, come vedi, già reclama i fuochi e s'appresta a imitare i fulmini con le torce».
NoteBattaglia di Canne: 216 a.C.
Testo originaleQuin contra intentior ipse / invigilat cautis fronte imperterritus armis / et struit arcana necopina pericula cura. / Haud secus Eridani stagnis ripave Caystri / innatat albus olor pronoque immobile corpus / dat fluvio et pedibus tacitas eremigat undas.
TraduzioneE anzi, egli stesso [Marcello] vigila con maggior attenzione, imperterrito nel volto, ma cauto nell'agire, e in segreto predispone piani per cogliere di sorpresa il nemico. Non diversamente, sulle acque calme dell'Eridano o sulle rive del Caistro nuota il bianco cigno, abbandonando il corpo immobile alla corrente, e con il remeggio delle zampe fende senza rumore i flutti.
NoteAssedio di Siracusa: 212 a.C.
Testo originaleOccupat inde prior promissis fesa Voluptas: / "quis furor hic, non digne puer, consumere bello / florem aevi? Cannaene tibi graviorque palude / Maeonius Stygia lacus excessere Padusque? / Quem tandem ad finem bellando fata lacesses? / Tune etiam temptare paras Atlantica regna / Sidoniasque domos? Moneo, certare periclis / desine et armisonae caput obiectare procellae. / Ni fugis hos ritus, Virtus te saeva iubebit / per medias volitare acies mediosque per ignes.
TraduzionePrende allora l'iniziativa Voluttà, fidando nelle sue promesse: «Quale follia è questa, o ragazzo che non lo meriti, di consumare nella guerra il fiore degli anni? Ti sei dimenticato di Canne e del lago meonio, più terribile della palude stigia, ti sei dimenticato del Po? Fino a quando provocherai il destino con le guerre? Ti accingi anche ad attaccare i regni di Atlante e le dimore sidonie? Ti avverto, cessa di affrontare i pericoli e di esporre la tua persona alle tempeste risonanti di armi. Se non fuggi questa condotta di vita, Virtù, crudele, ti farà correre qua e là in mezzo alle battaglie e alle fiamme».
Note211 a.C.
Testo originale[Miles quoque:] «Pro Iuppiter! Ictu procumbit saxi fessis spes ultima Paulus. Cesserit huic Trebia exitio».
Traduzione[Un soldato:] «Per Giove!, Paolo, ultima speranza per noi derelitti, cade colpito da una pietra. La disfatta del Trebbia potrebbe cedere il passo a questa che vedo».
Note216 a.C.
Testo originaleLux una eversas bis centum in strage curules / ac iuvenum bis tricenis orbata gemebat / milibus exhaustae nutantia moenia Romae, / atque ea post Trebiam, post Tusci stagna profundi, / nec socium numero pariter leviore perempto.
TraduzioneUna sola giornata piangeva i duecento magistrati abbattuti nel massacro, piangeva le mura incerte di una Roma spopolata, ora che era rimasta priva di trentamila soldati, e ciò dopo il Trebbia, dopo le profonde paludi del lago etrusco, e con una perdita non inferiore per numero di truppe alleate.
Note216 a.C.
Testo originale[Scipio pater Scipioni Africani:] «Si admoveris ora, / Cannas et Trebiam ante oculos Thrasymennaque busta / et Pauli stare ingentem miraberis umbram. / Quid? Tanto in casu comitum iuxtaque iacentum / torpebunt dextrae? Parce, oro, et lesine velle, / cui nequeas victor superesse».
Traduzione [Scipione padre a Scipione l'Africano:] «Se ti avvicinerai, vedrai, meravigliato, ergersi dinanzi ai tuoi occhi Canne e il Trebbia, i roghi del Trasimeno e la grande ombra di Paolo. E che? In così grave frangente resteranno inerti le destre dei suoi compagni e di chi gli giace a fianco? Fermati, te ne prego, e cessa di volere ciò a cui, anche se vincitore, non potresti sopravvivere»
Testo originaleSed non ille vigor, qui ruptis Alpibus arma / intulerat dederatque vias Trebiaque potitus / Maeonios Italo sceleravit sanguine fluctus, / tunc inerat.
TraduzioneNon c'era più tuttavia quel vigore che aveva portato le armi sulle Alpi vinte, aprendo nuovi cammini, e che, vincitore del Trebbia, aveva scempiato di sangue italico le onde meonie.
Testo originale[Hannibal:] «An vobis gentes, quaecumque labore parastis, / casu gesta putent? Per vos Tyrrhena faventum / stagna deum, per ego et Trebiam cineresque Sagunti / obtestor, dignos iam vosmet reddite vestra / quam trahitis fama et revocate in pectora Cannas».
Traduzione[Annibale:] «O forse i popoli dovranno credere che tutte le prove che avete compiuto sono da ascrivere al caso? Per il lago etrusco, dove gli dei ci furono propizi, per il Trebbia e le ceneri di Sagunto, io vi supplico, rendetevi nuovamente degni della reputazione che portate con voi e ricordatevi di Canne».
Note211 a.C.
Testo originale«Mea terga videre / contigit Ausoniae? mene» inquit «summe deorum, / post Trebiam statuis tam turpi funere dignum?».
Traduzione«E l'Italia ha avuto la sorte di vedermi fuggire?», disse [Annibale], «me dunque, o sommo fra gli dei, consideri degno, dopo il Trebbia, d'una morte così vergognosa?».
Testo originaleAnte oculos adstant lacerae trepidantibus umbrae, / quaeque gravem ad Trebiam quaeque ad Ticina fluenta / oppetiere necem, Paulus Gracchusque cruenti / Flaminiusque simul miseris ante ora vagantur.
TraduzioneTrepidano e finanzi ai loro occhi si levano spettri mutilati, quelli che trovarono la morte al Trebbia, quelli presso le acque del Ticino, Paolo e Gracco coperti di sangue e insieme Flaminio vagano dinanzi agli sguardi delle sventurate.
Testo originale[Claudius Nero:] «Hannibal, et Trebiam et Thrasymenni litora tecum / fraterno capite. I, duplica nunc perfida bella / et gerninas accerse acies. Haec praemia restant, / qui tua tramissis optarint Alpibus arma».
Traduzione[Claudio Nerone:] «Con la testa di tuo fratello abbiamo pareggiato con te Canne, o Annibale, e il Trebbia e le rive del Trasimeno. Va', raddoppia ora le tue guerre di perfidia e richiama al tuo fianco le due armate. Questo il premio che attende quanti, varcate le Alpi, vorranno unirsi a te».
Note207 a.C.
Testo originale[Iuno Hannibali:] «Cerno flagrantes oculos vultumque timendum / non ipso minus ense tuum, fortissime Poenum / o iuvenis, qualem vidi, cum flumine saevo / insignis Trebiae complexum ingentibus ulnis / mersisti fundo luctantem vana tribunum».
Traduzione[Giunone ad Annibale:] «Vedo gli occhi ardenti e il volto non meno temibile della tua spada, o giovane che sei il più forte dei Punici, quale vidi allora, quando serrasti con le tue forti braccia e annegasti nelle feroci acque del celebre Trebbia il tribuno che invano si dibatteva».
Testo originaleAt fessum tumulo tandem regina propinquo / sistit Iuno ducem, facies unde omnis et atrae / apparent admota oculis vestigia pugnae. / Qualem Gargani campum Trebiaeque paludem / et Tyrrhena vada et Phaethontis viderat amnem / strage virum undantem, talis, miserabile visu, / prostratis facies aperitur dira maniplis.
Traduzione[A Zama] Giunone ferma infine Annibale, sfinito, su un'altura vicina, da dove si offrono ai suoi occhi la vista e i segni dell'atroce battaglia. Come egli aveva scorto la pianura del Gargano e la palude del Trebbia, il lago etrusco e il fiume di Fetonte traboccanti di corpi, così si apre ai suoi occhi, triste a vedersi, lo spettacolo crudele delle sue truppe abbattute.
Note203 a.C.
NomeAssorati G.
NomeParisini S.